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Panin onto, baccalà all’ebraica, club sandwich del Doge, zabajon, fegato alla veneziana, nafta, bigoli in salsa, bollito alla padovana, tartufi dei colli Euganei trifolati e brodo de gaina: altri 10 prodotti agroalimentari tradizionali (PAT) sono stati inseriti dal Ministero nell’elenco nazionale, che ospita ora ben 413 tipicità venete tra le 5.717 annoverate in tutto il Paese.
Il #Veneto conferma così il 4° posto dopo Campania, Lazio e Toscana, ed ‘allunga’ il distacco dall’Emilia Romagna.
Il MASAF aggiorna l’elenco annualmente, e siamo quindi alla 25^ revisione. Vi entrano i prodotti le cui metodiche di lavorazione, conservazione e stagionatura risultino consolidate nel tempo, omogenee per tutto il territorio interessato, secondo regole tradizionali, per un periodo di almeno 25 anni.
In Veneto non solo si vive bene ma si mangia e si beve bene. I nostri prodotti agroalimentari e tradizionali sono una ricchezza che si traduce in un potentissimo biglietto da visita del Veneto nel mondo, un grande volano turistico e culturale.
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Come nacque questo piatto famoso in tutto il mondo?
La contessa Amalia Nani Mocenigo era una cliente affezionata dell’Harry’s Bar e i medici le avevano imposto una dieta che le vietava di mangiare carne cotta.
Chiese a Giuseppe Cipriani un piatto che la saziasse e che non fosse cotto, pensò di affettare sottilissimo un filetto e glielo servì con una salsina particolare che sperimentò lui.
Il fato volle che in quei giorni (nel 1950) a Venezia ci fosse una mostra del pittore Vittore Carpaccio, e dato che il rosso del piatto ricordava i colori dei suoi quadri, la ricetta prese il nome di Carpaccio per onorare il grande artista veneziano.
La scena era ovviamente l’Harry’s Bar di Venezia, ma da lì il carpaccio ha fatto il giro del mondo nei ristoranti di famiglia, dagli Stati Uniti fino all’estremo Oriente.
“La carne da sola era un po’ insipida”, avrebbe poi scritto Cipriani. “Ma c’era una salsa molto semplice che chiamo universale per la sua adattabilità alla carne e al pesce. Ne misi una spruzzatina sul filetto e, in onore del pittore di cui quell’anno a Venezia si faceva un gran parlare per via della mostra e anche perché il colore del piatto ricordava certi colori dell’artista, lo chiamai carpaccio”.
Ingredienti per 4 persone della Ricetta Originale di Cipriani.
400 g di carne di filetto
125 g di maionese
Succo di limone
20 ml di latte
1 cucchiaino di salsa Worcestershire
Sale e pepe bianco
Procedimento
Mondare la carne rifilandola. Riporla in frigorifero. Quando sarà fredda, tagliare a fettine dello spessore di 1 mm. Stenderle sul piatto di portata, coprendo interamente. Salare con parsimonia e riporre i piatti in frigorifero per almeno 5 minuti.
Preparare la salsa amalgamando la maionese con un goccio di Worcester e poco succo di limone. Stemperare con il latte, regolare di sale e di pepe.
Condire leggermente le fettine di carne, intingendo un mestolo e facendolo sgocciolare in movimento, poi servire senza indugi.
Alberta Bellussi
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Nel 1927 Giuseppe Cipriani era barista in un hotel di Venezia.
Presso l’albergo in cui lavorava era ospite un’anziana signora statunitense accompagnata dal giovane nipote Harry Pickering. I due litigarono per questioni di soldi. Un bel giorno la signora partì lasciando il nipote senza una lira.
Giuseppe Cipriani, che era diventato amico di Harry, gli fece un prestito di 10.000 lire in modo che il ragazzo potesse pagarsi il biglietto della nave per tornare a Boston. Si trattava di una grossa cifra per l’epoca ma Giuseppe gliela diede fidandosi.
Nel febbraio del 1931 infatti, Harry Pickering tornò a Venezia restituendo a Giuseppe Cipriani la somma avuta in prestito con l’aggiunta di altre 30.000 lire in segno di gratitudine per averlo aiutato in un momento di difficoltà.
Con questo capitale in mano, il trentenne Giuseppe decise di aprire un bar in un vecchio deposito di cordami nelle adiacenze di piazza San Marco, decidendo di chiamarlo Harry’s Bar in onore dell’amico americano che aveva premiato la sua fiducia. Anche il nome del figlio Arrigo sembra fosse per ricordare l’amico ma italianizzato.
Il locale diventerà la meta di molti intellettuali tra cui anche Ernest Hemingway che aveva un tavolo fisso nel locale.
Da qui nacque la sua fortuna che lo portò prima ad aprire una locanda a Torcello e poi l’Hotel Cipriani alla Giudecca.
Nelle sue cucine nacquero e continuano a nascere pietanze e cocktail conosciuti nei locali della catena Cipriani aperti in tutto il mondo.
Alberta Bellussi
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La “putana”no non pensare a cose strane….non è nient’altro che un dolce tipico della tradizione contadina vicentina: rallegrava l’inverno attorno al fuoco e veniva cotto sulle “bronse”  dentro una pentola di terracotta.

Prevede l’utilizzo di poca farina da polenta, pane raffermo avanzato ammollato in precedenza nel latte, arricchito da uvetta, pinoli, fichi, liquore e scorza di limone ed arancia: una volta non si buttava nulla!
Si hanno le prime notizie nella zona del Vicentino ai tempi della Serenissima: correva l’anno nel 1405.
C’e chi sostiene che “Putana” derivi da “Putea” ovvero bambina, perché era un dolce preparato per la merenda dei bambini, altri ritengono che sia stata chiamata cosi dopo un bizzarro fatto di cronaca accaduto ad un importante ristoratore Vicentino, il quale, mentre portava questo dolce ai suoi commensali, si trovò improvvisamente al buio perché una raffica di vento aveva spento tutti i lumi della taverna, e inciampato su di un gradino esclamò l’espressione Veneta colorita “la putana”.

Ma la più verosimile è originata dalla versatilità dei suoi ingredienti che possono essere modificati in ragione di quello che la cucina avanza e offre al momento.

Ricetta con pane raffermo

Tante ricette quante le famiglie, si ha pudore di chiamarla con il suo nome, sembra di dire una parola sconveniente, in realtà è una bontà che si apprezza sempre con piacere.

Ingredienti: 3 grandi pezzi di pane raffermo, o biscottato. 3 uova, 1 manciata di farina gialla, succo e la scorza grattugiata di un limone non trattato, 1 cucchiaio o più di grappa, 8 cucchiai di zucchero, uvetta.
A piacere si può aggiungere altra frutta secca o fresca a pezzi (scorzette di arancia candita, cedrini, mele, mandorle, fichi, pinoli, noci, pere…)
1 pizzico di sale, 1/2 bustina di lievito
a piacere, si può aggiungere una fialetta aroma di vaniglia o limone.
burro per imburrare la teglia
Farina bianca (o anche gialla di mais) quanto basta per un impasto omogeneo:

  • Mettere il pane a bagno nel latte una notte.
  • Mettere in ammollo l’uvetta in grappa o acqua
  • Quando il pane è bene inzuppato, strizzarlo e metterlo in una terrina capiente
  • Unire le uova leggermente sbattute
  • Togliere l’uvetta dalla grappa e unirla al pane
  • Uno alla volta aggiungere tutti gli ingredienti
  • La farina va aggiunta in quantità tale da ottenere un impasto che nella
  • consistenza non sia né troppo molle né troppo duro
  •  Amalgamare il tutto e versare nella tortiera imburrata e infarinata.
  • Infornare per 40 minuti a 180°C e lasciare raffreddare in forno.

Alberta Bellussi

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Una mia amica mi ha fatto scoprire un dolce di cui non conoscevo l’esistenza la Zonclada; era una torta di origine medioevale tipica della zona di Treviso da essere considerata così prelibata da essere offerta anche a personalità importanti. Nel 1317 furono preparate per Cangrande della Scala. Questo dolce per molti anni scomparve dalle tavole dei trevigiani ma  ora qualche pasticceria ne sta riproponendo la ricetta. L’etimologia del nome di questa torta ha molti rimandi storici ma non si sa bene, in realtà, quale sia il più verosimile. La parola è affine al latino iuncus, giunco o a giuncata che è un formaggio fresco la cui cagliata veniva adagiata a spurgare in stuoie fatte appunto di giunchi, di cui ne riprende anche il colore pallido. Ancora altri scritti riportano che il nome Zonclada si deve far risalire alla parola ancora in uso nelle nostre campagne, “zanzega”, che è la festa che fanno i muratori quando la costruzione della casa arriva al coperto e espongono un ramo di foglie sul camino: far zanzega” ovvero far baldoria, rallegrarsi. O potrebbe derivare anche dal dialetto “zoncar” col significato di troncare, e “zontar”, ovvero unire e aggiungere, facendo riferimento al procedimento di preparazione che prevede vari ingredienti tritati mescolati assieme. L’esistenza della Zonclada, in epoca medioevale, ne troviamo conferma “Capitolato del Duomo” di Treviso (1300-1400) e negli “Statuti della città di Treviso” del 1313, dove c’è una prescrizione su come deve essere preparata e sul peso che deve avere, con una pena pecuniaria a chi non dovesse rispettare le disposizioni. Dai racconti delle persone anziane delle nostre campagne trevigiane emerge che si preparava un dolce di nome Zonclada, confezionato come una pinza utilizzando tutte gli ingredienti che avevano a disposizione.

Ingredienti per la pasta frolla

(che potete anche comprare già fatta al supermercato)

  • 300 gr di farina
    • 120 gr di strutto o margarina
    • 100 gr di zucchero
    • 1 uovo
    • 1 pizzico di sale
    • 1 pizzico di cannella

Ingredienti per il ripieno

  • 20 gr farina 00
    • 500 gr di ricotta
    • 2 uova
    • 40 gr di burro fuso
    • 100 gr di zucchero semolato
    • 50 gr di uvetta sultanina
    • 50 gr di cedro candito
    • 1 cucchiaino di cannella in polvere

Preparazione

Fare ammorbidire l’uvetta sultanina in una ciotolina d’acqua. Tagliare il cedro candito a cubetti molto piccoli. In una ciotola riunire 500 gr di ricotta con 2 uova, il burro fuso, lo zucchero semolato, l’uvetta sultanina, il cedro candito a cubettini e un cucchiaino di cannella.

Mescolare gli ingredienti fino ad ottenere un composto omogeneo.

Cospargere il panetto di frolla con un po’ di farina, stenderlo con il mattarello sul piano di lavoro a uno spessore di 4-5 mm e incidete un disco di 28-29 cm. Ricavare dai ritagli tante listarelle della larghezza di 1 cm con la rotella dentellata.

Foderare la tortiera antiaderente di 24 cm con il disco di pastafrolla, riempirlo con il composto di ricotta preparato. È possibile coprire lo stampo di pastafrolla con listarelle, tipo crostata, o con un disco di pastafrolla, con dei tagli praticati con un bicchierino di rum e con una rapatura di limone o di arancia. Cuocere la Zonclada nel forno caldo a 180° per circa 30 minuti. Servire tiepido o freddo, a seconda dei gusti.

Buona degustazione!

Alberta Bellussi

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Il Carnevale di Venezia del 2025 è dedicato ai 300 anni dalla nascita di Giacomo Casanova, ci sono molte feste, serate a tema.

Avventuriero, scrittore, alchimista, diplomatico, spia e soprattutto grande amatore.

Il nome di Giacomo Casanova ha attraversato i secoli rappresentando una filosofia di vita per molti aspiranti libertini. La sua vita amorosa a dir poco movimentata lo hanno reso famoso più delle sue opere letterarie. Il suo scritto più importante resta Histoire de ma vie (Storia della mia vita), in cui ha tramandato ai posteri il racconto di tutti i suoi viaggi, avventure, ma soprattutto incontri galanti con avvenenti donne.

Giacomo Girolamo Casanova nasce a Venezia il 2 aprile 1725. Suo padre Gaetano era un attore e ballerino parmigiano di remote origini spagnole. La madre, Zanetta Farussi, era un’attrice veneziana di successo, menzionata persino da Goldoni nelle sue memorie.

Rimasto orfano di padre a soli otto anni ed essendo la madre sempre in viaggio, Casanova viene allevato dalla nonna materna. È proprio in questi anni che cresce il suo interesse per le pratiche di magia. Infatti, la parente lo porta da una fattucchiera per guarirlo da diversi disturbi di salute.

A nove anni sarà mandato a Padova, dove rimane fino alla fine degli studi. Nel 1737 si iscrive all’università, laureandosi in Diritto. Terminati gli studi, Giacomo Casanova va a Corfù e a Costantinopoli. Rientra a Venezia nel 1742, dove ottiene un incarico presso l’avvocato Marco da Lezze. La morte della nonna Marzia Baldissera, sua guida dell’infanzia, lo destabilizza, tanto da farlo finire nel Forte di Sant’Andrea per condotta turbolenta.

Vaga dalla Calabria ad Ancona, dove le avventure amorose gli costano spesso rimproveri e cambi di datore di lavoro. Nel 1744 finisce in quarantena, dove intesse una relazione con una schiava greca, alloggiata nella camera sopra la sua. La sua condotta, aggravata delle sue posizioni di libertinaggio, gli vale la persecuzione degli inquisitori veneziani. Ottiene una condanna, alleggerita dalle sue amicizie nel patriziato, che forse ne agevola anche l’evasione. Dopo un primo tentativo fallito, attraverso un foro nel soffitto praticato da un compagno di reclusione, il frate Marino Balbi, esce dal tetto per rientrare nel palazzo e uscirne come un comune ospite rimasto intrappolato dopo l’orario di visita. Una gondola lo porta lontano e, nonostante questo, dà il via all’inseguimento. Fugge a Bolanzo, per poi dirigersi fino a Monaco di Baviera, Augusta, Strasburgo e Parigi, dove lo accoglie l’amico De Bernis. Nel corso della sua vita Casanova è riuscito a sedurre un numero incalcolabile di donne. Tra le tante avventure vissute, ce n’è una che risulta più curiosa anche rispetto alle altre. Durante il suo secondo soggiorno ad Ancona, Casanova conosce Bellino, dalla natura un po’ ambigua, da  lei ha anche un figlio illegittimo, Cesarino Lanti.

Il più grande amore della vita di Casanova è Henriette, una donna anticonformista e coraggiosa. Questo nome nasconde in realtà l’identità di una nobildonna di Aix-en-Provence, forse Adelaide de Gueidan. I due si incontrano durante il carnevale 1749, mentre lei sta fuggendo vestita da ufficiale, colpevole di aver abbandonato il tetto coniugale. I due trascorrono un infuocato periodo in fuga tra Parma e Roma, per poi incontrarsi in altre due occasioni in cui lei finge di non conoscerlo.

Il caso più clamoroso è quello che riguarda la relazione di Casanova con suor M.M. e i conseguenti rapporti con l’ambasciatore di Francia De Bernis. Dal punto di vista stilistico è uno dei momenti più intensi delle memorie. Il ritmo del racconto, serratissimo, e la tensione emotiva dei personaggi hanno fatto pensare che si tratti di un passaggio completamente inventato. Ma alcuni studiosi, pur non riuscendo a identificare la donna, lo hanno certificato come veritiero.

Dopo la sua fuga dai Piombi di Venezia, a Parigi conosce la marchesa d’Urfé, nobildonna ricchissima e stravagante, con la quale intrattiene una lunga relazione, spendendo in lungo e in largo il denaro che lei gli mette a disposizione. Nella sua biografia Casanova menziona molte avventure, alcune presumibilmente romanzate o addirittura inventate. Ma, tirando le somme, l’autore è arrivato a menzionare più di 120 donne sedotte. Per lui non era tanto il farle cadere, quanto la capacità e la volontà di amare veramente le donne che conquistava, insieme al piacere di essere ricambiato.

Alberta Bellussi

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La principale forma di ricchezza per Venezia era costituita dal commercio del sale, ricavato dai giacimenti di acqua salata, le cosiddette saline

Questo popolo” si diceva dei veneziani “non ara, non semina, nè vendemmia, eppure ha tanta ricchezza”.

La Serenissima iniziò a essere il centro più importante di produzione di sale nell’alto Adriatico già dal IX secolo con le saline che nel Medioevo occupavano almeno metà della laguna, oltre a quelle di Chioggia e delle diverse isole come Sant’Erasmo e Murano. Poi le progressive conquiste di Cervia, di Canne in Puglia e via via fino a Creta e a Cipro ampliarono notevolmente il mercato e la sua forza economica in quanto, a questo prodotto prezioso, venivano applicate due imposte: una sul suo valore, pari alla quinta parte del prezzo, e l’altra sul suo peso, il famigerato dazio, per cui ogni quindici giorni i “salinari” consegnavano il ricavato ai procuratori di San Marco: un fiume di denaro che entrava fresco nelle casse dello Stato.

Sul finire del 1200 i Veneziani, diventati ormai incontrastati padroni di Cervia, potevano farsi inviare dai centomila ai centocinquantamila canestri (“corbe”) di sale romagnolo l’anno, pari a due-tremila tonnellate, da scambiare poi con i prodotti delle città di terraferma: grano, vino, olio, legnami. La stessa cosa succedeva sul mar Tirreno per la rivale repubblica marinara di Genova che si riforniva di sale dalle isole Baleari e dalle saline siciliane del ragusano e del trapanese per poi destinarlo ai mercati di Torino e della Savoia. Cosicché si può dire che il sale condizionò per secoli l’economia e la vita di molti popoli, dando spesso luogo a numerosi e violenti scontri, anche armati, denominati appunto “guerre del sale”, cui non si sottrassero città come Ravenna, Ferrara, Verona e la stessa Padova.

Ma la grande intuizione di Venezia, messa in campo e mantenuta almeno fino al Seicento, fu la duplice funzione assegnata al sale. Innanzitutto quale merce di scambio molto ambita ma poi anche come «carico di ritorno» delle navi che, rientrando dai commerci con l’oriente con materiali leggeri come tessuti e spezie, venivano opportunamente zavorrate col sale, dietro promessa ai mercanti che il Comune avrebbe acquistato il loro intero carico.

IL MONOPOLIO: Con il sale gestito in regime di monopolio si garantivano grandi e continuati introiti per la Repubblica.  I Provveditori al sale si occupavano degli interventi di difesa dei lidi verso il mare e delle grandi opere di protezione dei litorali, lavori fondamentali per la sopravvivenza fisica della Serenissima, si occupavano anche della costruzione dei relativi magazzini nei punti strategici della città, come alle Zattere e alla punta della Dogana.

«Inoltre essi partecipavano finanziariamente alla ricostruzione dei quartieri distrutti dagli incendi, alla costruzione degli edifici pubblici, quali il Palazzo ducale o il palazzo dei Procuratori di San Marco, all’abbellimento delle chiese finanziando i più grandi architetti, gli scultori, i pittori più celebri, i doratori…».

L’edificazione dei palazzi durava talvolta alcuni decenni, aveva bisogno di finanziamenti prolungati e di un sistema che offriva buone garanzie. Non solo, in tal modo veniva raggiunto un altro importante obiettivo: Venezia con la costruzione di importanti palazzi pubblici mirava a rappresentarsi nella sua natura di città-stato. Venezia trovò per secoli nel sale la sua fortuna, come lo fu la seta per i Cinesi o come lo è oggi il petrolio per gli Arabi.

Alberta Bellussi

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Il Veneto è una terra ricca di fate e streghe, orchi e salbanèlli, anguàne e mazzariòi, e poi leggende che pullulano di santi e di mostri, e di storie di fantasmi e di luoghi misteriosi da scoprire; vicende amorose belle e drammatiche tanto da aver ispirato anche William Shakespeare, storie fantastiche dolci o tragiche frutto di oltre due millenni di trasmissione orale che diventano poi tradizione popolare. Tutto ciò ha come sfondo i vari paesaggi del Veneto, dalle Dolomiti ai fondali della laguna, dai sontuosi castelli alle ville meravigliose, dalle calli di Venezia ai boschi.

Ecco l’elenco di alcuni luoghi dove ci sono queste presenze misteriose che non trovano mai pace.

In provincia di Treviso:

Il Santuario di Santa Augusta a Vittorio Veneto: la leggenda di Santa Augusta è legata alla tragica storia di una giovane martire uccisa dal padre, re Matrucco, per essersi convertita al cristianesimo. Dopo terribili torture, tra cui l’essere bruciata viva e rotolata giù da una collina, fu infine decapitata. Il santuario fu costruito nel luogo in cui furono ritrovate le sue ossa. Secondo la tradizione, chi introduce la testa in un foro dietro l’altare può guarire dall’emicrania, e passando tra due colonne si può curare il mal di schiena.

Il Castello di Collalto: Il fantasma di Bianca, murata viva per amore, si dice infesti il castello. Il suo pianto si ode nelle notti di luna piena, quando la sua figura appare sui bastioni. La leggenda dice che il suo spirito è condannato a vagare per sempre, incapace di trovare pace. Il castello risale all’XI secolo e divenne un’importante roccaforte della famiglia Collalto, che esercitò grande influenza sulla regione durante il Medioevo.

Nella Chiesa di Santa Caterina a Treviso, si dice che lo spirito di una giovane monaca, morta misteriosamente, appaia durante la notte. La leggenda narra che la monaca fosse innamorata di un uomo, motivo per cui venne punita severamente. Alcuni affermano di averla vista inginocchiata davanti all’altare, pregando in silenzio con lacrime di dolore.

In Provincia di Venezia:

A Palazzo Contarini del Zaffo si racconta che una nobildonna tradita dal marito vaghi per le sale del palazzo durante le notti di tempesta. La sua figura appare tra le finestre e i vetri, e il suo lamento si unisce al rumore della pioggia. Costruito nel XV secolo, il palazzo fu un importante centro politico e culturale durante la Serenissima e ospitò numerosi nobili veneziani.

La “Malcontenta”, come è conosciuta Villa Foscari, prende il suo nome da una nobildonna che, secondo la leggenda, venne segregata nella villa per i suoi comportamenti scandalosi. Si dice che il suo spirito infelice vaghi ancora per le stanze, portando con sé un’aura di malinconia. Molti visitatori sostengono di sentire la sua presenza, avvertendo improvvisi cambiamenti di temperatura e rumori inspiegabili.

L’Isola di Poveglia nella laguna veneta, utilizzata come lazzaretto dal XIV secolo, divenne poi una struttura per malati mentali. È stata abbandonata negli anni ’60 ed è considerata uno dei luoghi più infestati del mondo. I fantasmi dei malati di peste e dei pazienti del manicomio sembrano infestare l’isola. Molti credono che l’isola sia una porta per l’aldilà, dove le anime tormentate non trovano pace.

In provincia di Padova:

Il Castello di Monselice è conosciuto per le sue antiche prigioni, dove si narra che prigionieri torturati non abbiano mai lasciato il castello. Di notte, si sentono passi e lamenti che riecheggiano tra le antiche mura. Molti visitatori raccontano di aver visto figure spettrali vagare nei corridoi, aumentando il fascino sinistro del castello.

Il Castello di Valbona con la sua pianta rettangolare, le torri esagonali e le mura merlate, è uno dei fortilizi meglio conservati del territorio euganeo. Risalente al Duecento, fu più volte distrutto e ricostruito, divenendo un baluardo difensivo sotto i Carraresi. Secondo la leggenda, il fantasma della figlia di Germano Ghibelli, signore del castello, vaga tra i merli in lacrime, dopo la sua tragica morte per amore non corrisposto. Oltre alla sua funzione militare, il castello fu per secoli un centro di commercio e amministrazione per la regione circostante.

La Basilica di Sant’Antonio è famosa per una curiosa leggenda: si dice che il diavolo abbia lasciato l’impronta di uno zoccolo su un mattone. Tuttavia, l’impronta somiglia più a una ciabatta. In realtà, si narra che furono i ciabattini padovani, che contribuirono a completare i lavori della basilica, a lasciare questo segno come simbolo del loro aiuto.

Il Castello di Torlonga anche conosciuto come la Torre Ezzelina, è legato alla storia di Ezzelino III da Romano, un crudele signore che terrorizzò la regione. Il suo spirito inquieto, così come quelli dei suoi prigionieri torturati, si dice infestino la torre. Costruito come torre di avvistamento, il castello fu parte di un complesso sistema difensivo durante il Medioevo.

In provincia di Verona:

 A Villa del Bene sembra che un vecchio proprietario della villa, Benedetto del Bene, non sembra voler lasciare la sua dimora. Oggetti che si spostano da soli e apparizioni fugaci raccontano la presenza di un’anima irrequieta. Gli abitanti del luogo evitano la villa di notte, convinti della sua natura infestata. Si dice che il fantasma appaia nelle stanze della villa, disturbando la quiete notturna.

A  Villa Fraccaroli si narra la tragica storia di una giovane serva assassinata che  ha legato il suo spirito alla villa. Si manifestano suoni inspiegabili e apparizioni misteriose, rendendo Villa Fraccaroli una meta da brividi. La villa, costruita nel XIX secolo, rappresenta uno dei migliori esempi di architettura nobiliare della campagna veronese e fu residenza di importanti famiglie dell’epoca.

Infine in provincia di Vicenza:

Al Fontanasso Dea Coa Longa: in una foresta oscura presso Fontanasso, si narra che il fantasma di una donna, conosciuta come la “Dea Coa Longa”, appaia con una lunga coda di serpente. La leggenda racconta che la dea protegga la zona e punisca coloro che si avventurano troppo in profondità. Questo luogo, un tempo parte di un antico bosco sacro, è ricco di storia e leggende legate a culti precristiani che hanno influenzato le tradizioni locali.

Alberta Bellussi

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Da una leggenda deriva pure il nome di Lavaredo delle tre cime dolomitiche che da Longères svettano splendenti nel cielo e che soltanto da Auronzo si possono ammirare in tutta la loro maestosità e in tutta la loro magnificenza. E la leggenda dice così.
Un gigante, di nome Lavaredo, che abitava su quegli altissimi monti, si era perdutamente innamorato di una bellissiffia fanciulla. Era costei la principessa Val d’Ansiei, che, con la sua voce armoniosa e squiilante, cantava le canzoni della montagna deliziando la valle percorsa dal fiume Ansiei.
Ma la vezzosa principessa non poteva corrispondere l’amore di Lavaredo perchè amava un altro gigante e da questo amore nacque un figlio, al quale venne dato il nome di Auronzo.
L’amore del gigante fu di breve durata; il crudele infatti abbandonò ben presto la bella principessa.
Il loro figlio, Auronzo, scese nella valle e fissò la sua abitazione nel punto dove sorse il paese che da lui prese il nome.
Però il gigante Lavaredo continuava ad amare la principessa Val d’Ansiei e, in virtù di questo suo immenso amore, decise di offrire al figlio della donna amata un gruppo di crode il più bello che fosse esistito.
E il buon gigante si mise all’opera, spaccando crode e ghiaioni con un enorme marlello e scolpendoli poi con uno scalpello smisurato. Dopo un lungo e faticoso lavoro, potè infine incidere e modellare nella roccia tre altissime cime, la cui simmetria riuscì tanto armonica e meravigliosa da rendere questo gruppo di crode unico al mondo. Si accinse quindi al lavoro di cesellatura delle tre cime, intagliate con tanta cura e tenacia, ma il generoso gigante non potè terminare che la più piccola, perchè gli mancarono le forze, e ormai sfinito dalla dura fatica cadde affranto per non rialzarsi più. E sul suo corpo inerte rotolarono i sassi da lui stesso scavati, fino a ricoprirlo. Il suo braccio destro, con la mano che aveva compiuto l’opera ardita e stupenda, dette la forma ad un’ampia forcella, alla forcella di Lavaredo. Fu così che di queste tre cime meravigliose, una, la Piccola, venne finita, mentre le altre due, la Grande e la Ovest, non poterono essere che abbozzate.
In seguito esse portarono il nome del buon gigante che le aveva ideate, scolpite e modellate e precisamete le Tre cime di Lavaredo.
Ed Auronzo, il figlio della principessa Val d’Ansiei, al quale Lavaredo aveva dedicato la sua opera sublime, dal fondo della valle potè ammirare in eterno questo vero capolavoro di incomparabile magnificenza.
Alberta Bellussi

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Quando una persona affronta una prova difficile, un esame l’augurio più frequente che gli viene rivolto è “In bocca al lupo“. Un tempo si rispondeva: “Crepi” ora spesso si risponde: “Viva”. Pochi però sono a conoscenza che nell’augurio “in bocca al lupo“, i lupi non c’entrano nulla, c’entrano, invece, Venezia, la Serenissima, e le sue navi. “In bocca al lupo” come augurio no come avvertimento.  Perché “in bocca al lupo” è indubitabilmente un augurio. E non è, ovviamente, l’augurio di venir mangiato dai lupi. È un augurio marinaresco: non c’entra con i lupi, non c’entra con la montagna e le foreste, ma con il mare, e in particolare: l’Adriatico. E con lo Stato che per secoli e secoli ha dominato questo mare, imponendo ai traffici commerciali norme, burocrazie e regole ferree: la Serenissima Repubblica. Venezia, lo sappiamo, ha dominato l’Adriatico. E ha legittimato questo potere affermando che, essendo Venezia nata sul mare, il mare era il suo territorio. Il mare, tutto: da Venezia in giù, su entrambe le sponde, fino alle bocche di Otranto. L’Adriatico tutto si chiamava allora Golfo di Venezia, e con questo nome è riportato nelle carte. E tutti i traffici che vi si svolgevano dovevano rispettare le norme imposte dalla Serenissima. Dagli Asburgo ai Re d’Ungheria, dal Papa al Regno di Napoli, ci hanno provato in molti, per secoli, a contestare il diritto che Venezia si arrogava, di dettar legge sull’intero Adriatico. Il Papa minacciò perfino scomuniche e interdetti, ai quali il grandissimo Paolo Sarpi s’incaricò di rispondere, affermando le ragioni di Venezia. In ogni caso, finché la Serenissima fu la Serenissima e c’erano in giro le flotte militari di Venezia, ci fu ben poco da discutere: le leggi veneziane si applicavano e basta. Tra queste norme, quelle che venivano fatte rispettare con maggior severità erano quelle fiscali. Le merci trasportate via nave in Adriatico pagavano una tassa a Venezia, che in cambio garantiva la sicurezza dei traffici conducendo operazioni che oggi si chiamerebbero “di polizia internazionale” contro i pirati.

LA DICHIARAZIONE NELLA BOCCA DI LUPO: Il primo dovere del capitano di una nave, non appena arrivato in porto, era di consegnare un rapporto fiscale, nel quale dichiarava il carico trasportato, affinché si potesse stabilire il dazio da pagare. In ogni porto, vi era un ufficio al quale il capitano doveva consegnare queste carte. Un ufficio aperto sempre, giorno e notte: vi era infatti, sulla facciata, un apposito foro, nel quale il capitano doveva infilare la dichiarazione sul carico, prima di sbarcarne anche solo una piccola parte.  Questi fori sulle facciate sono detti “bocche di lupo“. E “bocca di lupo” si chiamano infatti, ancor oggi, i pertugi ricavati nelle facciate, le prese d’aria dei seminterrati, i fori d’aerazione ricavati a beneficio di cantine o magazzini al piano terra. Ed ecco spiegato l’augurio: quando una nave salpava, l’augurio “in bocca al lupo” era quindi l’augurio di arrivare regolarmente nel porto di destinazione con tutto il carico da dichiarare, avendo quindi evitato naufragi, tempeste e pirati e ogni altra insidia del mare.  “Che Dio te scolti” rispondeva il capitano. I lupi quindi non c’entrano. C’entrano Venezia, la Serenissima, le navi, i commerci adriatici. La nostra grande e bellissima storia.

In bocca al lupo!

Alvise Fontanella