Una delle pietanze caratteristiche della cucina veneziana sono sicuramente le moéche; sono chiamate per la loro bontà e rarità “pepite di Venezia”, e ora se vai nel banco del pesce le trovi a 90/100 euro al chilo e sono ancor più una cosa preziosa.
Moéca è il nome che i veneziani hanno dato al granchio autoctono quando esso arriva al culmine della fase di muta. In due periodi dell’anno, primavera e autunno, il granchio si libera del carapace, la corazza che lo protegge, per costruire una corazza più grande. In quel lasso di tempo, i granchi possono essere gustati interamente, senza difficoltà, perchè sono teneri. Da questo deriverebbe anche il modo di dire “te si na moéca” che significa sei uno smidollato.
L’ambiente ideale per la crescita delle moeche è la laguna veneta che con i suoi fondi sabbiosi e le sue acque salate e salmastre, ben si presta alla proliferazione di questo morbido crostaceo, le zone comprese tra Burano, Giudecca e Chioggia sono poi specializzate nel loro allevamento.
Il termine moéca ha, però, un altro significato: esso si associa anche all’effigie del leone di San Marco alato che sorge dalle acque (el leon en moéca).
Nelle poche ore in cui il granchio muta il carapace, diventa una preziosa leccornia, una specialità della sola cucina veneziana e la sua storia è ancora per molti assai misteriosa, nonostante le moéche abbiano conosciuto un boom nei consumi a partire dall’ultimo dopoguerra. In verità questa tradizione inizia solo dopo la metà del secolo scorso perché prima, e per ben due secoli, la “produzione” di questo stranissimo granchio era un segreto professionale dei moécanti di Chioggia, scoperto grazie alla furbizia e alla costanza dei pescatori di Burano. Attualmente la produzione delle moéche avviene nella Laguna nord di Venezia dove negli ultimi decenni, per i mutamenti degli antichi bacini da pesca, sono cambiate anche le tecniche usate dai pescatori. I pescatori di moéche, chiamati “moécanti”, pescano armati di una particolare rete collocata nei fondali bassi della laguna, la “trezza”. Si lavora sempre con le serraglie, dette in passato seràie da seca, che non sono più fisse. Una volta catturate, le moéche vengono trasferite in sacchi di juta che hanno lo scopo di mantenere la giusta umidità durante il trasporto agli impianti di lavorazione. Nei casòni o casòti si compie la delicatissima fase di cernita che avviene in funzione dello stato biologico dei granchi e che si avvale della grandissima abilità dei moécanti. Questi li selezionano e immettono quelli prossimi alla muta, detti spiàntani (i moécanti conoscono ormai ogni segreto dei granchi), in grandi cassoni di legno, semisommersi, chiamati vièri, dove in breve tempo diventeranno moéche. Quanto detto vale per i maschi, perché per le femmine il ciclo evolutivo è diverso. Esse, infatti, mutano solo alla fine della primavera. La muta per le femmine coincide con l’accoppiamento dell’estate e in autunno, quando sono piene di uova, non muteranno più e, se catturate, saranno mangiate con il coràl (a vòva, le uova). E queste sono le masenéte. Questi esperti pescatori (se ne contano solo una cinquantina ogni tremila pescatori), sono talmente abili nel loro lavoro da riuscire a distinguere praticamente ad occhio una moéca da una mazaneta. Per quanto possa apparire semplice, le fasi di cernita si rivelano molto complesse ed è forse l’aspetto in cui si percepisce meglio la specificità di questo modo di pescare i granchi tipico della Laguna. Per tale motivo per le moéche è stato istituito un Presidio Slow Food, sostenuto dalla regione Veneto.
Alberta Bellussi
- 7 April 2024
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