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In questo suo nuovo libro, l’autrice ritorna a quel bellissimo mondo che gravita attorno a Venezia, in una regione, il Veneto, tutta da scoprire e da vivere.

A marzo 2022 è nata la nuova creatura letteraria dell’autrice Alberta Bellussi dal titolo “La biodina in gondoleta”. Un libro pensato con lo stesso leitmotiv di “Mi son veneta” (2018), una sorta di secondo volume di una collana dedicata al Venetocuriosità, leggende, storie, ricette, cultura; un capitolo importante è dedicato alle canzoni della tradizione veneta che, un tempo, tutti conoscevano e cantavano nei momenti conviviali e che hanno spesso una spiegazione storica che le accompagna.

I boschi del Montello, il Cansiglio, i boschi vicino al Piave e non solo, in tutto il Veneto vi sono luoghi di misteri e leggende tramandate oralmente, di generazione in generazione, fin dall’origine dei tempi. Si racconta, infatti, che tutta la zona sia stata abitata da creature magiche come fate, anguane, draghi, spiritelli vari e anche il Diavolo o piccoli diavoletti scontrosi e antipatici, in una sorta di contrapposizione continua tra bene e male e poi la storia della capricciosa Misurina o la sirena che fece nascere il merletto di Burano e molto molto di più.

Il libro è edito da Alba Edizioni di Meduna, una casa editrice attenta a portare alle stampe piccole pubblicazioni che parlano del territorio e che fermano emozioni, momenti, cultura e tradizione in pagine di carta. Lo si può acquistare in tutte le librerie o edicole del territorio.

Per gli stessi tipi, nel 2018 usciva Mi son veneta, nato dalla passione dell’autrice di cercare, conoscere e raccogliere i piccoli aspetti, le curiosità culturali che mille anni di una Repubblica così importante come quella Serenissima hanno lasciato in eredità in tutti gli aspetti della vita quotidiana di un cittadino che vive in questa regione. «“Mi son veneta” è stato scritto come uno scrigno pieno di piccole perle di echi di un fastoso passato che portiamo nel DNA – spiega l’autrice – un DNA di apertura verso il mondo, tolleranza, intelligenza che sarebbe bello ricordare di avere e che ha avuto molto apprezzamento da parte dei lettori».

Nel 2020 è uscito Maria e le storie di una volta. Racconti di una ruralità passata”. Sono racconti di una ruralità veneta fatta di gesti, di tradizioni, di rituali che sono parte della nostra storia. La bimba Maria, insieme alla sua nonna, ci ha portato per mano dentro questi quadri di vita che hanno la poesia, la delicatezza e la spontaneità del mondo contadino. Campi, frutti, attrezzi, cibi, ricette, giochi che hanno il sapore autentico della genuinità, che profumano di buono.

“La biodina in gondoleta” va a continuare la serie. A fare da filo conduttore l’«amore per la conoscenza e per Venezia che non smette mai».

Sono letture semplici, genuini e schiettie ma piene di passione, «quella passione che esprime il mio amore per Venezia, la sua maestosità, grandezza e la sua secolare apertura verso il mondo» afferma l’autrice. Il suo è «un piccolissimo contributo affinché questa importante eredità del passato sia viva e conosciuta e soprattutto perché non vada mai perduta». I libri di questa collana ben si prestano ad essere sfogliati, per evocare ricordi o approfondire la conoscenza di cose di cui finora non si sapeva l’origine o il perché, ma anche ad essere letti con figli o nipoti, proprio per tramandare e tenere in vita radici profonde

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Il tendone del circo di Moira Orfei era pieno di gente. Erano tutti con il fiato sospeso e gli occhi rivolti all’insù per il numero dei trapezisti. Al terzo tentativo del triplo salto mortale non si sentiva neanche lo spostarsi di una foglia. L’adrenalina era a mille. L’atleta si lanciò nel vuoto al battito ritmato delle mani e il salto fu spettacolare. Partì un applauso così fragoroso che il tendone a strisce faceva fatica a contenere. Maria aveva percepito il clima di festa; aveva deciso che anche lei voleva vedere lo spettacolo.

Iniziò a scalciare così velocemente che sembrava volesse andare in pista. Le acque si ruppero. La corsa all’ospedale di due giovani ragazzi inesperti e alle prime armi era velocissima. Maria aveva fretta di respirare l’aria della vita. Il ventre della sua splendida mamma ormai le stava stretto. Neanche il tempo di entrare in sala travaglio e si sentì, per tutto il reparto, un vagito energico e deciso. Era nata Maria e da subito ci teneva a far sentire la sua presenza al mondo.

Lei era bella. Occhi vispi e verdi che diventeranno il suo strumento per conoscere il mondo e per affascinare. Il viso solare e paffuto. Splendidi fili dorati accompagnano tutta la sua esistenza. Maria è bionda. Da quel giorno del mese delle rose e delle ciliegie lei apparterà alla categoria delle bionde.

Maria è una bambina veneta. Cresce nella campagna trevigiana che ama visceralmente. E’ a contatto con il paesaggio agricolo della sua infanzia che impara a conoscere le  emozioni che prova. Le scrive tutte  e le mette, poi, nei cassetti segreti della memoria per preservarne l’esistenza. Lei non vuole  perdere nulla di quello che prova e che sente.

Qui entra in contatto con quelle piccole cose che Maria osserva, vive e fa proprie.

Ha sei anni, indossa il suo colorato vestitino a fiori che la fa sembrare una tenera bambolina con gli occhi verdi e i capelli come la Barbie.

La sua immagine esile e chiara cela in realtà una bambina energica e curiosa di tutto.

Quel giorno, stavano tagliando il mais nel campo vicino, la mietitrebbia, con l’impeto di un mostro dalla bocca enorme, si mangia  file e file di piante secche. E’ travolgente non si ferma ma magicamente nel carro vicino vengono svuotati  gialli chicchi.

Lei ci andava con il papà a vedere la trebbiatura e si nascondeva dentro i rimorchi colmi di mais.

Maria è affascinata dalla campagna. Ama annusarne gli odori e i profumi di cui la natura è generosa generatrice. Si incanta a guardare i colori delle piante, delle foglie.

Piccina, piccina ascolta i discorsi dei contadini. Umidità. Grandezza del chicco. Precoce tardiva. Lei guarda curiosa, mette tutto dentro i suoi cassettini segreti. Maria non butta via nulla: esperienze, sensazioni e emozioni. Tiene tutto come un tesoro prezioso. Pensa al suo libro immaginario della fantasia che inizia a riempire giorno per giorno.

Lei se l’era sempre immaginata come un grande mostro la mietitrice; un mostro venuto a conquistare un campo che se lo divorava  in poco tempo.

Maria guardava il campo di mais che scompariva sotto i suoi occhioni verdi e si chiedeva: “Si mangerà tutto il mais?”. “speriamo di no!” si rispondeva dentro la sua testolina.

Lei e la nonna erano solite andare a raccogliere le pannocchie che rimanevano nel campo con la loro cesta. Questo mais serviva per dar da mangiare alle galline e ai tacchini della nonna. Maria era eccitata. Correva su e giù per il campo e portava alla nonna i pezzi di pannocchia rotti e anche i tutoli che servivano per accendere il caminetto.

Tornata a casa, Maria si sedeva sui sassi del cortile e tirava il mais agli animali. Le galline, un po’ più sciocche, si avvicinavano veloci; poi quando lei tirava il cibo correvano tutte dalla stessa parte contendendosi una dal becco dell’altra un chicco.

Dei tacchini lei aveva paura. Si divertiva, però, ad urlare loro dietro per sentirsi rispondere con goglotii un pò poco coordinati. Potevi andare avanti per ore che loro facevano sempre lo stesso meccanismo ripetitivo.

Maria riusciva a giocare anche con una foglia che, a volte, si immaginava fosse una tranquilla barchetta sul fiume. Lei aveva molta fantasia.

Maria aveva un amico segreto al quale ogni sera raccontava le sue emozioni. Si chiamava e si chiama tutt’ora Amore. Non se l’era immaginato bellissimo ma molto buono e dolce con lei.

Lei non era mai triste; era sempre solare e piena di allegria.

Maria amava molto osservare il lento mutare della campagna veneta mese dopo mese. Rimaneva incantata per ore a guardare i colori delle piante, macchie verdi, rosse e gialle.

Il campo, sfinito dal passato raccolto, lascia riposare il suo arido manto. Nascono vigorose, sopra di lui, erbe ed erbacce i cui semi sono custoditi nella terra. Sono i semi che la terra porta con sé, che tramanda aratura dopo aratura. Sono i testimoni della ruralità veneta. Quelle stesse erbacce della terra a riposo si presentavano agli occhi dei nostri bisnonni. La terra che, d’inverno riposa sonnolenta scaldata da quel naturale mantello, in realtà è un fertile ventre di donna che racchiude in sé la potenzialità di donare vita.

E finalmente giungeva il tempo di preparare i terreni per la semina. A spezzare il suo letargo e a risvegliare la sua generosa sensualità ci pensa l’aratro del contadino. Maria perdeva il suo sguardo dietro l’aratro. Saliva spesso nel pararuota del trattore con i contadini ad osservare la terra solcata e a sentirne l’odore. L’aratro affonda con gesto virile il terreno vergine. Inizia il suo gesto fecondo per rendere la terra fertile per la semina. Il gesto è quasi sacrale; deciso ma delicato. Il coltro taglia la terra verticalmente;  il vomere  la taglia orizzontalmente e il versoio  capovolge la zolla tagliata. In questa azione rituale e ripetitiva la terra cambia vestito, colore e profumo. Si presenta nel pieno della sua rotonda generosità pronta ad accogliere i semi che generano vita.

Maria osservava avida di emozioni quelle zolle che presentavano il loro abito migliore al contadino; marrone, nere, ocra. La terra si vestiva di vari colori e di mille profumi.

Poi corre frenetica verso casa, in sella alla sua piccola biciclettina rossa, a cui Maria aveva dato un nome naturalmente. Si chiamava Gipotino Brooklyn.

Sale in camera prende il suo quadernetto e scrive le sue emozioni, le sue sensazioni cosìcchè anche il suo amico Amore le potesse leggere e conoscere.

Maria cresce diventa una bella ragazzina dai capelli d’oro. Il suo sguardo chiaro è trasognato ma sempre attento alle cose del mondo.

Rimangono sempre impressi in lei, come un tatuaggio dell’anima, quegli elementi della campagna veneta che nessuno glieli toglie. Li ha protetti nei cassetti della memoria e nei suoi libri segreti.

I campi sono tappezzati di macchie gialle e rosse. Radicee e peverel. Diventeranno soffioni e papaveri. E via per quei prati munite di sacchetto e coltello a raccogliere i verdi rosoni per farne dell’indimenticabile verdura cotta.

E la nonna che le diceva :” Maria ciol su quee col boton che le e pi bone”.  E lei che minuziosamente guardava ogni pianta di tarassaco e cercava quella che aveva ancora il bocciolo da sbocciare come le aveva raccomandato la nonna.

Poi perdeva il suo sguardo nel rosso appassionato dei papaveri e nella delicatezza dei soffioni.

Amava scappare dentro i campi gialli di erba medica. Buttarsi distesa pancia in sù. E li nascosta dagli alti fiori rigenerava il suo essere; assorbiva l’energia di Gaia, la terra, e dei colori dei fiori.

Maria, in quella sorta di nascondiglio naturale, guardava il cielo e giocava con le sue amiche a trovare nelle nuvole delle forme di animali. Nel loro gioco fantastico il cielo era un grande giardino pieno di elefanti, cavalli e dove ogni tanto passava anche un gatto.

Proprio quel giorno che era lì con l’amica di sempre Gabriella, vede un campo di soffioni così pieno che attira immediatamente la loro curiosità.

Corrono. Si buttano nel prato. Un pò alla volta i soffioni si appiccicano ai loro capelli che diventano delle splendide parrucche da principesse. Corrono. Cantano spensierate la loro canzone preferita pomel pomel e la loro testa ormai è bianca e pelosetta.

La parrucca lascia il posto alle loro chiome dopo un energico lavaggio delle mamme che se la ridono alla follia delle figlie.

Ma su quei meravigliosi e fragili soffioni Maria aveva più volte sognato di appendersi pensandoli come   una sorta di paracadute per sorvolare le bellezze di questo Pianeta.

Un giorno è partita; ha sorvolato mari, laghi, montagne e pianure e poi si è svegliata nel suo lettino giallo come il sole.

Ogni nuova giornata presenta a Maria nuove avventure da vivere.

La mamma di Maria amava vestirla con i vestitini fru fru e con i codini chiusi da due palline colorate. Alla mattina i codini erano simmetrici e perfetti alla sera, di solito, erano uno più basso dell’altro perché Maria non stava mai ferma.

La Gipotino è pronta e i ciliegi si piegano dal peso dei frutti rossi e maturi.

Salire sugli alberi. Raggiungere i rami più alti era la sua passione.

Da lì si sentiva il capo di un veliero che solcava i mari. Quante avventure sul ciliegio dello zio. Quei piccoli frutti amaranto erano compagne di mille avventure; servivano da munizioni durante le traversate oceaniche.

Maria riusciva sempre, anche se spesso era la più piccina, a raggiungere la cima dell’albero maestro e prendeva in mano la guida della missione.

La sua fantasia era così smisurata e ricca che gli altri bambini, pur di stare nella magica nave di Maria, erano disposti a fare anche il marinaio o il mozzo.

Il tubo dello scotex, rubato alla mamma, permetteva di avvistare le navi di altri pirati che venivano abbattute a colpi di ciliegia.

Una volta nel grande cedro del Libano, davanti a casa, il nemico era venuto dall’alto. Maria, come i bravi capitani, aveva lasciato per l’ ultima la nave. Per raggiungere terra velocemente si lanciò con il suo paracadute di dotazione. L’ombrello si piegò e il volo fu veloce e impetuoso. Maria piena di botte e dolorante, si alzò in piedi e sorrise.

Pensò che l’ombrello non aveva svolto bene la funzione assegnatagli ma l’idea era buona.

Non si era certo abbattuta per questo piccolo inconveniente anzi qualcosa di nuovo le balenava già per la testa. Maria chiamava gli alberi per nome e se li vedeva tristi li abbracciava anche.

Trascorreva ore a guardare come una formica poteva portarsi una enorme briciola di pane dentro la tana.

Le lucciole la affascinavano assai. Sognava spesso che fossero delle piccole ballerine in miniatura con la gonna illuminata. Le vedeva tutte eleganti che piroettavano nel cuore della notte tracciando la strada agli insetti. E poi stanche e spossate spegnevano la loro lucina e andavano a letto.

I maggiolini erano dei buffi aerei con il motore molto rumoroso e scarcassato ma anche le cimici non erano da meno. Maria li osserva con tenerezza perché erano brutti e puzzolenti e nessuno li voleva.

Però una notte accade che uno di questi verdi animaletti entrasse nella sua camera.

ZZZZZZZ, STOC STOC STOC , GNEEO

E Maria si chiedeva: “Ma che cavolo sta volando sopra la mia testa dentro la mia camera?”. Per un attimo pensò di essere presa d’assalto da una contraerea di esseri verdi o marroni che però non avevano molta capacità di manovra. Erano goffi e instabili. Maria nervosa e mezza addormentata pensò a una strategia di difesa da questo attacco dall’alto. Dalla contraerea si era staccato un solitario piccolo aereo verde e si divertiva a fare meravigliosi looping per la stanza. L’esserino continuava il suo volo sbattendo ovunque ad un certo punto sparì. Maria tornò a dormire e invece no!  Lo sentì accarezzare la sua faccia. Maria lo prese e lo portò fuori.

Lei si divertiva con tutti gli insetti la facevano fantasticare mondi strani e teneri.

E poi arrivava l’autunno, lo splendido autunno.

La bambina dagli occhi del color delle  foglie era felice. Era nata con la passione dei funghi chiodini. Ce li aveva nel Dna. Il suo nasino, in questa stagione, era come quello di un cane da tartufo si muoveva velocemente. Sentiva l’odore delle spore da lontano. Si avvicinava guardinga e circospetta dove vedeva una foglia più alta o una crepa anomala sulla terra. Ed ecco lì, appariva magicamente un bouquet di splendidi chiodini marroni con la cappella gialla. Erano nati dalla ceppaia di una vecchia acacia. Sono i profumati fonghi de cassia. Un po’ più in là un altro funghetto sotto dei noccioli. Ce ne sono tantissimi marroni, turgidi e profumano di muschio.

L’adrenalina sale. Maria grida dentro di sé il suo entusiasmo. Tutto il suo essere partecipa alla gioia. Il cesto è pieno. Le foglie cadono. Gli alberi sono nudi e mostrano il loro vigoroso scheletro e i cachi arancioni colorano l’autunno.

I contadini potano le viti. I sarmenti accumulati rendono i vigneti impraticabili ma tra poco verranno spinti fuori per fare il falò.

Maria è Veneta. E in Veneto il panevin è parte della tradizione; è la divinazione di come sarà il nuovo anno.

Maria è felice gli uomini di Via Gajo le hanno assegnato il compito di costruire la vecia. Lei per anni e anni è stata l’ideatrice della befana per il falò del borgo e ogni anno la vecchietta era più bella e sexy. Qualche anno era così intrigante e affascinante che dispiaceva quasi metterla alla cima della catasta per vederla bruciare.

Maria mentre costruiva la befana inizia o sognare mondi lontani.

E poi guarda le faville. Se vanno a sera poenta a pien caliera (ovest) , se vanno a mattina (est)  ciol su el sac e va a farina.

Maria è curiosa del mondo e ama la natura.

Raccoglie gattini per le strade e cani. Un giorno vide accucciato triste dietro la strada un cocker cieco. E’ bastato che Maria le parlasse e si fidò subito di lei. Il vecchio Dudù visse molti anni nel suo recinto perché la cecità gli impediva di muoversi libero per il giardino senza pericoli. Dudù era un cane amato e felice. La mamma di Maria lo aveva adottato e lui sentiva da lontano quando stava arrivando e scodinzolava come un pazzo.

E poi le feste quelle meravigliose feste che profumano di puro e autentico al suono magico della fisarmonica. Il cacciatore del bosco vide una contadinella era graziosa e bella. Ma la mula de parenzo l’ha messo su bottega de tutto la vendeva fora che el baccalà. E perché non m’ami più. Amor dammi quel fazzolettino vado alla fonte lo voglio lavar. Bionda petenate. Oleop la curva.

Maria cresce e di emozione in emozione diventa donna.

La sua testa è piena di cassettini colmi di emozioni, esperienze, momenti che ha archiviato con dovizia di particolari: suoni, odori, colori, adrenalina, sogni, tristezze, musiche, sensazioni, amori, passioni.

Maria ama il mondo nella sua totalità e ha un’attenzione forte per  l’ambiente.

I cassettini della sua enciclopedia emotiva sono pieni di tutto ciò che ha vissuto. Tassello dopo tassello hanno fatto di lei la persona che è. Altri aspettano di essere riempiti di tante piccole meravigliose cose.

Maria ha vissuto mille avventure altre mille ne avrà da vivere.

La sua enciclopedia è immaginaria ma è una splendida   raccolta di manoscritti che segnano il passaggio di una persona su questa incantevole ma bistrattata terra.

Come d’incanto con questo racconto fanta-emotivo si è aperto il primo manoscritto della storia di Maria che il fato conservava sullo scaffale più prezioso della sua libreria e che Maria aveva sempre tenuto protetto da tutti. Ora come d’incanto un mago l’ha aperto e vuol far conoscere il meraviglioso mondo della bambina dagli occhi di foglia e dai capelli d’oro al mondo perché sono racconti di battaglie, di interiorità, di dolci ricordi, di tradizioni, di cultura, di passioni, di amori, di amicizie ma anche di gioia e spensieratezza. Di un mondo bello fatto di rispetto per i sentimenti e per i valori della vita. Un mondo che vale la pena di essere conosciuto

Chissà quanti se ne apriranno ancora di questi libri magici? chissà il fato cosa riserverà alla dolce Maria ….

Alberta Bellussi

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Se lo volete acquistarlo costa 10 euro.

albertabellussi@libero.it

Mi son Veneta. Aneddoti, curiosità e ricette della tradizione popolare.”

Questo libro è uno scrigno di piccole pillole di “veneticità” e di aspetti dell’identità veneta ratti dalla storia, la lingua e la cultura popolare di questa regione ruspante e legata alle tradizioni di una volta tanto in cucina che nei modi di dire e di fare e nella maniera di raccontarli.

Aspetti da sfogliare per conoscere tantissime curiosità oppure da leggere ai figli e ai nipoti perché sono letture semplici, genuine ma piene di passione; quella passione che esprime il mio amore per la mia terra, il Veneto, ma anche per il mondo.

 

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Ed è così o almeno per Fabrizia è così!

Nei momenti più duri della vita trovare conforto nella religione è quasi una chance naturale alla quale Fabrizia è ricorsa più volte   oppure no, è semplicemente un bisogno che ha dentro di sé e si acutizza nelle difficoltà.

Fabrizia, donna forte ma fragile, occhi verdi e capelli biondi, sguardo tenero, ha sempre visto nella madre di Gesù la figura più vicina a lei con la quale dialogare e alla quale raccontare la sua vita, le sue battaglie quotidiane, le gioie e le sue tristezze… lei è sicura che la Vergine la capisce e che, se può, una mano tenera gliela allunga anche stavolta, come ha sempre fatto in passato.

Le accade però che, nei momenti nei quali ci vuole coraggio, non le basta un dialogo superficiale con la Madonna ha bisogno di andare in uno dei luoghi dove la sua presenza si è fatta viva e il suo passaggio ha lasciato una grande energia tangibile. Insomma in uno di quei luoghi definiti mariani. Lei ha un legame tutto suo con la religione; è credente ma non strettamente praticante, rispetta tutti i credo e non è estremista ma, una cosa è certa, la sua confidente è quella Maria di Nazaret che lei ama.

Era accaduto tanti anni fa, ormai ventuno, lei aveva perduto, strappata da una perfida malattia, la nonna… quella persona genuina, fragile e autentica che le aveva insegnato le cose semplici della vita: cucinare, piantare i fiori, fare il giardino, … ma soprattutto ad amare le persone.

La nonna aveva una bontà quasi spiazzante non riusciva ad essere cattiva nemmeno con chi non si comportava bene con lei. Lei aveva avuto una vita difficile, tanto difficile, forse per quello era buona, tanto buona.

Aveva perduto il suo principe azzurro per una strana e immediata malattia, quando lei era bella e giovane con gli occhi azzurri e i riccioli neri, aveva immolato la sua vita a questo amore velando il suo sguardo di tristezza…ma la mamma di Fabrizia, con amore e pazienza aveva ridonato a Maria, questo era il nome della nonna, lo sguardo allegro e solare.

Maria era una nonna birichina, nella vecchiaia si era liberata dalle paure e dai blocchi che la società, a quel tempo, imponeva a una vedova ed era sempre pronta allo scherzo, al gioco e alle cose allegre. Maria cucinava benissimo; era bravissima in tutte le ricette venete e Fabrizia, bimba curiosa assorbiva tutto ciò che la nonna faceva.

Ancor oggi dopo 21 anni solo Fabrizia custodisce i segreti culinari della nonna, in un quadernetto, a cui nessuno può accedere: la Pinza, la selvaggina, la peverada, le trippe… ecc. ecc. e, nei momenti dell’anno che lo richiedono, si cimenta nelle ricette che le sono state tramandate.

Ma la Pinza è il momento più emozionante.

Aspetto con ansia l’Epifania; è un momento che non mi lascerei scappare per nulla al mondo. Io e te, come tanti anni fa, che facevamo un casino in cucina tremendo e che eravamo come il cane e il gatto ma se non c’ero io, tu con gli altri la Pinza non la facevi, perché io ero la tua nipote vivace e tu peggio di me. Che risate, piene di farina, di zucca. E da 21 anni quando faccio la Pinza  ti ritrovo tra i fornelli che mi guardi. Sento la tua voce tra le pentole che mi dice:” si la zuca la e bona, tien un po’ de sugo, no massa fenoci che sennò la pica, le uvete metteghen tante, ancora farina che la e poentina”.  Sento che sei orgogliosa che sia io a portare avanti la tua ricetta e che in questa giornata ti sfoghi a saltellare tra i fornelli che erano il tuo regno. E poi se la Pinza riesce bene ne ridarò un pezzetto a tutti quelli che facevano la coda per venire ad assaggiarla perché per te era motivo di orgoglio.  Vorrei che non finisse mai questo nostro incontro perché sento la tua carezza di bene vero su di me. Le due teglie di Pinza le ho infornate come ogni anno.  La casa profuma di buono e d’antico per tutte le stanze…anche quest’anno sarò buonissima.  È un dolce speciale e mentre mi scende una lacrima… ti dico grazie anche per quest’anno per queste emozioni che ritornano” racconta Fabrizia.

Mille sono le finestre sentimentali che la giovane donna ricorda dei bei momenti con nonna Maria…è stato per questo che quando una malattia ha strappato, ancora giovane la nonna a Fabrizia, lei era arrabbiatissima. Aveva tenuto la mano per ore alla nonna, in quei difficili momenti di commiato alla vita, in quella cameretta scura dell’ospedale… e mentre le raccontava splendide storie di principesse che con i loro principi nei cavalli bianchi solcavano le strade del mondo per rendere più dolce il passaggio, Fabrizia si era arrabbiata con la Madonna perché non capiva il senso di quello che stava accadendo.

Quella della giovane donna bionda era un’incazzatura davvero grande alimentata dal dolore enorme e dal senso di smarrimento che stava provando.  La perdita improvvisa ha bisogno di tempo per essere compresa e metabolizzata.

A Fabrizia accadeva qualcosa di strano… ogni volta che si avvicinava ad un’icona mariana avvertiva un senso di disagio come quando hai litigato con un amico e pensi di avere ragione… provi un naturale senso di allontanamento, di irritazione. Questo non faceva star bene la ragazza, perché era naturalmente portata ai rapporti sereni ma qui non si trattava di un rapporto normale, era il rapporto con la Madonna che era entrato in crisi.  Fabrizia, che per sua natura si mette in discussione sempre, anche oggi, in quel tempo cercò di trovare una via per risolvere questo forte attrito.

Decise di partire da sola per il Santuario di Lourdes. Fu per lei un’ esperienza sconvolgente. Era ancora arrabbiata ma sentiva una voce dentro che la spingeva a mettersi alla prova.

Una mattina, Fabrizia, si alzò prestissimo e andò nel Gave au Pau,  fiume di montagna freddissimo, per rivivere il rito del battesimo. Fabrizia era molto bella, magra e solare anche se aveva la malinconia negli occhi. Negli spogliatoi dove si lasciano i vestiti per essere messo nell’acqua fredda del fiume, nudi come siamo nati, c’erano donne giovani, anziane, ragazze con gravissime malattie e disabilità. E lei iniziò a piangere; i suoi occhioni chiari erano ormai rossi e il fiato singhiozzava. Aveva un bellissimo corpo senza nessuna imperfezione. Fabrizia provava quasi un senso di disagio ad essere lì a chiedere una grazia lei che stava bene; era bella.

Improvvisamente si girò e incrociò gli occhi di una ragazzina in carrozzina che non poteva camminare che le tendeva le mani e  le disse: “Non piangere sei bella io se fossi come te sarei felice e sorriderei ma soprattutto regalerei i miei bellissimi sorrisi alle persone che non ce l’hanno”.

Fabrizia si fermò. Il pianto si interruppe. I lembi della bocca come per magia furono sollevati da una mano delicata e la malinconia diventò un bellissimo sorriso. Sparì la tristezza.

Maria, così si chiamava la ragazzina, entrò prima di Fabrizia nell’acqua fredda del fiume… si salutarono con un sorriso bellissimo quasi a sfiorarsi l’anima, e poi sparì dietro la tenda del battistero. Da quel momento Fabrizia aveva fatto pace con la Madonna… chissà chi era quella ragazzina…forse era proprio lei che voleva far capire alla giovane donna come anche le prove difficili della vita non possono farci perdere l’amore e la gratitudine per questo dono. Il pianto si tramutò in sorrisi e abbracci regalati a quei bambini ammalati e alle loro famiglie che le avevano insegnato il potere immenso che può avere l’amore.

Era il 2013 Fabrizia era di fronte ad un bivio. La vita le aveva proposto una nuova prova da superare ma lei sapeva che varcata quella porta ne sarebbe uscita rinata, una persona bella, migliore capace di tirar fuori il mondo bello che aveva dentro e che per mille motivi aveva soffocato e soppresso.   Sentiva che era il tempo di fare una scelta ma aveva bisogno di trovare un segno forte. Necessitava di fare carica di energia positiva che le desse il coraggio di vivere la sua decisione nel modo più sereno e giusto possibile. Scegliere una strada e lasciarne un’altra non è mai cosa facile. Fabrizia sapeva quello che volevano il suo cuore e la sua testa e sapeva quale era la sua priorità in assoluto. Sentiva che era giusto che quella meravigliosa farfalla capace di dare amore che era chiusa in un bozzolo rigido regalasse al mondo i suoi colori. Lei è amore.

Partì per Medjugorie con un’amica non sapendo bene cosa cercare ma con tutta se stessa pronta a ricevere qualsiasi messaggio. Li trovò un luogo strano poco in sintonia con la sua spiritualità e sensibilità. Non c’era la dolcezza di Lourdes ma una grande frenesia, rumore, gente coinvolta quasi in trans. Fabrizia ama i piccoli segnali, le azioni forti che fanno vibrare la sua emotività non è impressionabile e nemmeno condizionabile …i vari percorsi nei luoghi delle apparizioni hanno regalato momenti autentici di preghiera ma nulla più. A Fabrizia  sembrava strano che la sua richiesta di un segnale in un momento così delicato della sua vita non fosse stato percepito dalla sua amica “Maria”.

E girava per i negozietti curiosa delle cose e delle persone.

Aveva in mano una strana calamita, una delle raccolte che Fabrizia ama fare e le si avvicinò un ragazzo alto dall’aspetto italiano. La guardò, le sorrise. Lei un po’ imbarazzata rispose al sorriso e tra sé e sé pensò: ”Chissà che vuole da me”.

Tu sei della zona di Conegliano “disse il ragazzo.

“Sì” rispose intimorita Fabrizia.

Ti chiami Fabrizia vero?”.

Sì sono io” impaurita.

Il ragazzo con gli occhi gonfi di felicità si avvicinò a Fabrizia e le disse: “Ti volevo ringraziare perché se ho deciso di uscire dalla droga e di darmi una nuova possibilità di vita è anche grazie a te. Eri una bella ragazza bionda e passavi alcune ore della tua settimana, la vigilia di Natale con noi tossici, che avevamo deciso di buttare la nostra vita nel cesso, e tu con altri venivi nella Comunità a farci compagnia quando potevate fare mille altre cose bellissime.  I volontari come te non ci hanno mai giudicato anzi eravate ragazzi della nostra età belli, puliti e ci davate la mano, ci abbracciavate sorridendoci anche se noi eravamo delle larve umane ma soprattutto ci raccontavate che la vita era una bella cosa e la droga uno schifo. Io ho pensato a voi e ho pensato che volevo anche io essere bello come voi. Sono partito; sono venuto a vivere qui e ho trovato una donna che mi ama e io amo lei. Penso che la vita sia una cosa bella. Grazie Fabrizia”.

Fabrizia e Andrea si abbracciarono in un segno enorme di gratitudine reciproca. A guardarli emozionate c’erano l’amica di Fabrizia e la compagna di Andrea… occhi rossi di gioia per chi ce l’ha fatta e ha avuto coraggio. Il cuore della donna vibrava di emozione e la pelle d’oca non cessava di essere tale. Ricordava, Fabrizia, di aver fatto la volontaria per aiutare quei ragazzi ma molte volte aveva prestato il suo tempo per regalare un po’ d’affetto a chi era in difficoltà. Era felice, finalmente, aveva ricevuto il segnale che voleva che è diventato, da quel giorno un po’, il karma della sua vita: tu semina sempre amore raccoglierai prima o poi i suoi frutti.

Quel amore seminato con tanta semplicità e naturalezza, tanti anni fa, aveva dato quel segnale forte e quell’energia che Fabrizia avidamente aspettava.

Era un segnale fortissimo e per l’ennesima volta la dimostrazione che l’amore vince sempre su tutto e tutti. Fabrizia ora era pronta per percorrere la sua scelta e la vita le ha regalato una bellissima rinascita. La crisalide è una farfalla colorata che vola per il mondo e porta positività.

Alberta Bellusi

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“Buongiorno un caffè corretto grazie!”

“Quant’è?”

“Un euro Ioanina come sempre”.

E la Ioanina   tira fuori dalla sua borsa “magica” la carta di una caramella tutta piegata e mi paga.

Faccio un sorriso, come ogni giorno,  e ritiro “ quei soldi” del caffè. Eh sì!  E’ proprio così la Ionanina è piena di carte che per lei sono miliardi. Lei è un’esile vecchietta molto bizzarra “nel suo che”. Indossa abiti un pò lisi, porta sempre gli orecchini e si mette il rossetto un po’ sulle labbra e un pò sulla dentiera ma si capisce che era una donna di classe. Vive nella Casa di Riposo del paese ma scappa via, spesso, a bordo della sua storica bicicletta.  Tutte le mattine arriva al bar per il caffè e per raccontare le storie del suo passato. Sì, perché, il racconto del mattino per lei è, ormai, un bisogno a cui non può rinunciare.

Il bar del paese per la “signora” come ama definirsi, è un po’ come la sua casa, che non ha più, e i clienti: i suoi parenti. Lì si sente protetta e al sicuro. Quando  inizia a parlare di sé, anche i muri potrebbero continuare quel racconto. I clienti del bar  l’hanno sentito milioni di volte, ma nessuno interrompe Ioanina.

Lei conosce tutti quelli che frequentano il bar, tutti la salutano con un sorriso, e le prestano “un orecchio” per qualche minuto. Ognuno fa un piccolo turno di ascolto e lei è felice, si sente importante. Un tempo, la signora Ioanina era una nobildonna di famiglia ricca; almeno così lei racconta.

Poi apre la sua borsetta da cui non si separa mai. E’ una borsetta  magica perché è piena di miliardi.  Inizia a tirar fuori tutto quello che contiene e a contare le sue piccole e grandi carte: no scusate, non carte ma soldi, lei vede. Cento, duecento, trecento insomma nella sua borsa sono contenuti milioni di lire. Lire, per lei sono rimaste le  lire. Non è facile spiegare a una bizzarra anziana di 93 anni che le lire sono sparite perché si rischia di non uscirne fuori. In fondo che le sue carte siano soldi è stato accettato da tutti. E’ curioso che i cosiddetti  “normali” abbiano accreditato la sua follia. Gli esercenti del paese accettano, a pagamento dei piccoli acquisti della Ionania, quegli insoliti  “soldi”. Lei non ha grandi esigenze: caffè corretto, qualche bicchierino di vov o punch, qualche giornale. Lei è convinta di essere molto ricca e che, come nobildonna, deve essere trattata con riguardo.

Quando siamo soli io e lei, allora, si mette a piangere e mi dice quanto fosse bello quel  militare che le aveva  rubato il cuore. Parla di questo amore come se fosse ancora vivo. Quando racconta i piccoli occhi verdi,  secchi dall’età, d’improvviso si inumidiscono e si emozionano. Suo padre era severo e geloso della figlia  e non voleva assolutamente che la “sua principessa” finisse tra le braccia di quell’umile fante di campagna. Era bello, moro…insomma un fusto, il suo militare.

Si è fatto mezzogiorno in Casa di Riposo si mangia a quest’ora.

“Ioanina ti conviene andare sennò salti il pranzo”.

Attratta dal richiamo del cibo lei sale in sella alla sua bicicletta e intanto  si asciuga l’ultima lacrima. Una lacrima  che evoca la sofferenza di una vita per quell’amore negato sul quale lei ha immaginato racconti romanzati,  ha riposto sogni e aspettative e si è sentita, un giorno,  donna desiderata.

Accenna la prima pedalata mentre il suo volto torna malinconico alla triste realtà.

“Ciao Ioanina a domani”.

La giornata continua ognuno va per la sua strada, ma il bar del paese rimane sempre un punto fermo.

Il bar della Piazza del paese è un po’ il punto di ritrovo delle persone più fragili della comunità e anche di quelle più  sole. Si trovano bene in questo posto perché si sentono protette. In fondo la comunità si prende cura di loro perché proprio per quella bizzarra follia che li distingue sono persone che lasciano il segno e verso cui provi simpatia e tenerezza.

Accade così che “i normali” si trovino quotidianamente a essere catapultati dentro le stranezze “dei diversi” e  le assecondino come in un patto segreto. Una realtà  nuova che fa entrare “i normali”  per qualche momento nel  mondo “dei diversi”. Quasi una surreale commedia umana della vita dove cadono  maschere, muri e ipocrisie.

Nel pomeriggio è solito passare per il paese un personaggio strano che sembra uscito da un tempo remoto… l’è el vecio dee scoaze che passa con il suo carretto di legno trascinato da Furia un vecchio e stanco equino nero. Urla al suo passaggio: “ Carta, straze e fero vecio”.   Al vecchio potrebbero attribuirgli il premio per essere uno dei primi in assoluto ad aver capito l’importanza della raccolta differenziata. Nel suo carretto, da anni e anni, raccoglie rifiuti di qualsiasi tipo e li differenzia…carta, plastica, vetro e qualsiasi altra cosa di cui ci si voglia liberare. Addirittura quando il cavallo esercita i suoi bisogni fisiologici, il vecchio si ferma, e li raccoglie per usarli come fertilizzante per il suo orto.  Tutti sanno quando passa e se  hanno qualcosa lo mettono fuori del cancello e lui  carica e differenzia. A el vecio dee scoaze non interessa molto parlare di lui; ha sguardo serio e concentrato sulla sua raccolta. Porta, in tutte le stagioni, un capello di panno in testa e non accenna mai un sorriso. L’unica creatura alla quale si rivolge con un po’ più d’amore è il suo vecchio e fidato cavallo Furia; è un’intesa di quelle che dura da una vita, costruita giorno dopo giorno. Periodicamente il vecchio passa davanti al bar. Arresta il suo cavallo e aspetta il bicchiere di acqua e menta che le offro nelle giornate afose d’estate. Anche lui, con le sue scandite abitudini, è parte della comunità e anche lui è stato regalato quell’abbraccio che alla fine riscalda e protegge. Un calore umano tipico dei piccoli paesi. Paesi che hanno una strana personalità; abitanti critici e pettegoli sulle cose altrui; spietatamente maldicenti, curiosi e bramosi di riportare la notizia del momento con creativa ricchezza di particolari, anche molto coloriti e ingigantiti, ma dall’altro canto sanno diventare profondamente umani e protettivi con le persone fragili, indifese e bisognose di sostegno.

Mi giro e butto lo sguardo fuori dalla grande vetrata del bar. Vedo catapultarsi, in un gesto simil-eroico, dentro un auto, con il finestrino aperto, il mio caro amico Gino Bicicletta. Lui si sente uno dei protagonisti del telefilm Hazzard, ma non si sa bene quale. Queste incursioni eroiche ogni tanto hanno buon esito e contribuiscono ad aumentano il suo ego da eroe.  Fa tutto questo perché poi entra al bar e racconta la sua epica avventura come fosse la vittoria alle Termopili. Accade  spesso  che queste incursioni non riescano e il bar diventa, allora, il luogo delle medicazioni.  Ma il lietmotive della vita di Gino sono sempre le biciclette. Lui le ruba da tutta una vita e poi le nasconde dentro a  casa sua.  E’ un tipo molto solare e leggero il Gino. Veste camicia attillata a quadretti e braghe jeans a zampa di elefante. Pettina i capelli come John Travolta ed è costretto a mettersi il gel perché la sua brillantina Linetti non la trova più in commercio. Per lui gli anni migliori sono stati gli anni ’60.

Quando cammina dondola un po’ e ti saluta con “UAU”.

Ma tornando alle biciclette, Gino le porta a casa sua che ne è invasa in ogni stanza. Quando la casa è proprio satura le parcheggia nel campo di mais del vicino che usa come deposito. Il problema vero si presenta nel momento della trebbiatura perché la trebbia spesso è bloccata dalla presenza delle biciclette.

La cosa più simpatica, anzi surreale, di Gino bicicletta è che, poi, lui ti rivende la bicicletta che ti ha rubato magari avendole cambiato il colore. Se trovi la tua bicicletta in mezzo a quel campo recupero devi iniziare la trattativa se vuoi riaverla. Gino ha l’occhio furbo, dell’affarista e se vede che ti interessa davvero, alza il prezzo, in un guizzo quasi da Wall Street, ma alla fine con 30/40 euro te la cavi e se ti trova al bar ti paga anche da bere per suggellare l’affare.

Mentre fuori accade tutto ciò, io sono dietro il bancone del bar e dall’altra parte arrivano Bepy e Piero. Ascolto i loro discorsi in disparte e sorrido da solo. Penso quanto sono belli questi personaggi spogliati di ogni filtro ipocrita e liberi di essere ciò che veramente sono. Sono felici di essere liberi  e di essere “folli”. Sono quei personaggi che la società moderna convenzionalmente definisce con una parola inglese “border line” cioè persone ai bordi. Io invece le definirei persone che lasciano il segno.  Quanto sterile e insignificante sarebbe il mio bar senza la loro quotidiana e ingombrante, ma vivace e simpatica presenza.

Bepy tutto emozionato racconta che l’altra sera nel campo davanti a casa sua è atterrata una grandissima astronave aliena.  Siccome lui possiede molte abilità da meccanico, il pilota dell’astronave gli ha suonato il campanello e gli ha chiesto se poteva sostituire loro un bullone. Bepy si è infilato il “tony” per non sporcarsi e ha sostituito il pezzo che faceva 20 metri di circonferenza. Piero lo ascolta, ma non gli da grandi soddisfazioni, gli sembra un’impresa normale; niente di che. Lui racconta di aver girato più volte il globo terracqueo a bordo di navi mercantili.  Piero dice a Bepy “ a mi el me par grando sto bueon par una astronave, ma no dise niet pol esser si”.  E poi chiede ancora: “ ma ei restadi contenti del lavoro?”

E’ stato un duro lavoro, racconta Bepy, però  gli alieni gli hanno dato grandi soddisfazioni e gli hanno anche fatto fare un giro di prova per verificare la solidità del pezzo cambiato.

Piero, che gli secca essere messo in secondo piano, incalza raccontando di quella volta in cui tutta la ciurma della nave era sbronza e lui ha dovuto prendere la guida del timone per far attraccare la nave al porto. La velocità di avvicinamento era troppo elevata e la nave si è fermata dentro la banchina facendo molti danni, ma lui racconta di aver portato tutti a terra sani e salvi come un grande eroe degno di onorificenze pubbliche. Bepy vorrebbe continuare a dire la sua sugli alieni, anche perché gli sembra una cosa degna di grandi attenzioni, ma Piero non lo bada e continua.  Era andato a cena con Kennedy al Collegio di Treviso ma non ricordava bene in occasione di cosa. Non fa neanche a tempo di finire questo racconto che gli viene subito alla  mente quella notte nell’Hotel di Londra dove Freddy Mercury, saputo che c’era il mitico Piero da Maren, andò in camera e gli dedicò Bohemian Raphsody.

Piero parla nove lingue, ma ora dice di non ricordare i vocaboli. Un crescendo di esperienze che gli alieni di Bepy sembrano nulla al confronto.

Mentre Bepy e Piero si confrontano su temi internazionali: alieni, Kennedy, Freddy Mercury ecc. irrompe quasi dentro il bar Tonet con il quad. Sentendo gli argomenti del dialogo dice ai due amici:” voi due siete fuori con le carte”.

“Io la settimana scorsa sono stato rapito da un’aliena che voleva un figlio da me per poter migliorare la qualità della loro razza”.
E Bepy: “ereo per caso martedì?”

E Tonet: “sì proprio”.

Bepy: “Allora era la stessa astronave che ghe ho cambià el bueon mi”.

Tonet: “credo de sì”.

In un angolo c’è Bobo che si rolla una sigaretta alternando tabacchi che a tutti quelli che entrano dice “Ehi fratello rasta” ponendo le dita in segno di vittoria.

Faccio loro tre spriz con l’aperol e mentre li preparo penso alla bellezza della vita  e a quanto queste persone, bollate come diverse da una società che ha bisogno di nascondersi dietro le false certezze della normalità, riescano in realtà ad alleggerire le mie giornate. Sono persone che vanno oltre i limiti che la società impone e ignorano le zavorre che ognuno di noi si mette addosso.

Forse per essere spensierati, in questa società pesante, bisogna essere un po’ diversi. Forse per essere liberi bisogna essere un po’ “folli”.

Alberta Bellussi

 

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Nel cuore nell’anima

«Questo libro è un dono, è un esempio vivo di gratuità (diciamolo fra parentesi: la poesia non è forse sempre gratis?) con il suo carico di bellezza espressiva, di amore vissuto o so­gnato, di passione per la vita co­munque e dovunque vissuta ma soprattutto esaltata nel suo quotidiano battere dentro di noi. Se è vero, come è stato detto un giorno, che la parola è si­mile a «una radice che si evolve in foglia e fiore», allora questa raccolta di Alberta Bellussi è simile a un giardino di fiori che si sono originati da una sola parola: cuore» (dalla Prefazione di Ivo Prandini, “Dal cuore all’anima”).

In copertina: foto di Marzia Carlin (2017).

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