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Te à na testa da bater pài“, io  sta frase l’ho sempre detta e sentita ad indicare una persona con la testa dura che non capisce, o come si diceva un tempo duro de comprendonio.

Ma sta frase da dove ha origine e perché proprio batter pai?

Forse pochi lo sanno ma se Venezia esiste lo deve ai “Battipai” e alla loro fatica.

I “Battipài” sono coloro che hanno piantato tutti i pali sui quali poggia Venezia, un tempo, non solo anche  per l’ormeggio e per la navigazione lagunare.

Il palo è l’elemento più importante e essenziale di tutta l’urbanistica lagunare e dell’edilizia veneziana, pur essendo un elemento quasi invisibile agli occhi e discreto sorregge Venezia. Si dice infatti che la città sorga su una foresta rovesciata di alberi delle Dolomiti.

Il terreno sul quale sorge  è del tutto particolare; sotto la terra emersa troviamo un primo strato di fango di riporto alluvionale ed un sottostante strato compatto di argilla e sabbia chiamato “CARANTO”. Per poter edificare è stato quindi necessario dapprima solidificare la zona piantando dei pali di legno appuntiti generalmente di larice o rovere fino al raggiungimento del “CARANTO”, su questi poi veniva formato uno zatterone di tavole di larice da dove si elevavano le fondazioni in blocchi di pietra d’Istria. La palificazione doveva essere tanto più fitta ed espansa in relazione alla costruzione soprastante. Per avere un’idea, pensiamo al Ponte di Rialto che poggia le sue estremità su 12.000 pali di olmo, mentre la stessa palificazione della Chiesa della Salute durò due anni circa.

Il palo non è solo importante per l’urbanistica ma anche per l’arredo urbano; le “BRICOLE” per la segnaletica dei canali navigabili; le “PALINE” per l’attracco delle barche; i “VIERI” per la pesca e l’allevamento dei mitili, nonchè supporti per i pontili. Oggi i pali “BRICOLE” per delimitare i canali in laguna, seppur ancora in legno, vengono piantati con mezzi meccanici, mentre per l’edilizia si fa uso di pali in cemento armato.

I “battipai” rendevano possibile tutto ciò e ritmavano la loro fatica con un canto cadenzato tipo una marcia che aveva lo scopo di coordinare i movimenti delle persone che impugnavano il maglio, lo strumento per battere il palo, una sorta di testa appunto. E proprio con la testa, come riportato nella foto, veniva battuto il palo a forti colpi fino a conficcarlo nel fango della laguna e siccome non era un operazione facile, la testa doveva essere dura per poter conficare bene il palo fino in fondo. 

Ho trovato la testimonianza del loro canto:

O issa eh

e issalo in alto oh

e in alto bene eh

poiché conviene oh

per ‘sto lavoro eh

che noi l’abbiamo oh

ma incominciamo eh

me se Dio vuole oh

lo feniremo eh

ma col santo aiuto oh

viva San Marco eh

repubblicano oh

quello che tiene eh

l’arma alla mano oh

ma per distruggere eh

el turco cane oh

fede di Cristo eh

la sé cristiana oh

quela dei turchi eh

la sé pagana oh

e spiegaremo eh

bandiera rossa oh

bandiera rossa eh

è segno di sangue oh

e spiegaremo eh

bandiera bianca oh

bandiera bianca eh

è segno di pase oh

e spiegaremo eh

bandiera nera oh

bandiera nera eh

è segno di morte oh.

Alberta Bellussi

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Il Marzapane è un dolce estremamente semplice con origini antichissime.

Marci panis ovvero “il pane di Marco”: sembrerebbe essere questa l’etimologia della parola, anche se molti ritengono che derivi dall’arabo maw-thabán, che era un’unità di capacità in uso a CIPRO e in ARMENIA quale sottomultiplo del moggio. Questa unità di misura cedette il suo nome al contenitore tarato sulla misura stessa;  era una scatoletta  di legno leggero dotata di un coperchio che venne utilizzata per diversi usi, per chiudere la corrispondenza o i documenti importanti (da questo il modo di dire “aprire i marzapani”) ma anche per spedire speciali dolci prodotti a Cipro. Dato che questi dolci prendevano forma dalla scatola ed erano simili a pani, il nome dell’involucro passò al contenuto. A quei tempi l’influenza araba e mediorientale era molto sentita, gli arabi introdussero anche le spezie nella cultura gastronomica Siciliana.

Il marzapane è sempre sembrato essere indissolubilmente legato alla Sicilia – dove raggiunge la sua massima espressione con la frutta martorana – ma in realtà è diffuso in  tanti altri Paesi. Nonostante sia complesso rintracciarne le origini precise, è chiaro che le sue radici affondano nella cultura araba, che l’ha poi introdotto in Europa intorno all’anno Mille, durante la dominazione islamica della Sicilia. Prima ancora però, dolcetti simili erano prodotti dagli antichi Etruschi in occasione dei rituali funebri e venivano offerti alle divinità ma la vera ricetta della pasta di mandorle è  veneziana.

Risale alla Serenissima, infatti, la prima ricetta codificata che ne rivendica la paternità anche per via del nome appunto, “pane di Marco” e risale al 1300: in quel periodo la repubblica marinara era fra le poche a reperire gli ingredienti più rari e pregiati come lo zucchero e le mandorle, alla base  di questo dolce. I Veneziani iniziarono a commercializzare i panetti di marzapane, per le occasioni speciali, come la festa di San Marco o il carnevale, e un tempo contrassegnata con il simbolo del leone di San Marco. Il nome divenne in tedesco Marzipan, mentre in Sicilia si tornò al nome originario di pasta reale.

La ricetta base del marzapane prevede l’uso di farina di mandorle, zucchero e albumi d’uovo, ma come sempre ingredienti e quantità variano a seconda della zona e delle tradizioni locali.

INGREDIENTI (250 g di marzapane)

125 g di farina di mandorle

125 g di zucchero a velo

30 g albume d’uovo pastorizzato

5-6 gocce di aroma di mandorla

Il marzapane che ho preparato è costituito soltanto da farina di mandorle, zucchero a velo e albume.  Vi consiglio di utilizzare l’albume già pastorizzato che si trova in commercio al supermercato per evitare di mangiare l’albume crudo. Mettete in un recipiente la farina di mandorle e lo zucchero a velo. Aggiungete l’albume, un po’ alla volta, l’aroma di mandorla e amalgamate con un cucchiaio. Aggiungete l’albume piano piano fino ad ottenere una massa densa. La quantità di albume può cambiare in base alla oleosità della farina di mandorle.

Dopo pochi minuti impastate con le mani e il marzapane è pronto.

Alberta Bellussi

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 Il Cavallo di San Martino si mangia l’11 novembre. Nella giornata di commemorazione del Santo si ricorda un momento importante  della vita contadina del passato, in questa data infatti, venivano rinnovati i contratti agricoli annuali e per l’occasione si festeggiava con i frutti della stagione autunnale, tra i quali il vino novello.

L’ antico proverbio, “A San Martino ogni mosto è vino”, ricorda che in questo periodo si aprono le botti per assaggiare il vino che spesso accompagna la degustazione di questi dolci.

Questo dolce-biscotto è per tradizione preparato a Venezia  ma ormai la consuetudine si è estesa in tutto il Veneto dove questi simpatici cavalli vengono esposti in bella mostra nelle vetrine di numerose pasticcerie. E’ un dolce molto apprezzato dai bambini,
Ha la forma caratteristica di San Martino a cavallo con decori di ogni tipo: dalla glassa di zucchero alla copertura ricoperto di cioccolato e guarnito con cioccolatini e caramelle.

Ricetta

100gr di Miele di Acacia

300gr di Zucchero Semolato

600gr di Burro

200gr di Uova

5gr di Sale

10gr di Lievito Chimico

1kg di Farina

Per preparare i biscotti ponete tutti gli ingredienti su una spianatoia ed impastate bene per amalgamare e ottenere un impasto liscio ed omogeneo. Lasciatelo riposare, avvolto nella pellicola trasparente, per almeno un’ ora in frigorifero. Stendete l’impasto in una sfoglia dello spessore di mezzo centimetro circa con lo stampino e disponete le forme su di una teglia foderata con carta forno. Se non avete la formina adatta non abbiate paura, create la forma del cavallo a mano oppure scaricatela da una qualsiasi immagine dal web e riproducetela su di in un cartoncino. Infornate le sagome in forno statico preriscaldato a 180° fino a quando non si sarà imbiondita la frolla e dunque abbastanza croccante da reggere la glassatura. Vi sembrerà strano leggere tra gli ingredienti il Miele ma sarà un grande alleato per gargantirvi la consistenza giusta. Ora non vi resta che glassare sciogliendo il cioccolato a bagnomaria o al microonde e dare sfogo alla vostra creatività con le decorazioni dolci!!

Alberta Bellussi

 

 

 

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La Pasqua è la festa cristiana per eccellenza.

A Venezia anche la Pasqua è stata influenzata dalle città con le quali la Serenissima si rapportava. Pensiamo infatti come la città di Venezia, più di tutte, per il suo glorioso passato e grazie al commercio abbia potuto confrontarsi con culture e religioni di tutto il mondo, rivedendo il proprio modo di intendere le tradizioni religiose. Basti pensare quanti credo religiosi sono presenti nella città, da uno dei più importanti Ghetti Ebraici del mondo, a San Lazzaro degli Armeni con la chiesa ortodossa, ai copti, alle tantissime chiese cristiane ecc.

Per esempio l’utilizzo dell’uovo è stato preso dalla cultura orientale con la quale Venezia era a contatto quotidiano. L’uovo, da sempre, è considerato il simbolo della vita e della rigenerazione e rispecchia quindi il messaggio pasquale della vittoria della vita sulla morte…

Il giorno della Pasqua si festeggiava con l lauti banchetti e con la preparazione della dolce “fugassa” (focaccia), molto simile all’attuale colomba pasquale; si festeggiava la resurrezione di Cristo, la Sua rinascita e si poneva fine al periodo del digiuno e delle privazioni quaresimali.

A Venezia c’era però anche una festa nella festa; il doge con tutto il suo seguito, effettuava una di quelle “andate”, come si chiamavano i cortei dogali che si svolgevano in determinate ricorrenze, per recarsi, a piedi lungo la Riva, alla chiesa di San Zaccaria e all’annesso monastero, dove veniva accolto, sul portone, dalla badessa congiuntamente alle altre monache.

Il doge veniva quindi accompagnato all’altare maggiore dove, insieme a tutta la Signoria, ascoltava la messa officiata dal Patriarca. Subito dopo si svolgeva un sontuoso banchetto nel refettorio del convento, preparato dalle monache in suo onore. Non solo, in questa occasione, il doge veniva anche omaggiato con un corno dogale, la corona del doge, confezionato dalle stesse monache. La leggenda e la cronaca fanno risalire il primo omaggio del tradizionale corno al doge, alla badessa Agostina Morosini, che offrì il primo al doge Pietro Tradonico (836-864).

Non solo il doge godeva delle bontà gastronomiche pasquali.

Proverbi culinari pasquali

Fugassa e uova entrarono a far parte del cultura culinaria pasquale veneta a tal punto che ne derivarono alcuni proverbi:

“No xè Pasqua sensa fugassa”

 “Xè Pasqua, xè Pasqua che caro che gò, se magna ea fugassa, se beve i cocò”

A Pasqua, trista xè la polastra che no la fa el vovo

 

RICETTA: La fugassa veneta

per uno stampo di carta per focaccia da 750 grammi

Ingredienti

250 g di farina 00

250 g di farina manitoba

70 ml di latte tiepido

4 uova intere medie a temperatura ambiente

12 g di lievito di birra fresco* (aumentate la quantità ( a 20 g) se dovete ridurre i tempi e farla in giornata senza riposo notturno)

150 g di zucchero

100 g di burro temperatura ambiente

1 presa di sale

5 cucchiai di aroma spumadoro oppure buccia di arancia e limone grattugiata

Per glassare:

latte

burro

2 cucchiai di zucchero zucchero in granella

oppure

1 albume

2 cucchiai di zucchero zucchero in granella

mandorle

Istruzioni

Per il lievitino:

In un recipiente di vetro sciogliete il lievito di birra nel latte tiepido, con 20 grammi di zucchero e 100 grammi delle farina che avrete mischiato. Formate la pastella coprite con della pellicola e lasciate riposare, fino al raddoppio (circa 1 ora).

Primo impasto:

Nel recipiente della planetaria, unire 200 grammi di farina, 2 uova e 80 grammi di zucchero. Aggiungete il lievitino e cominciate a lavorare il tutto con il gancio fino a che l’impasto inizia ad incordare.

Unite 50 grammi di burro morbido a piccoli pezzetti e continua a lavorare per circa 30 minuti, finché l’impasto sarà molto morbido e liscio.

Formate una palla con l’impasto e mettete a riposare coperto, al caldo, finché non sarà raddoppiato (circa 1 ora 1 ora e 1/2).

Secondo impasto:

Sempre nella planetaria, aggiungete la restante farina (200g ), 50 grammi di zucchero e le 2 uova, il sale e gli aromi.

Aggiungete l’impasto lievitato e cominciate a lavorare un’altra volta con il gancio finché sarà bello liscio, e unite gli altri 50 grammi di burro morbido a pezzetti.

Continuate a lavorare finché l’impasto sarà bello liscio, molto morbido ed elastico ma non appiccicoso. Ci vorrà un po’ più di tempo, anche 45 minuti. L’impasto sarà pronto quando si staccherà in un unico blocco.

Quindi rimettetelo a riposare, coperto con la pellicola, finché sarà raddoppiato. Io anche tutta la notte a temperatura ambiente (circa 20°C).

finale:

Sgonfiare l’impasto, formate una palla e mettetela nell’apposito stampo e lasciate ancora a lievitare in un posto caldo, coperto, circa 2 ore. L’impasto dovrà arrivare al bordo dello stampo. Lasciate l’impsto scoperto per 10-15 minuti in modo che si formi una leggera pellicola e con una lametta praticare un taglio a croce.

Spennellate il dolce con la “glassa”: per la versione più semplice, che io preferisco, spennellate con un po’ di latte e mettete qualche pezzetto di burro poi cospargete con lo zucchero in granella o semolato. Per la versione più ricca montate a neve l’albume con lo zucchero, spennellate la superficie del dolce e cospargete di zucchero in granella e mandorle.

Mettete in forno caldo statico a 170°C su una placca, a griglia possibilmente, e appena la focaccia si colorerà sopra coprite con un foglio di carta alluminio e portate a cottura finale. Ci vorranno circa 45-50 minuti, fate la prova stecchino e fatela raffreddare su una gratella.

Una volta raffreddata potete conservarla per qualche giorno dentro ad un sacchetto di plastica per alimenti.

Alberta Bellussi

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Da dove deriva il nome Carnevale?

Il nome Carnevale deriva dal latino “carnem levare” (togliere la carne), riferito in origine al banchetto che precedeva il mercoledì delle ceneri, giorno a partire dal quale non era consentito mangiare carne.

Il Carnevale di Venezia è uno dei più antichi e famosi del mondo, con i balli in costume, gli spettacoli, le maschere che si aggirano tra calli e canali in un’atmosfera unica. Nella Serenissima durante il periodo di Carnevale era concessa ogni forma di inganno e finzione, tanto che chiunque poteva mascherarsi ed essere ammesso niente meno che alla presenza del Doge; ricchi e poveri, persone benestanti e indigenti, proprietari di vascelli e semplici marinai, cristiani, ebrei, uomini e donne.

A Venezia, nei secoli passati, l’usanza di indossare una maschera, risultando quindi irriconoscibili, andava oltre il periodo di Carnevale. Per questo motivo il governo dovette intervenire a più riprese per rivedere la legislazione in merito.

La maschera veneziana ha, davvero, origini antichissime; il primo documento che parla dell’uso dei travestimenti a Venezia è datato 1094 poi a partire dal 1271 a divenne il centro di scuole e botteghe di mastri artigiani (chiamati mascareri) che elaborarono tecniche sempre più sofisticate.

 

Maschere veneziane più famose

La maschera veneziana più celebre è la Baùta, uno dei travestimenti più comuni nel Carnevale antico, soprattutto a partire dal XVIII secolo. Ancora oggi è una delle figure più richieste, perché può essere indossata sia dagli uomini che dalle donne: è costituita da una particolare maschera bianca, completata dal tabarro, un lungo mantello scuro tradizionale. La baùta veniva utilizzata non solo a Carnevale, ma anche a teatro, alle feste, negli incontri galanti e ogni volta che desiderasse il totale anonimato durante il corteggiamento.

Altra maschera diffusa all’epoca era la Moretta, indossata dalle donne, che consisteva in una maschera tonda nera che si reggeva grazie a un bottone interno trattenuto dalle labbra. Per questo motivo veniva anche detta servetta muta, perché non consentiva né di parlare né di mangiare o bere. Altri costumi tipici per le donne sono la Gnaga, costituito da semplici abiti e una maschera da gatta, e la Colombina, considerata la controparte femminile della bauta. Questa maschera in particolare è molto richiesta perché non copre l’intero viso ma solo la zona degli occhi e può essere retta da un nastro attorno alla testa o da un bastoncino da tenere in mano.

Il Carnevale venne fermato dopo la caduta della Repubblica di Venezia (1797), e l’assoggettamento della città agli Austriaci e ai Francesi, anche se la tradizione venne conservata sulle isole di Murano e Burano. Solo alla fine degli anni ’70, su iniziativa di alcune associazioni e privati cittadini, fu deciso di reintrodurre i festeggiamenti. Il Carnevale tornò ad essere celebrato ufficialmente nel 1979.

Alberta Bellussi

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E’ questo un racconto che appartiene a quella raccolta di racconti emotivi nei quali ho fermato momenti significativi della mia vita; condivido questo racconto sul magico momento di fare la Pinza e la vecia per il Panevin.

….La nonna di Maria era birichina, nella vecchiaia si era liberata dalle paure e dai blocchi che la società, a quel tempo, imponeva a una giovane vedova, quale era, ed era sempre pronta allo scherzo, al gioco e alle cose allegre.

Cucinava benissimo; era brava in tutte le ricette venete e Maria, bimba curiosa assorbiva tutto ciò che la nonna faceva e annotava i suoi segreti culinari, in un quadernetto, a cui nessuno poteva accedere solo lei. Lì si trova la ricetta della Pinza, la selvaggina, la peverada, le trippe, la sopa coarda, le fritoe ecc.

Ancor oggi questo libello è il Cucchiaio d’argento delle ricette venete di Maria.

Lei aspettava con ansia l’Epifania per due compiti che ogni anno le venivano attribuiti e per i quali lei si sentiva onorata; faceva la pinza con la nonna, dolce tipico di questo periodo della tradizione veneta e la vecia per il panevin del Borgo che tutti, la sera del 5 gennaio, avrebbero guardato le faville per vedere la profezia per il nuovo anno.

Il giorno della preparazione della Pinza la cucina era un cantiere…pentole, mestoli, passini, farina doppio zero e farina da polenta gialla, semi di finocchio, uvetta, lievito, aromi, arance, limoni profumavano l’ambiente; profumo che da quando la nonna se n’è andata per sempre Maria ogni anno ha bisogno di ritrovare nel rito epifanico della pinza.

Maria e la nonna ridevano piene di farina e di zucca.

La nonna ripeteva ogni anno le stesse parole come appartenessero ad un rituale magico: ”Si la zuca la e bona, tien un po’ de sugo, no massa fenoci che sennò la pica, le uvete metteghen tante, ancora farina che la e poentina”.

La zucca bolliva sul fuoco pronta per essere passata da Maria con il passino per divenire una crema gialla e densa che era il punto di partenza di questo dolce particolare. Poi faceva bollire i semi di finocchi in un pentolino e ne aggiungeva un po’ al composto. E poi la farina da polenta gialla, la buccia di limone e arancia gratuggiata con un po’ di sugo, gli aromi di vaniglia, rum.

Poi nel lavello si risciacquava uvetta di due tipi; l’uvetta sultatina con gli acini piccoli e l’uva cilena con gli acini grandi. Per la nonna di Maria il connubio delle due uvette, in quantità notevole, era il vero segreto della sua ricetta.

Il tutto veniva amalgamato con la farina 00 che rendeva l’impasto omogeneo.

E alla fine aggiunto il lievito e un cucchiaio di bicarbonato per rendere tutto più digeribile.

La nonna girava la grande pentola con l’impasto sopra due teglie.

Il forno era a 280 gradi caldo per accogliere questa prelibatezza.  Maria infornava le teglie e programmava il timer 60/70 minuti.

Non vedeva l’ora che iniziasse a diffondersi per la casa quel profumo intenso di Pinza che ogni anno si ripresentava, sempre lo stesso, e che Maria avrebbe riconosciuto fra mille. Era unico; era quello loro. E dopo venti minuti nella casa si sentivano tutti i sapori degli ingredienti del dolce invadere le stanze.

Maria spiava dalla finestrina del forno e vedeva l’impasto ogni volta prendere il suo colore e alcune uvette che salivano in superfice e si bruciacchiavano.

Ed ecco era pronta. La pinza della nonna era buonissima e tutti, la sera del Panevin, la venivano ad assaggiare. Sì perché la pinza è il dolce che accompagna questa usanza veneta.

Il falò ma in veneto Panevin è quella tradizione tra il sacro e il profano. Maria partecipava a tutte le tradizioni della sua terra era occasione di festa di condivisione e a lei piaceva molto.

Il Panevin di Via Gajo iniziava a prendere forma la mattina del 5 gennaio. Gli uomini portavano i tralci delle viti dei loro campi potati per farne una grande catasta alta anche 20 metri che si ergeva attorno ad un palo.   Mentre alcuni mettevano gli strati di legna per dar forma al falò altri cucinavano braciole, polenta, salsicce e costicine… accompagnate da un pentolone di vin brulè. Le persone del borgo, durante il giorno, facevano tutte un giretto nel luogo del panevin, che di solito veniva fatto nel campo di Condo.  Bisognava stare molto attenti a non inciampare nelle canne del mais del campo ancora da arare dopo la trebiatura.

Maria aveva il compito di costruire la vecia che veniva posta sopra la catasta a rappresentare l’anno vecchio che se ne va.

Ogni anno andava nella soffitta della mamma dove era accatastato di tutto, una sorta di mondo antico in quella enorme stanza li fermo nel tempo. Saliva e rovistava tra le cose per trovare   una maglia, una gonna, delle calze, un foulard e qualche vecchia canottiera. Una volta costruito il fantoccio, lei lo riempiva di paglia per dargli consistenza. La cosa che piaceva di più a Maria era rendere femminile e sensuale quel fantoccio. La vecia del Borgo era sempre bella, ben truccata con un vezzo femminile che la caratterizzava; un anno la giarrettiera, un altro un reggiseno in pizzo o una rosa tra i capelli. Una volta finita la vecia, tutta felice, con i suoi amici la portava agli uomini del Panevin. Erano tutti in attesa di vedere come era la vecia di quell’anno e tra risate e battute ilari, veniva posizionata sopra il grande falò a dominare la campagna veneta.

Alle otto di sera veniva accesso e attorno al fuoco, nell’attesa di vedere la divinazione delle faville, si invocavano antichi canti in latino, che di quella antica lingua avevano solo una lontana somiglianza ma quella che Maria ascoltava sempre con interesse era la classica invocazione religiosa Pan e vin. Pan e vin in dialetto veneto che faceva:

Che Dio ne dae la  sanità de pan e vin,

del vin e del pan.

Pan e vin soto le stee

che le biave vegne bee ” .

facevano eco le donne.

Tanta uva e pan e vin,

da lontan e da vizin .“

E ancora:

Pan e vin !

Pan e vin !

La pinza sul larin,

La luganega su par el camin,

La massera in te la panera,

El servitor nel canevon

che me beve quel poc de vin bon.

Pan e vin ! Pan e vin !

La pinza sul larin

La poenta sul fondal

Viva viva carneval”.

E mentre i canti continuavano attorno alla catasta infuocata, le faville iniziavano a prendere la loro direzione e i vecchi ne traevano l’auspicio per il nuovo anno:

“Se le fuische le va a matina, ciol su el saco e va a farina.

Se le fiusche  le va a sera,  polenta pien caliera.

Se le fuische va a mezodì poenta tre volte al di”.

E anche per quell’anno la divinazione era compiuta e le faville andavano a mezzodì e Maria era felice perché lei amava visceralmente le tradizioni della terra veneta di cui si sentiva appartenere.

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In questi giorni di inizio autunno dove, alla sera, l’aria più fresca ti fa venire quella voglia di calore, di tepore  con un balzo indietro  nel tempo torno, emozionata, nella cucina dove la regina incontrastata era la mia cara nonna Maria e la stùa.  La stua detta anche cusina economica era sempre accesa da settembre a maggio perché era il fulcro della casa e il suo calore era una carezza calda che ti accoglieva sempre.

E la nonna che con la cesta della legna in parte diceva:-“ Berta butta su un zochet che no more el fogo”. E tutto il giorno, a intervalli più o meno brevi, per ravvivare il fuoco la nonna buttava su un zochet.  E alla mattina presto accendeva il fuoco, parche el ciape, co i stec secchi.  

La cucina economica delle case dei nostri nonni era una stufa in ghisa smaltata e rispondeva a più funzioni: cucinare, riscaldare o scaldare l’acqua.  La nostra aveva quattro porticine una per la legna, una per la cenere, un forno piu grande e uno più piccolo. Quante volte mi sono scaldata le mani sopra la piastra in ghisa al ritorno da scuola in bici in inverno o i piedi dentro al forno; dentro il fondo ci mettevo spesso anche i guanti e i calzini a scaldare prima di uscire in bici quando d’inverno faceva freddo. Era un calore antico che ti scaldava anche il cuore.

La piastra in ghisa aveva degli anelli che si alzavano, mi sembra sei in tutto, dal più grande al più piccolo che si chiudeva con un cerchio con un buchetto in mezzo che si alzava con un pichet de ferro. Si poteva alzare per dare una sistemata alla legna e ravvivare il fuoco

Sopra la piastra in ghisa non mancavano mai pentole e pentolini, e ognuno aveva quelli secondo le proprie abitudini: “un teciet col pomo cot el va sempre ben” e poi le fette di polenta del pranzo che diventavano croccanti se le lasciavi sopra la piastra tutto il giorno e il pane del giorno prima lo trovavi dentro il forno che era diventato pan biscotà; in inverno una pentola col brodo, che poi lasciato sopra un giorno intero, diventava più intenso del dado insomma se avevi fame a qualsiasi ora del giorno nella cucina economica trovavi qualcosa da mangiare. E da novembre in un angolo della piastra c’erano sempre le castagne calde pronte da sbucciare.

A mezzogiorno la stùa era a pieno fuoco con le pentole che bollivano con spezzatino, stufato, selvaggina per il pranzo e appena aprivi la porta di casa sapevi cosa avresti mangiato perché sulla piastra della cucina c’era un mescolio di profumi che si diffondeva ovunque.

Sul  filo di ferro sopra la piastra erano appese cazze e cazut di ogni tipo che servivano per prendere,  mescolare e poi una serie di presine, detti ciapin, fatte all’uncinetto con gli avanzi della lana dei lavori a ferri che erano un arcobaleno di colori. A volte le presine cadevano sulla piastra ed la lana si  bruciacchiava.

La nostra stufa aveva anche la vaschetta dell’acqua sempre piena e sempre calda. Alla sera prendevi la cazza e riempivi con quell’acqua la butiglia dell’acqua calda, che la nonna chiamava boza, da mettere sotto le coperte per scaldarsi i piedi nella speranza che la butiglia non perdesse, sennò ti trovavi i piedi bagnati.

Faceva freddo ma io sentivo il caldo abbraccio delle cose semplici che la nonna mi insegnava a vivere.

La cucina economica è stata il cuore pulsante di ogni casa rurale  veneta da sempre perché cucinava, riscaldava, asciugava… una macchina multiuso a tutti gli effetti. La vita della famiglia veneta si svolgeva attorno a questo oggetto che ha una carica fortemente iconica perché riporta alla memoria momenti familiari e conviviali, sensazioni, calore e profumi: il sapore di un caldo passato del quale provo una tenera nostalgia.

Alberta Bellussi

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Il 2 giugno è la Festa della Sensa (dell’Ascensione di Gesù al cielo quaranta giorni dopo la Pasqua).

Io ricordo un proverbio che mia nonna diceva sempre in questa giornata: “ se piove el dì della Sensa par quaranta dì nol ne assa senza”. E dicevano che ogni anno tutti aspettavano questo giorno per vedere se il proverbio si ripeteva.

Questa festa poggia le basi nella millenaria storia della Serenissima, il suo intimo rapporto con il Mare e con la pratica della Voga alla Veneta.

Commemora due eventi importanti per la Repubblica: il 9 maggio dell’anno 1000, quando il doge Pietro II Orseolo soccorse le popolazioni della Dalmazia minacciate dagli Slavi; fu l’inizio dell’espansione veneta nell’Adriatico.

E poi l’anno 1177, quando, sotto il doge Sebastiano Ziani, Papa Alessandro III e l’imperatore Federico Barbarossa stipularono a Venezia il trattato di pace che pose fine alla diatriba secolare tra Papato e Impero.

In occasione di questa festa si faceva il rito dello Sposalizio del Mare, festa che si ripete da quasi mille anni; il  Doge, sul Bucintoro, raggiungeva S. Elena all’altezza di San Pietro di Castello; lì ad  aspettarlo  il Vescovo, a bordo di una barca con le sponde dorate, pronto a benedirlo.  Questo evento aveva lo scopo di sottolinea il forte legame della Serenissima col mare e la potenza che aveva raggiunto.  La Festa  aveva un rito  propiziatorio, infatti  il Doge, una volta raggiunta la Bocca di Porto, lanciava  nelle acque un anello d’oro come simbolo di sposalizio.

Ai giorni nostri si ricorda questa festa con un corteo acqueo da San Marco al Lido di imbarcazioni tradizionali a remi, alla cui testa c’è la “Serenissima“, dove prendono posto il sindaco e le altre autorità cittadine.  Si celebra ancora il rito dello sposalizio con il mare per sottolineare il grande legame che ancor oggi lega Venezia al mare;  tutto ciò avviene attraverso una cerimonia di lancio in acqua di un anello e una successiva funzione religiosa nella chiesa di San Nicolò di Lido.

Alberta Bellussi

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Ricordo che, quando mi fermavo a dormire dalla nonna a Negrisia, non vedevo l’ora che venisse sera per andare a letto perché mi raccontava sempre le stesse due favole. La camera mi faceva un po’ paura però… si saliva per una scala di legno che ad ogni gradino cigolava…la luce era con una lampadina flebile che dava un’atmosfera un po’ tetra.  I mobili erano di quelli della cultura contadina di un tempo, testiera di legno massiccio lucido e scuro e armadio con quattro ante per farla compita sopra la testiera c’era un quadro a bassorilievo della Madonna con il bambinetto. Il copriletto me lo ricordo era azzurro solfato di raso… a me bimba bionda e sognatrice però interessavano le favole della nonna.

La prima era questa:

Oselin bell’oselin che tempo fa

Bon tempo sior paron ma na cativa nova

E la nonna andava avanti a raccontarmi tutte le cose che accadevano in questa fattoria e io mi divertivo un sacco.

 

Petìn e Petèe

i ‘ndea a sciosee.

Petìn ghe dise a Petèe:

“Petèe, ‘ndéne casa!

col to sac de sciosee.”

“Mi no, eh!”

Ghe dise a Petìn, Petèe.

 

“Eóra ciàme el can che te magne!

Can! magna Petèe

che no ‘l vòl vegnér casa co ‘el so sac de sciosee!”

“Mi no, eh, che no mòrseghe  Petèe

che no ‘l vòl vegnér casa co ‘el so sac de sciosee!”

 

“Eóra ciàme el baston che te bastone!

Baston! Bastona el can,

che el can no ‘l mòrsega Petèe,

che Petèe no ‘l vòl vegnér casa co ‘el so sac de sciosee!”

“Mi no, eh, che no bastone el can,

che no ‘l mòrsega Petèe,

che no ‘l vòl vegnér casa co ‘el so  sac de sciosee!”

 

“Eóra ciàme el fògo!

Fògo! Brusa el baston,

che no ‘l bastona el can,

che no ‘l mòrsega Petèe

che no ‘l vòl vegnér casa co ‘el so  sac de sciosee !”

“Mi no, eh, che no bruse el baston

che no ‘l bastona el can,

che no ‘l mòrsega Petèe,

che no ‘l vòl vegnér casa co ‘el so sac de sciosee !

 

“Eóra ciàme l’aqua!

Aqua! Stùa el fògo,

che no ‘l brusa el baston,

che no ‘l bastona el can,

che no ‘l mòrsega Petèe

che no ‘l vòl vegnér casa co ‘el so sac de sciosee!”

“Mi no, eh, che no stùe el fògo,

che no ‘l brùsa el baston,

che no ‘l bastona el can,

che no ‘l mòrsega Petèe

che no ‘l vòl vegnér casa co ‘el so sac de sciosee!”

 

“Eóra ciàme el bò!

Bò! Bevi l’aqua,

che no ‘a stùa el fògo,

che no ‘l brùsa el baston,

che no’l bastona el can,

che no ‘l mòrsega Petèe

che no ‘l vòl vegnér casa co ‘el so sac de sciosee!”

“Mi no, eh, che no beve l’aqua,

che no ‘a stùa el fògo,

che no ‘l brusa el baston,

che no ‘l bastona el can,

che no ‘l mòrsega Petèe

che no ‘l vòl vegnér casa co ‘el so sac de sciosee !”

 

“Eóra ciàme ‘a corda!

Corda! Liga el bò,

che no ‘l beve l’aqua,

che no ‘a stùa el fògo,

che no ‘l brusa el baston,

che no ‘l bastona el can,

che no ‘l mòrsega Petèe

che no ‘l vòl vegnér casa co ‘el so sac de sciosee!”

“MI no, eh, che no lighe el bò,

che no beve l’aqua,

che no ‘a stùa el fògo,

che no ‘l brusa el baston,

che no ‘l bastona el can,

che no ‘l mòrsega Petèe

che no ‘l vòl vegnér casa co ‘el so sac de sciosee!”

 

“Eóra ciàme el sorz !

Sorze! Ròsega ‘a corda,

che no ‘a liga el bò,

che no ‘l beve l’aqua,

che no ‘a stùa el fògo,

che no ‘l brusa el baston,

che no ‘l bastona el can,

che no ‘l mòrsega Petèe

che no ‘l vòl vegnér casa co ‘el so sac de sciosee!”

“Mi no, eh, che no ròseghe ‘a corda,

che no ‘a liga el bò,

che no ‘l beve l’aqua,

che no ‘a stùa el fògo,

che no ‘l brusa el baston,

che no ‘l mòrsega Petèe

che no ‘l vòl vegnér casa co ‘el so sac de sciosee !”

 

“Eóra ciàme  el gat !

Gat ! Magna el sorz,

che no ‘l ròsega ‘a corda,

che no ‘a liga el bò,

che no ‘l beve l’aqua,

che no ‘a stùa el fògo,

che no ‘l brusa el baston,

che no ‘l bastona el can,

che no ‘l mòrsega Petèe

che no ‘l vòl vegnér casa co ‘el so sac de sciosee!”

“Mi sì, eh, che magno ‘sto sorz,

che no ‘l ròsega ‘a corda,

che no ‘a liga el bò,

che no ‘l beve l’aqua,

che no ‘a stùa el fògo,

che no ‘l brusa el baston,

che no ‘l bastona el can,

che no ‘l mòrsega Petèe

che no ‘l vòl vegnér casa co ‘el so sac de sciosee!”

Mi si eh!

 

E cussì

el gat  ciàpa el sorz, che ròsega ‘a corda,

che ‘a liga el bò,

che ‘l beve l’aqua,

che ‘a stùa el fògo,

che ‘l brusa el bastòn,

che bastona el can, che mòrsega Petèe,

che scanpa casa co ‘el so sac de sciosee.

 

Alberta Bellussi

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Le erbette di primavera nella tradizione culinaria veneta

In primavera la natura rifiorisce e nei campi, nelle siepi e lungo gli argini crescono una gran varietà di erbette selvatiche; queste sono molto usate nella gastronomia veneta tradizionale e popolare sono presenti sia nei menù dei ristoranti che nei piatti delle nostre tavole.

Alcune sono davvero molto conosciute:

I bruscandoli, in dialetto, hanno in botanica il nome di   Luppolo selvatico (Humulus Lupulus).

Questa erba venne usata, fin dal Medioevo, per la fabbricazione della birra. I germogli di “bruscandoli” che si trovano lungo le siepi vengono usati per la classica frittata, nel risotto o anche da soli, lessati, conditi con olio, sale e pepe e accompagnati dalle uova sode per via del loro sapore molto simile agli asparagi.

Peverel o rosoline, in dialetto, è la pianta del papavero (Papaver Rhoeas)

Le nuove e fresche piantine di papavero che spuntano in primavera, si trovano spesso nei campi di mais ancora da arare, e sono un’ottima verdura cotta mescolata ad altre erbette.

Radicea o pissacan, in dialetto, sono in botanica il Tarassaco o Dente di leone (Taraxacum officinale) –

Le “radicee” sono senza ombra di dubbio le erbette più diffuse sulle tavole primaverili contadine perché si trovano, facilmente in tutti i prati. Vengono cotte da sole o assieme ad altre erbette, con le uova e possono essere condite anche dadolata di pancetta o lardo che insaporiscono e rendono sfizioso il tutto.

S-ciopet, S-ciopettin o Carletti, in italiano Strigoli o bubboli (Silene Vulgaris)

Sono dei piccoli cespuglietti di un’erba dal colore del fogliame verde-bluastro e un po’ ceroso. Sono molto usati  in cucina per farne il “risotto di carletti” o la frittata. Il loro sapore ricorda molto quello dei piselli freschi.

Le gainee, nome dialettale della Valerianella (Valerianella Locusta)

Un tempo la chiamavano con il nome di “lattuga d’agnello”: per via del periodo in cui spunta nei prati, in concomitanza con la nascita degli agnelli. Questa erbetta selvatica viene mangiata cruda in insalata, o cotta assieme ad altre erbe o verdure. Oggi la si può trovare anche dal fruttivendolo perché viene piantata, ed è facile da coltivare.

Ortiga è l’Ortica (Urtica

È una pianta urticante se si entra in contatto con la pelle ma i suoi germogli sono ottimi per risotti, frittate e anche per ricavarci medicinali e tessuti, già dall’età del bronzo.

Vi regalo un mio racconto agreste sulle erbette.

Il racconto di Maria a radicee e peverel

Maria cresce; diventa una bella bambina dai capelli d’oro.

Il suo sguardo chiaro è trasognato ma sempre attento alle cose del mondo; a metà tra Alice nel Paese delle Meraviglie e Pippicalzelunghe.

Rimangono impressi nel suo essere, come un tatuaggio dell’anima, quegli elementi della campagna veneta che le appartengono visceralmente. Li ha protetti nei cassetti della memoria e nei suoi libri segreti.

…i campi erano tappezzati di macchie gialle e rosse. Invasi di radicee e peverel che diventeranno, presto, soffioni e papaveri. Lei e la nonna si perdevano per quei prati munite di sacchetto e coltello per raccogliere i verdi rosoni e le erbette per farne dell’indimenticabile verdura cotta.

E la nonna che le diceva :” Maria ciol su quee col boton che le e pi bone”.  E lei che minuziosamente guardava ogni pianta di tarassaco e cercava quella che aveva ancora il bocciolo chiuso come le aveva raccomandato la nonna.

La bimba perdeva, poi, il suo sguardo nel rosso appassionato dei papaveri e nella delicatezza dei soffioni.

Amava scappare dentro i campi gialli di erba medica. Buttarsi distesa a pancia in sù. Lì, nascosta dagli alti fiori, rigenerava il suo essere e assorbiva l’energia di Gaia, la terra, e dei colori dei fiori.

Maria, in quella sorta di nascondiglio naturale, guardava il cielo e giocava con le sue amiche a trovare nelle nuvole delle forme di animali. Nel loro gioco fantastico, il cielo era un grande giardino pieno di elefanti, cavalli, cani dove ogni tanto passava anche un piccolo gatto.

Un giorno era in giro con l’amica di sempre Gabriella. Videro un campo di soffioni così pieno che attirò immediatamente la loro curiosità.

Si buttarono a peso morto nel prato e si rotolavano a destra e a sinistra urlando come pazze dalla felicità.

Un po’ alla volta i soffioni si appiccicarono ai loro capelli che diventarono delle splendide parrucche da principesse. Le due bimbe ridevano sistemandosi questi enormi testoni bianchi candidi atteggiandosi come le dame di un tempo.

Correvano e  cantavano spensierate  la loro canzone preferita pomel pomel con queste strane acconciature.

Le parrucche lasciarono il posto alle loro chiome dopo un energico lavaggio fatto dalle mani amorevoli delle mamme che sorrisero  alla follia simpatica delle loro figlie.

…ma su quei meravigliosi e fragili soffioni, Maria aveva più volte sognato di appendersi pensandoli come   una sorta di paracadute per sorvolare le bellezze di questo Pianeta.

Un giorno partì appesa ad un piccolo pelucco di soffione; sorvolò mari, laghi, montagne e pianure. Si svegliò, poi, di soprassalto nel suo lettino giallo come il sole con gli occhi pieni di gioia e incredula del meraviglioso viaggio appena fatto. Maria amava viaggiare e  amerà farlo tutta la vita.

Ogni nuova giornata presentava alla bambina nuove avventure e lei con grande entusiasmo si apprestava a viverle.

Alberta Bellussi