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L’Isola della Certosa, 24 ettari a nord ovest da Venezia dal cui centro dista poche centinaia di metri e pochi istanti di barca, ha ospitato nei secoli passati un complesso monastico di cui si vuole oggi recuperare la memoria, e in età napoleonica fu convertita a uso militare: un forte. L’sola della Certosa è un luogo  di chiese e monasteri fin dal 1422, oggi rimangono  poche rovine. L’isola si trova a NE della città di Venezia, tra San Pietro di Castello e il Lido. Un canale largo una ventina di metri la separa dall’isola delle Vignole. Fu sede di un monastero Agostiniano fin dal 1199 e ceduta in seguito ad una comunità di Certosini (1424).

Dopo anni di abbandono, la rinascita con il velista Alberto Sonino, della società Vento di Venezia che gestisce da una decina d’anni l’isola e la darsena Venezia Certosa Marina. Tra gli obiettivi c’è anche il recupero della Certosa stessa. Un edificio di pregio che testimonia la lunga storia religiosa dell’isola in cui abbiamo trovato anche opere d’arte e reperti archeologici.

Oltre ai monaci, nell’isola vi era una comunità di agricoltori che coltivavano l’isola a vigneti e orti.

Una leggenda vi vuole però sepolto il tesoro della Zecca di Venezia.

ll 12 maggio 1797 Napoleone occupa Venezia. È la prima volta nella sua lunga storia che la città cade in mani nemiche e subisce un saccheggio di proporzioni colossali, si parla del 70-80% dei suoi beni artistici razziato. Su un tesoro però i nuovi padroni non riescono a mettere le mani: l’oro della Zecca di Stato. Forse per questo hanno poi utilizzato la Zecca per fondere l’ingente patrimonio delle reliquie, per lo più bizantine, in possesso di chiese e monasteri veneziani soppressi.

Tre senatori, d’altrettante nobili famiglie, sovrintendevano al funzionamento del cuore monetario della Repubblica e questi, probabilmente prima della capitolazione ai francesi, devono aver pensato di mettere tali sostanze al sicuro, dove i nuovi occupanti non andassero a frugare. Tra le varie ipotesi sul nascondiglio del tesoro, una si incentra sull’isola della Certosa, una delle più belle e curate della laguna a quel tempo, che godeva dell’attenzione delle più eminenti famiglie le quali l’avevano eletta a loro Pantheon. Pare quindi che il Savio Cassier con i suoi collaboratori possedessero qui, nel chiostro piccolo, dei loculi e proprio di questi si siano serviti per occultare il tesoro della Serenissima, in attesa di tempi migliori.

Chissà poi che strade avrà preso il gruzzolo nascosto di cui non si fa più cenno in alcun documento. Forse i nobiluomini disperando in un ritorno della Serenissima all’antica gloria, se lo sono spartito fra loro o forse la fortuna giace ancora sepolta da qualche parte sull’isola…

Per questo si ritiene che ancora oggi, sull’isola, una vera fortuna in oro attenda ancora di essere scoperta. Da qualche parte in questo parco potrebbe essere nascosto un tesoro grandissimo.

Alberta Bellussi

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 Quanti dolci, dolciumi, “pastroci” come li chiamavano una volta che ingurgitavamo nelle nostre giornate da bambini che se ora li mangiasse mio figlio mi verrebbe male. Me ne sono venuti in mente alcuni vediamo se li avete incontrati anche voi nella vostra infanzia.  E pensare che quelle rare volte che vado  in quei megasupermercati dove trovi, negli scafali più remoti, le cose più introvabili che non pensavi nemmeno più esistessero sul mercato, non posso fare a meno di non comprarne almeno uno di questi “meravigliosi pastroci” per rivivere con il gusto quelle deliziose sensazioni.

Sembra strano ma sapori e profumi si collocano nei cassettini della nostra memoria e quando li andiamo a stimolare torniamo a sentire quelle emozioni. Marcel Proust diceva che “l’odore e il sapore delle cose rimangono a lungo depositate, pronte a riemergere” in qualsiasi momento e questo capita anche a me.

 I MORETTI

Ma ve li ricordate?

Erano in confezioni da 6 come delle montagnole marroni anche un po’ brutti alla vista ma appena affondavi i denti nella sottile pellicola di cioccolato in bocca ti entrava  un tripudio di panna solida ,che non ho mai capito bene di cosa fosse fatta, ma era dolcissima una sorta di libidine pura per il palato e l’anticamera del diabete, il tutto era  chiuso da una  base di wafer. A me piaceva farmi i baffi con la panna.

LA MITICA BIG BABOL

La ciunga Big Babila era una mattonella che quando la mettevi in bocca mettevi in movimento tutti i muscoli facciali e anche cervicali perché era spesso indurita. Erano enormi. E man mano che iniziavi a masticarla rilasciava quel saporare che solo le Big Babol con la carta Blue hanno. Un gusto spettacolare mai ben definito. Lo zucchero ti entrava in ogni spazio tra i denti ma non pensavi alle carie future ed eri felice. E una volta che era ben ammorbidita iniziavi ad allungarla con la lingua per provare a vedere se era pronta per la bolla. Perché lo scopo di masticare una Big Babol era sempre quello di farne una grandissima bolla. Con due poi era il top ma dovevi avere una buona masticazione sennò ti facevano male le mandibole per un giorno. E soffiavo, soffiavo perché doveva essere grandissima e poi…. pufff scoppiava e si appiccicava dappertutto fino ai capelli…e poi a lavorare per togliere i residui di ciunga dal viso ! Ve lo ricordate? Accadeva anche a voi?

LA GIRELLA MOTTA

Trent’anni fa la Girella Motta non era semplicemente una brioscina: era uno stile di vita. Averne una dietro era garanzia di una ricreazione migliore macchè panini della salumeria sotto casa; c’era la farcitura a spirale della Girella Motta fatta di pan di spagna e cioccolata. A me piaceva aprire la spirale e srotolare la girella per lungo così come facevo con le rotelline di liquirizia della Haribo. La canzoncina della pubblicità faceva   “La morale è sempre quella fai merenda con Girella!” e c’era il Golosastro  che voleva rubare la merendina a Toro Farcito.

LA CEDRATA TASSONI E LA SPUMA

Due erano le bibite che trovavo da mia nonna diverse dalla solita aranciata fatta di puri coloranti ed erano la Cedrata Tassoni e la Spuma.

La Tassoni è una bibita giallissima e zuccheratissima però quando la bevevo ero felice. Il livello di zuccheri è allarmante: 16,4 grammi di zucchero per 100 ml. Un bambino non dovrebbe mai bere cedrata Tassoni neanche sotto minaccia, con 100 ml si gioca quasi tutta la sua dose giornaliera di zucchero Un adulto pure dovrebbe limitarne il consumo.  Il gusto è stucchevole, pastoso, sì, ci sono sapori di agrumi ma affondano nella melassa e anche il perlage non è che sia proprio fine.

Ma voi la spuma l’avete mai bevuta.  Era  la bevanda che univa  vecchi e bambini. E’ una bevanda che non ricordo bene che sapore ha però ricordo che era  buono. Alcuni la spuma la chiamavano anche la “bionda”: nome intrigante, veniva anche messa come premio nelle partite a carte nelle osterie magari mescolata al vino.

LA SPUMADORO

La nonna era un’ottima cuoca per quanto riguardava la carne e i contorni ma per i dolci non era granché anche se  la sua semplicissima  torta di uova, farina e burro che, spesso non era neanche tanto bella di aspetto, alla fine era sempre buonissima con un sapore intenso e inebriante. E quando gli chiedevo che cos’era questa pozione che rendeva il dolce così buono, mi diceva sempre che aveva un ingrediente magico e segreto. Solo qualche anno dopo quando mi sono messa a fare i dolci con lei ho scoperto che quell’ingrediente era una piccola boccetta gialla che aveva dentro tutti i profumi possibili vaniglia, agrumi, fiori. Un concentrato di aromi e il suo nome era Spumadoro. Per me anche ora nei miei pensieri rimane quella goccia magica capace di rendere buonissimo anche quel dolce brutto della nonna.

MARSH; RIDER, TWIX

E lo schieramento di Marsh, Rider e Twix cioccolata e zucchero anche qui in quantità elevate.

Ma ve lo ricordate  il Mars, fatto con cioccolato al latte, caramello e torrone  che quando lo spezzavi il caramello solidissimo colava e stimolava tutte le papille gustative ancora prima di addentarlo.

E poi c’erano il “Raider un taglio ci dà». Con questo jingle, accompagnato dal movimento dei due bastoncini al cioccolato come fossero lame di forbici che tagliano la fame.

LE SIGARETTE CIUNGA

Ricordate le gomme a forma di sigaretta ? Con carta bianca e tanto di filtro finto e confezionate in pacchetti con marca di fantasia …. ma non solo. Quello che era certo è che il pacchetto era molto simile ad un pacchetto di sigarette vere. Ma quanto sono cambiati i tempi ? oggi un bambino che vuol far fin finta di fumare verrebbe mandato in riformatorio. Nei liberali anni Settanta no: con una di quelle sigarettine rosa ti sentivi un grande e facevi il fenomeno ed erano dolcissime.

IL SUCCO DI FRUTTA BILLY

Al primo posto non per importanza ma per i ricordi di chi sta scrivendo. Negli anni 80 dopo avere bevuto il Billy utilizzavamo il brick vuoto come “pallone” nell’intervallo, io più che un succo di frutta vedo dunque un pallone da calcio. Tralasciando i ricordi personali il Billy è stato negli anni 80 la risposta alle mamme stufe di frullare la frutta ed un modo comodo per prepara le merende dei bambini. La vera innovazione era proprio nel Brick, il Billy fu il primo a fare uscire sul mercato quella che oggi è una confezione standard di un succo di frutta.

Chissà se anche voi avete mangiato queste cose e se ve le ricordate come legate alla vostra infanzia.

Se ne avete altre scrivetele sotto.

Alberta Bellussi

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Te à na testa da bater pài“, io  sta frase l’ho sempre detta e sentita ad indicare una persona con la testa dura che non capisce, o come si diceva un tempo duro de comprendonio.

Ma sta frase da dove ha origine e perché proprio batter pai?

Forse pochi lo sanno ma se Venezia esiste lo deve ai “Battipai” e alla loro fatica.

I “Battipài” sono coloro che hanno piantato tutti i pali sui quali poggia Venezia, un tempo, non solo anche  per l’ormeggio e per la navigazione lagunare.

Il palo è l’elemento più importante e essenziale di tutta l’urbanistica lagunare e dell’edilizia veneziana, pur essendo un elemento quasi invisibile agli occhi e discreto sorregge Venezia. Si dice infatti che la città sorga su una foresta rovesciata di alberi delle Dolomiti.

Il terreno sul quale sorge  è del tutto particolare; sotto la terra emersa troviamo un primo strato di fango di riporto alluvionale ed un sottostante strato compatto di argilla e sabbia chiamato “CARANTO”. Per poter edificare è stato quindi necessario dapprima solidificare la zona piantando dei pali di legno appuntiti generalmente di larice o rovere fino al raggiungimento del “CARANTO”, su questi poi veniva formato uno zatterone di tavole di larice da dove si elevavano le fondazioni in blocchi di pietra d’Istria. La palificazione doveva essere tanto più fitta ed espansa in relazione alla costruzione soprastante. Per avere un’idea, pensiamo al Ponte di Rialto che poggia le sue estremità su 12.000 pali di olmo, mentre la stessa palificazione della Chiesa della Salute durò due anni circa.

Il palo non è solo importante per l’urbanistica ma anche per l’arredo urbano; le “BRICOLE” per la segnaletica dei canali navigabili; le “PALINE” per l’attracco delle barche; i “VIERI” per la pesca e l’allevamento dei mitili, nonchè supporti per i pontili. Oggi i pali “BRICOLE” per delimitare i canali in laguna, seppur ancora in legno, vengono piantati con mezzi meccanici, mentre per l’edilizia si fa uso di pali in cemento armato.

I “battipai” rendevano possibile tutto ciò e ritmavano la loro fatica con un canto cadenzato tipo una marcia che aveva lo scopo di coordinare i movimenti delle persone che impugnavano il maglio, lo strumento per battere il palo, una sorta di testa appunto. E proprio con la testa, come riportato nella foto, veniva battuto il palo a forti colpi fino a conficcarlo nel fango della laguna e siccome non era un operazione facile, la testa doveva essere dura per poter conficare bene il palo fino in fondo. 

Ho trovato la testimonianza del loro canto:

O issa eh

e issalo in alto oh

e in alto bene eh

poiché conviene oh

per ‘sto lavoro eh

che noi l’abbiamo oh

ma incominciamo eh

me se Dio vuole oh

lo feniremo eh

ma col santo aiuto oh

viva San Marco eh

repubblicano oh

quello che tiene eh

l’arma alla mano oh

ma per distruggere eh

el turco cane oh

fede di Cristo eh

la sé cristiana oh

quela dei turchi eh

la sé pagana oh

e spiegaremo eh

bandiera rossa oh

bandiera rossa eh

è segno di sangue oh

e spiegaremo eh

bandiera bianca oh

bandiera bianca eh

è segno di pase oh

e spiegaremo eh

bandiera nera oh

bandiera nera eh

è segno di morte oh.

Alberta Bellussi

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Ho letto l’altro giorno il post di un Veneziano Doc, che ama la storia di Venezia e la conosce nelle sue sfumature più autentiche e ho chiesto se potevo condividere la sua spiegazione del termine “troia”  che, in parte per me sono nuove ma  che mi ha permesso di inoltrarmi in alcuna considerazione sulla donna veneziana dei secoli scorsi; ciò apre, infatti, una finestra sul ruolo importante e molto “moderno” che ha sempre avuto la donna veneziana nella società fin dai tempi antichi. La società Veneziana era matriarcale e la donna aveva molte responsabilità ma anche molte libertà.

Il fatto di dedicare un quartiere di Venezia proprio al sesso a pagamento con tanto di tasse dimostra come, ai tempi, la  Repubblica Serenissima considerasse tutti gli aspetti della vita con molta onestà intellettuale e senza moralismi di genere. Tutta la zona Carampane  costituiva un vero e proprio quartiere a luci rosse , in cui abbondavano le case di tolleranza e una di queste si trovava proprio sopra al ponte delle Tette. Le prostitute, affacciandosi alle finestre in direzione del ponte sottostante, erano solite adescare i passanti mostrando loro i seni  scoperti. Da qui ha origine questa singolare toponomastica Ponte delle Tette.

Secondo lo storico Tassini, tale costumanza potrebbe essere stata imposta alle meretrici  da una legge della Serenissima per limitare il diffondersi dell’omosessualità, ovvero con lo scopo di “distogliere con siffatto incentivo gli uomini dal peccare contro natura questo diceva la legge Serenissima.

“L’espressione “Troia” viene ora usata  per indicare , in modo estremamente chiaro e lampante, la natura, il comportamento, l’indole di una donna dai facili costumi, così come la morale della società etichetta ora. A Venezia non era così!
Troia, nel dialetto veneziano, quello tanto per capirci di Castello, Cannaregio, Santa Marta, zone considerate “popolari”, non era nè lo è mai stata sinonimo di prostituta, meretrice, mestieri molto in uso allora come ora e per i quali, in questa città, scevra da incrostazioni religiose e cattoliche, si aveva il massimo rispetto e considerazione.
No, assolutamente, troia, anzi “trogia”, aveva ed ha tuttora un significato molto più profondo, più offensivo e completamente negativo.
Significa, in poche parole, miserabile.
Non nel modo di vestire, non economicamente, ma nell’animo, nel pensiero, nei giudizi verso il prossimo: cattiva, perfida.
Offesa pesante, pesantissima poichè espressa da donne verso altre “donne”.
In città come Venezia, Trieste e molte altre, dove vigeva il matriarcato, apostrofare con il termine troia una donna significava condanna senza appello ed esclusione da un ruolo millenario che ha sempre visto la figura femminile alla pari se non al sopra di quella dell’uomo.
Nelle osterie veneziane da sempre la donna era ammessa senza alcuna remora, quando i mariti navigavano governava la casa, allevava i figli, seguiva gli affari ed aveva un comportamento libero e indipendente senza nessun giudizio morale che le etichettasse.
Poteva anche andare a servizio se c’era bisogno, avere amanti vari, partorire figli illegittimi, fare la prostituta o la cortigiana ma, per tali ragioni, non veniva considerata certamente una troia”cit Rino Matrone. Alla luce di queste considerazioni e di molte altre se pensiamo ai molti credo religiosi che hanno sempre convissuto a Venezia, ai Lazzaretti per le pandemie e a mille altre sfaccettature possiamo affermare che la Serenissima era davvero una Repubblica gestita con intelligenza, concretezza, modernità spoglia  di quelle ipocrisie e moralità che limitano le nostre realtà, in questa filosofia di affrontare tutti gli aspetti della vita sta forse uno dei segreti che la resa grande.

Alberta Bellussi

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Era il 28 dicembre del  1788 e la laguna veneta era ghiaggiata.

Un freddo siberiano ha fatto gelare completamente la laguna di Venezia. Il memorabile avvenimento è vivacemente rappresentato in un  dipinto (al Museo di Cà Rezzonico a Venezia) infiorettato di spassose scenette: popolani in carriola e in slitta; persone che scivolano, e in un’altro di un anonimo Pittore veneto che si trova in Fondazione Querini Stampaglia intitolato “La laguna ghiacciata alle Fondamente Nuove”

Il ghiaccio in laguna è ancora ricordato nei versi d’una canzonetta, più che famosa nell’Ottocento:

Ne contava i nostri veci

che ne l’ano otantaoto

se podeva insin de troto

sora el giazzo cavalcar.

Vegna pur quel che Dio manda

la pazienza porteremo,

basta almanco che cantemo

per podersela passar.

Che bell’afar

sora l’aqua caminar !

Marangoni G., op. cit. pag. 249

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Devo ammettere che amo molto la pianta del giuggiolo e ancor di più i suoi frutti e non vedo l’ora che arrivi l’autunno per potermi deliziare degli stessi.

Legata a questo frutto esiste una famosa espressione: “andar in brodo de giugioe” detto antico diffusamente utilizzato per indicare uno stato d’animo di grande soddisfazione e godimento, quasi uscire di sé dalla contentezza; stato che tutti noi speriamo di provare almeno qualche volta nella vita.

 Da dove deriva questa espressione?

Con le giuggiole dalla notte dei tempi si fa un delizioso infuso che sembra inebri i sensi per la sua dolcezza e il suo gusto.

Questo liquore era conosciuto e apprezzato già presso le civiltà del bacino del Mediterraneo, sin dagli antichi Egizi e dai Fenici, i quali crearono i primi preparati di cui siamo a conoscenza.

Tra le fonti storiche più remote che citano i frutti del giuggiolo troviamo le “Storie” di Erodoto, il quale paragonò il gusto dolce della giuggiola a quella del dattero, raccontando che da essa si poteva ottenere una bevanda inebriante utilizzando la sua polpa fermentata. Alcuni studiosi ipotizzano inoltre che nel Libro IX dell’Odissea il “frutto del loto” citato da Omero che portò all’oblio gli uomini di Ulisse sbarcati sull’isola dei Lotofagi, possa in realtà corrispondere ad una specie di giuggiolo selvatico, e dunque l’incantesimo narrato sarebbe stato provocato dalla bevanda alcolica preparata con i frutti inebrianti di questa pianta e non da sostanze narcotiche.

Presso gli antichi romani l’albero del giuggiolo divenne il simbolo del silenzio e fu usato per adornare i templi dedicati alla dea Prudenza; l’uso in ambito religioso non escluse però un utilizzo anche profano da parte delle popolazioni latine, le quali per secoli coltivarono i giuggioli per utilizzare i loro succulenti frutti nella preparazione di infusi liquorosi. Nelle zone di campagna era ritenuta una pianta portafortuna, pertanto presso molte case coloniche si trovava facilmente coltivato un giuggiolo vicino al lato esposto a sud.

Durante il Medioevo le conoscenze e le antiche tradizioni culinarie riuscirono a sopravvivere grazie alla trasmissione dei saperi artigianali di generazione in generazione nel mondo contadino e all’opera di conservazione delle ricette e dei rimedi erboristici nei monasteri.

Nel periodo Rinascimentale la fama delle giuggiole riprese vigore e questo frutto acquisì nuova fama per le sue particolari caratteristiche e la sua utilità.

Fu la potente famiglia dei Gonzaga ad esaltarne l’uso in cucina, la quale possedeva una ricca residenza estiva in prossimità del lago di Garda, denominata “il Serraglio”: qui veniva prodotto e offerto agli ospiti illustri un delizioso liquore a base di giuggiole: il cosiddetto “brodo di giuggiole”- considerato un perfetto accompagnamento di torte e biscotti secchi che potevano essere inzuppati nella bevanda, oppure venire utilizzato come digestivo da sorseggiare a fine pasto.

 

La fama e l’apprezzamento di questa bevanda si diffuse e perdurò nel tempo, tanto che il ‘brodo di giuggiole’ diede origine ad un’espressione metaforica giunta fino a noi. L’uso di questa espressione originaria compare nella prima edizione del Vocabolario degli Accademici della Crusca (1612), dove viene menzionata due volte: alla voce ‘succiare’, con un esempio tratto dal “Morgante” di Luigi Pulci, e alla voce castagna, dove per ‘succiola’ si intende la castagna cotta nell’acqua con la sua scorza.

L’epoca dei Gonzaga è ormai lontana, ma la coltivazione dei giuggioli nell’area del Garda e del Basso Veneto esiste ancora.

Dalle sponde del lago, alle colline veronesi e vicentine, fino ai Colli Euganei, le piante di giuggiolo crescono rigogliose grazie al clima mite e ai terreni favorevoli. Nel corso dei secoli la produzione artigianale del “Brodo di Giuggiole” si è tramandata ed è arrivata fino a noi, diventando un prodotto ambito e diffuso localmente, trovando nel piccolo borgo padovano di Arquà Petrarca la culla della sua valorizzazione e della rinascita della sua tradizione.

Si tratta sicuramente di un liquore che ha ancora una distribuzione di nicchia, ma negli ultimi anni ha cominciato a farsi conoscere ed apprezzare anche oltre i confini regionali e nazionali.

LA PREPARAZIONE DEL BRODO DI GIUGGIOLE

Il Brodo di Giuggiole è un infuso idroalcolico naturale a base di frutta autunnale: oltre alle giuggiole mature, si utilizzano le mele cotogne, i melograni e l’uva, mettendo il tutto in infusione con l’aggiunta di zucchero e scorze di limone

La ricetta moderna si basa sull’infusione idroalcolica di giuggiole a piena maturazione, a cui vengono aggiunte mele cotogne, scorze di limone, uva, melograni e altra frutta, intera o in succo, con l’aggiunta di zucchero. La preparazione classica prevede una macerazione piuttosto lunga: i frutti si devono lasciare in infusione per un paio di mesi, dopodichè il liquido ottenuto viene filtrato ed infine imbottigliato. Il prodotto ottenuto è una bevanda liquorosa dalla gradazione alcolica media (24%vol), dal colore rosso ambrato e dal profumo tipico di giuggiole. Il sapore è dolce e fruttato, con un gusto ricco ed avvolgente, particolarmente gradito anche dal pubblico femminile.

Il brodo di giuggiole si conserva abbastanza a lungo come tutti i liquori fruttati, ed è ideale come digestivo servito a temperatura ambiente alla fine dei pasti, ma può essere degustato anche ghiacciato o come ingrediente principale di drink e aperitivi sfiziosi.

Nella stagione invernale è possibile scaldare il brodo di giuggiole, preparando una bevanda calda tipo punch.

Alberta Bellussi

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In veneto l’espressione “casca el palco” ha un significato ben preciso e quando casca il palco si svelano tutte le verità.

Infatti “qua casca el palco” si riferisce più a una montatura, una messa in scena, che, prima o poi, si rivela come tale. Per esempio, uno si spaccia per quello che non è  e un bel giorno lo si vede per quello che è. È un periodo storico dove l’apparenza conta molto e ci sono molti palchi che prima o poi cadranno.

Co casca un palco un se rivela par quel che le.

Lo sai da dove deriva questo modo di dire?

A me si è illuminata la lampadina ieri sera durante  una bellissima serata nei boschi del  Cansiglio, con la guida alpina, per conoscere e ascoltare il bramito, il canto dei cervi innamorati.

Eh sì! Il palco è proprio quello dei cervi.

Il maschio di cervo porta sul capo delle corna che ogni anno si arricchiscono di una nuova ramificazione. Questa meraviglia della natura che i cacciatori usavano come trofeo, viene detta “palco”.

E ogni anno, ad inizio inverno, al cervo “casca il palco” che ricrescerà poi a primavera. Sì, ogni anno, alla fine della stagione degli amoric casde. Il palco del maschio, che può essere più o meno grande a seconda dell’età e dell’alimentazione dell’animale, si riforma tutti gli anni nello stesso modo, con la stessa disposizione di rami e biforcazioni, alle quali si aggiunge un nuovo spuntone lungo qualche centimetro. Se si ha l’occasione di vedere un animale adulto tra febbraio e marzo, si possono notare sulla fronte due abbozzi. Sono le cicatrici dei palchi caduti e il punto di formazione di quelle nuove. Il processo di crescita non è indolore. Il velluto, così si chiama il nuovo tessuto osseo, è fortemente innervato, ricco di sangue e sensibilissimo. In questo periodo i maschi sono molto nervosi e si alimentano con grandi quantità di cibo. I trofei dei maschi adulti possono raggiungere il peso di 15-18 chili.

 Il “palco” del cervo è una messa in scena che serve per acquisire ed imporre autorità sugli altri maschi  e di conseguenza sulle femmine.

Alberta Bellussi

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Come molti detti popolari, la vecchia pratica di “contare le pecore” per addormentarsi arriva  dall’eredità contadina della nostra storia ma da dove deriva più precisamente questa conta “ovina”?

Ce lo racconta una storia che vede protagonista Ezzelino da Romano, ed è raccolta in un libro di fine Duecento intitolato ‘Il Novellino’ e da allora divenne consuetudine contare le pecore per riuscire ad abbandonarsi tra le braccia di Morfeo…

Ezzelino Da Romano era il signore della Marca Trevigiana in epoca medioevale che, grazie alla sua abilità politica e alla violenza con cui si gettava in battaglia, conquistò molte città del Nord-Est italiano, accattivandosi anche il favore dell’Imperatore Federico II di Svevia, uno degli uomini più potenti d’Europa.

A causa del suo temperamento focoso Ezzelino era sempre irrequieto e soffriva di un’inguaribile insonnia che gli impediva di dormire, anche solo per poche ore.

Per distrarsi durante le lunghi nottate in bianco allora, Ezzelino prese presso di sé un cantastorie che lo intrattenesse con canzoni e storielle; il cantastorie, però, dopo qualche tempo non riusciva più a sostenere tutte quelle ore senza riposo ed escogitò uno stratagemma.

Era talmente sfinito che una sera, quando Ezzelino gli intimò di narrare un’altra storia, questi iniziò a raccontare una vicenda il cui protagonista era un contadino proprietario di cento bisonti che lì portò al mercato per scambiarli con delle pecore, due per ognuno di questi.

Durante il suo ritorno, il villano si accorse che, a causa di un forte temporale, il fiume che avrebbe dovuto guadare si era ingrossato a tal punto da impedirgli il passaggio. L’unico modo per attraversalo era quello di utilizzare la barca sgangherata di un pescatore nella quale poteva entrare solo lui e una pecora per volta.

 Il contadino non si perse d’animo: caricò la prima pecora sulla barchetta e cominciò a remare. Con forza e pazienza riuscì a raggiungere l’altra sponda, mise giù la prima pecora e tornò indietro per recuperarne un’altra e così via…mentre parlava, il cantastorie si addormentò.

Ezzelino, infastidito, lo scosse e gli intimò di continuare il racconto ed andare oltre. Ma il favolatore rispose: “Messere, lasciate prima passare tutte le pecore una ad una, poi proseguiremo a raccontare la storia!”.

A quelle parole, Ezzelino da Romano rise e pensò che ci sarebbe voluta tutta la notte perché tutto il gregge passasse all’altra sponda del fiume!

Così per quella notte il cantastorie poté finalmente addormentarsi a un’ora consona e riposarsi e Ezzelino si mise a contare le pecore che guadavano il fiume una ad una.

Alberta Bellussi

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Dei boschi della Serenissima ho sempre sentito parlare.

Nella sua lunga e secolare storia la Repubblica di Venezia ha sempre considerato con grande attenzione e lungimiranza i problemi ambientali perché preservare la laguna voleva dire proteggere la città.  Città e ambiente sono stati, sempre, strettamente legati: acque e boschi erano gli elementi fondamentali del rapporto fra natura e uomo, finalizzato ad un intelligente sfruttamento delle risorse, che mirava alla conservazione del patrimonio ambientale sia della laguna che dell’entroterra.

I boschi delle colline e delle zone montane, erano per Venezia, fonte di prezioso legname, materia prima per la costruzione di edifici e di navi, nel famoso Arsenale. Il legname era per l’economia della Repubblica di Venezia una risorsa di primaria importanza; dai tronchi dei roveri, dei faggi, degli abeti si ricavava, infatti, la materia prima per costruire le navi, che permettevano ai mercanti veneziani di arricchire se stessi e la propria Repubblica mediante i commerci con l’Oriente.

Milioni di alberi, inoltre, furono utilizzati dai Veneziani per fondare la città, edificata su fondazioni di palafitte, e per costruire gli argini a difesa dalle onde del mare aperto.

Grande attenzione fu quindi riservata dal governo della Serenissima alla cura dei boschi delle zone dell’entroterra. II Bosco del Cansiglio ne è un esempio che si può ancora vedere ai giorni nostri; nei secoli è stato sottoposto ad uno sfruttamento equilibrato pur consentendo di ricavare il prezioso legname.

Nella foresta del Cansiglio, appunto, si coltivavano i faggi, che servivano per fare soprattutto i remi delle galee.

Nelle vallate del Cadore, del Comelico, dell’Ampezzano e dell’Agordino, le piante abbattute erano soprattutto abete bianco, abete rosso e larice.  Il bosco degli alberi di S. Marco, che si trovava in località Somadida (Auronzo di Cadore) In quel punto la vallata era protetta dai venti dai Cadini di Misurina e dalle Marmarole, sopra il bosco, a sud, vegliava una montagna detta il Corno del doge, per la sua cima molto simile al copricapo del doge. Qui il sole penetrava poco all’interno della vallata e il clima era, per quasi tutto l’anno, molto rigido per cui le piante crescevano molto lentamente alte e diritte. Erano le piante ideali per realizzare le alberature delle galee, delle cocche da carico e dei galeoni da battaglia della Serenissima.

Il bosco dei remi di S. Marco era localizzato nell’attuale altopiano che sovrasta in Alpago il lago di S. Croce.

Il bosco dei roveri del Montello, vasta collina morenica alla destra del Piave, all’inizio della pianura veneta era un’area dove si coltivavano le querce. Divisa in settori, con un guardiano per ogni settore, era fatto divieto assoluto di entrare nel bosco e pene severissime erano comminate a chi trasgrediva. Il Montello era il bosco protetto dei roveri, (querce) queste erano utilizzata per le parti portanti della nave, le ordinate e la chiglia.

I boschi erano quindi di vitale importanza per la città di Venezia sia per l’equilibrio ambientale che economico.

Il fatto che la tutela dei boschi servisse per evitare il dissesto idrogeologico e l’interramento della laguna era ben chiaro, già, nel 1400. Infatti il segretario del Senato veneziano scriveva nel 1476: «Il diboscamento è causa manifestissima dell’interramento di questa nostra laguna, non avendo le piogge e altre inondazioni alcun ritegno né ostacolo, come avevano dai boschi, a confluire nelle lagune». Così veniva giustificata l’esigenza dei primi provvedimenti legislativi a tutela dei boschi.

La tutela della foresta permetteva anche una migliore difesa del territorio e della laguna stessa. Era ben chiaro, fin da quei tempi, lo stretto rapporto che lega il diboscamento, ed il conseguente dissesto idrogeologico delle zone montane, ai guasti causati dalle inondazioni a valle, fino al pericolo dell’interramento della laguna.

Per la Serenissima era quindi importantissimo tutelare i boschi ci sono alcune testimonianze scritte dai magistrati veneziani dopo le periodiche ispezioni alle foreste.

Così si esprimeva Alvise Mocenigo, podestà di Belluno, dopo un’ispezione al Bosco del Cansiglio nel 1608: «Ho veduto i boschi che ha la Serenità vostra in Alpago – Cansiglio e siccome devono esserle carissimi a guisa di prezioso tesoro, poiché essendo copiosissimi di faggi, avendone la debita cura, suppliranno per sempre abbondantissimamente al bisogno che possa avere di remi per galee la più grossa e potente armata che in qualsivoglia tempo si decidesse di mandar fuori».

Da queste testimonianze si evince l’importanza che la tutela dei boschi ebbe per Venezia e si capisce il motivo della legislazione contro l’abbattimento senza criteri di alberi, emanata dal Senato e dal Consiglio dei Dieci per garantire la conservazione di una così importante risorsa naturale. Concludiamo con le parole di uno di questi divieti, emesso dal doge il 20 febbraio 1687: «Si fa pubblicamente intendere a cadauna sorte di persone, così uomo come donna, fanciulli e fanciulle, nessuno escluso, che non si debbono in alcuna maniera scorzar (togliere la corteccia), tagliar o in altro modo danneggiare i roveri tagliati per l’Arsenal nostro».

Alberta Bellussi

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Leggevo l’altro giorno un articolo di un sondaggio fatto su un campione di 500 italiani sulle regole base della buona educazione il cui esito è stato disastroso.

Non mi sono stupita   perché sembra che buon senso, buona educazione e buone maniere stiano sempre più diventando   “azioni in via di estinzione” nella vita quotidiana. Una parola dal sapore antico comprende tutte queste norme ed è il termine galateo; è un codice che stabilisce le aspettative del comportamento sociale, la norma convenzionale.

Il galateo, questo grande sconosciuto!

Se pensiamo che al giorno d’oggi dare la precedenza ad una signora più anziana o chiedere permesso prima di entrare in una stanza siano formalità evitabili ci sbagliamo di grosso. D’accordo, bisogna ammettere che i tempi sono cambiati e pretendere che un uomo ci apra lo sportello dell’auto per farci sedere o che si congeda con il baciamano è probabilmente una questione fuori luogo però quando ciò  accade, raramente, stupisce piacevolmente.

Il galateo e le regole del “bon ton”, non passeranno mai di moda, anzi, in questo mondo frenetico, il sapersi comportare, sia in privato che pubblico è un grandissimo valore aggiunto per la persona.

 Il galateo è stato scritto proprio in Veneto.

Nel Galateo di Monsignor Della Casa, pubblicato postumo nel 1558. Redatto nell’abbazia di Sant’Eustachio a Nervesa sul Montello, tra il 1552 e il 1555, il Galateo (il cui titolo completo è Trattato di Messer Giovanni Della Casa, il quale sotto la persona d’un vecchio idiota ammaestrante un suo giovanetto, si ragiona de’ modi che si debbono o tenere o schifare nella comune conversazione, cognominato Galateo overo de’ costumi).  E’ un breve trattato in forma di dialogo, in cui si immagina un “vecchio” (dietro il quale è celata la figura dello stesso autore) che impartisce insegnamenti ad un ipotetico giovane diviso in trenta capitoli ripartiti quasi sicuramente dall’editore che detta le regole consone alla conversazione, all’abbigliamento e ai costumi di un gentiluomo. Scopo dell’autore era quello di insegnare al gentiluomo il buon comportamento da tenersi nella vita quotidiana.

Tutta questa serie di norme, che andavano dal corteggiamento alla composizione della tavola, dalla corretta scrittura delle lettere all’organizzazione del matrimonio, dalla comunicazione al contegno, erano dettami importanti per condividere bene il proprio spazio con gli altri.

L’Abbazia di Sant’Eustacchio è un luogo molto bello che merita davvero una visita.

Era un importante monastero benedettino, sopresso nell’ 800 e oggi recentemente restaurato. Essa sorge a Nervesa della Battaglia, in un luogo strategico per la sua posizione sopraelevata e la vicinanza del Piave, che qui offriva numerose possibilità di guado.

Fu fondata prima dell’anno 1062 da Rambaldo III di Collalto e dalla madre Gisla per limitare il potere dei vescovi di Treviso, che avevano tolto loro il controllo della marca trevigiana, con un’istituzione che dipendesse direttamente dal pontefice, il quale dal canto suo non vedeva di buon occhio l’espansione dei vescovi trevigiani, sostenitori dell’imperatore. Nonostante il numero esiguo di monaci presenti, il capitolo poteva contare su vasti possedimenti e sulla protezione dei Collalto. Nel 1231, papa Gregorio IX riconosceva a Sant’Eustachio il controllo di trentacinque tra pievi e cappelle poste in tutto il territorio trevigiano sino a Mestre; diventando di fatto sempre più autonoma.

Durante il XIV secolo i vescovi di Treviso approfittarono delle varie crisi susseguitesi dovute allo scima d’occidente, alla peste e alle invasioni degli Ungari, per estendere la loro influenza su questo capitolo. Nel 1521 Papa Leone X, visto il lento ed inesorabile decadimento del capitolo, dovuto anche anche al malcostume dei suoi frati, soppresse l’Abbazia trasformandola in prepositura commendatizia sottoposta indirettamente al controllo dei Collalto (18 prepositi su 21 erano dei Collalto). Rimanevano anche i vari privilegi e possedimenti e, di conseguenza, i contrasti con il vescovo. Tra il XVI e il XVII secolo questo luogo divenne un importante polo culturale in grado di attrarre personaggi illustri, tra i quali va menzionato sicuramente Monsignor Della Casa, che qui compose il noto Galateo.

Tra il 1744 e il 1819, il complesso fu guidato dal preposito Vinciguerra VII di Collalto, uomo colto e capace che lo trasformò in un’importante azienda agricola retta da esperti e studiosi. Fu grazie a lui che la prepositura sopravvisse alle soppressioni napoleoniche di inizio Ottocento, che invece colpirono la vicina certosa di San Girolamo. In seguito, tuttavia, le autorità ecclesiastiche giudicarono inutile e obsoleta questa istituzione e, nel 1865, essa venne definitivamente soppressa. Dopo la Rotta di Caporetto, l’edificio si ritrovò in prossimità del fronte del Piave e subì pesanti danneggiamenti.

Ora riportato agli antichi splendori grazie al restauro di Giusti.

Alberta Bellussi