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Il Veneto è una terra ricca di fate e streghe, orchi e salbanèlli, anguàne e mazzariòi, e poi leggende che pullulano di santi e di mostri, e di storie di fantasmi e di luoghi misteriosi da scoprire; vicende amorose belle e drammatiche tanto da aver ispirato anche William Shakespeare, storie fantastiche dolci o tragiche frutto di oltre due millenni di trasmissione orale che diventano poi tradizione popolare. Tutto ciò ha come sfondo i vari paesaggi del Veneto, dalle Dolomiti ai fondali della laguna, dai sontuosi castelli alle ville meravigliose, dalle calli di Venezia ai boschi.

Ecco l’elenco di alcuni luoghi dove ci sono queste presenze misteriose che non trovano mai pace.

In provincia di Treviso:

Il Santuario di Santa Augusta a Vittorio Veneto: la leggenda di Santa Augusta è legata alla tragica storia di una giovane martire uccisa dal padre, re Matrucco, per essersi convertita al cristianesimo. Dopo terribili torture, tra cui l’essere bruciata viva e rotolata giù da una collina, fu infine decapitata. Il santuario fu costruito nel luogo in cui furono ritrovate le sue ossa. Secondo la tradizione, chi introduce la testa in un foro dietro l’altare può guarire dall’emicrania, e passando tra due colonne si può curare il mal di schiena.

Il Castello di Collalto: Il fantasma di Bianca, murata viva per amore, si dice infesti il castello. Il suo pianto si ode nelle notti di luna piena, quando la sua figura appare sui bastioni. La leggenda dice che il suo spirito è condannato a vagare per sempre, incapace di trovare pace. Il castello risale all’XI secolo e divenne un’importante roccaforte della famiglia Collalto, che esercitò grande influenza sulla regione durante il Medioevo.

Nella Chiesa di Santa Caterina a Treviso, si dice che lo spirito di una giovane monaca, morta misteriosamente, appaia durante la notte. La leggenda narra che la monaca fosse innamorata di un uomo, motivo per cui venne punita severamente. Alcuni affermano di averla vista inginocchiata davanti all’altare, pregando in silenzio con lacrime di dolore.

In Provincia di Venezia:

A Palazzo Contarini del Zaffo si racconta che una nobildonna tradita dal marito vaghi per le sale del palazzo durante le notti di tempesta. La sua figura appare tra le finestre e i vetri, e il suo lamento si unisce al rumore della pioggia. Costruito nel XV secolo, il palazzo fu un importante centro politico e culturale durante la Serenissima e ospitò numerosi nobili veneziani.

La “Malcontenta”, come è conosciuta Villa Foscari, prende il suo nome da una nobildonna che, secondo la leggenda, venne segregata nella villa per i suoi comportamenti scandalosi. Si dice che il suo spirito infelice vaghi ancora per le stanze, portando con sé un’aura di malinconia. Molti visitatori sostengono di sentire la sua presenza, avvertendo improvvisi cambiamenti di temperatura e rumori inspiegabili.

L’Isola di Poveglia nella laguna veneta, utilizzata come lazzaretto dal XIV secolo, divenne poi una struttura per malati mentali. È stata abbandonata negli anni ’60 ed è considerata uno dei luoghi più infestati del mondo. I fantasmi dei malati di peste e dei pazienti del manicomio sembrano infestare l’isola. Molti credono che l’isola sia una porta per l’aldilà, dove le anime tormentate non trovano pace.

In provincia di Padova:

Il Castello di Monselice è conosciuto per le sue antiche prigioni, dove si narra che prigionieri torturati non abbiano mai lasciato il castello. Di notte, si sentono passi e lamenti che riecheggiano tra le antiche mura. Molti visitatori raccontano di aver visto figure spettrali vagare nei corridoi, aumentando il fascino sinistro del castello.

Il Castello di Valbona con la sua pianta rettangolare, le torri esagonali e le mura merlate, è uno dei fortilizi meglio conservati del territorio euganeo. Risalente al Duecento, fu più volte distrutto e ricostruito, divenendo un baluardo difensivo sotto i Carraresi. Secondo la leggenda, il fantasma della figlia di Germano Ghibelli, signore del castello, vaga tra i merli in lacrime, dopo la sua tragica morte per amore non corrisposto. Oltre alla sua funzione militare, il castello fu per secoli un centro di commercio e amministrazione per la regione circostante.

La Basilica di Sant’Antonio è famosa per una curiosa leggenda: si dice che il diavolo abbia lasciato l’impronta di uno zoccolo su un mattone. Tuttavia, l’impronta somiglia più a una ciabatta. In realtà, si narra che furono i ciabattini padovani, che contribuirono a completare i lavori della basilica, a lasciare questo segno come simbolo del loro aiuto.

Il Castello di Torlonga anche conosciuto come la Torre Ezzelina, è legato alla storia di Ezzelino III da Romano, un crudele signore che terrorizzò la regione. Il suo spirito inquieto, così come quelli dei suoi prigionieri torturati, si dice infestino la torre. Costruito come torre di avvistamento, il castello fu parte di un complesso sistema difensivo durante il Medioevo.

In provincia di Verona:

 A Villa del Bene sembra che un vecchio proprietario della villa, Benedetto del Bene, non sembra voler lasciare la sua dimora. Oggetti che si spostano da soli e apparizioni fugaci raccontano la presenza di un’anima irrequieta. Gli abitanti del luogo evitano la villa di notte, convinti della sua natura infestata. Si dice che il fantasma appaia nelle stanze della villa, disturbando la quiete notturna.

A  Villa Fraccaroli si narra la tragica storia di una giovane serva assassinata che  ha legato il suo spirito alla villa. Si manifestano suoni inspiegabili e apparizioni misteriose, rendendo Villa Fraccaroli una meta da brividi. La villa, costruita nel XIX secolo, rappresenta uno dei migliori esempi di architettura nobiliare della campagna veronese e fu residenza di importanti famiglie dell’epoca.

Infine in provincia di Vicenza:

Al Fontanasso Dea Coa Longa: in una foresta oscura presso Fontanasso, si narra che il fantasma di una donna, conosciuta come la “Dea Coa Longa”, appaia con una lunga coda di serpente. La leggenda racconta che la dea protegga la zona e punisca coloro che si avventurano troppo in profondità. Questo luogo, un tempo parte di un antico bosco sacro, è ricco di storia e leggende legate a culti precristiani che hanno influenzato le tradizioni locali.

Alberta Bellussi

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Da una leggenda deriva pure il nome di Lavaredo delle tre cime dolomitiche che da Longères svettano splendenti nel cielo e che soltanto da Auronzo si possono ammirare in tutta la loro maestosità e in tutta la loro magnificenza. E la leggenda dice così.
Un gigante, di nome Lavaredo, che abitava su quegli altissimi monti, si era perdutamente innamorato di una bellissiffia fanciulla. Era costei la principessa Val d’Ansiei, che, con la sua voce armoniosa e squiilante, cantava le canzoni della montagna deliziando la valle percorsa dal fiume Ansiei.
Ma la vezzosa principessa non poteva corrispondere l’amore di Lavaredo perchè amava un altro gigante e da questo amore nacque un figlio, al quale venne dato il nome di Auronzo.
L’amore del gigante fu di breve durata; il crudele infatti abbandonò ben presto la bella principessa.
Il loro figlio, Auronzo, scese nella valle e fissò la sua abitazione nel punto dove sorse il paese che da lui prese il nome.
Però il gigante Lavaredo continuava ad amare la principessa Val d’Ansiei e, in virtù di questo suo immenso amore, decise di offrire al figlio della donna amata un gruppo di crode il più bello che fosse esistito.
E il buon gigante si mise all’opera, spaccando crode e ghiaioni con un enorme marlello e scolpendoli poi con uno scalpello smisurato. Dopo un lungo e faticoso lavoro, potè infine incidere e modellare nella roccia tre altissime cime, la cui simmetria riuscì tanto armonica e meravigliosa da rendere questo gruppo di crode unico al mondo. Si accinse quindi al lavoro di cesellatura delle tre cime, intagliate con tanta cura e tenacia, ma il generoso gigante non potè terminare che la più piccola, perchè gli mancarono le forze, e ormai sfinito dalla dura fatica cadde affranto per non rialzarsi più. E sul suo corpo inerte rotolarono i sassi da lui stesso scavati, fino a ricoprirlo. Il suo braccio destro, con la mano che aveva compiuto l’opera ardita e stupenda, dette la forma ad un’ampia forcella, alla forcella di Lavaredo. Fu così che di queste tre cime meravigliose, una, la Piccola, venne finita, mentre le altre due, la Grande e la Ovest, non poterono essere che abbozzate.
In seguito esse portarono il nome del buon gigante che le aveva ideate, scolpite e modellate e precisamete le Tre cime di Lavaredo.
Ed Auronzo, il figlio della principessa Val d’Ansiei, al quale Lavaredo aveva dedicato la sua opera sublime, dal fondo della valle potè ammirare in eterno questo vero capolavoro di incomparabile magnificenza.
Alberta Bellussi

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Quando una persona affronta una prova difficile, un esame l’augurio più frequente che gli viene rivolto è “In bocca al lupo“. Un tempo si rispondeva: “Crepi” ora spesso si risponde: “Viva”. Pochi però sono a conoscenza che nell’augurio “in bocca al lupo“, i lupi non c’entrano nulla, c’entrano, invece, Venezia, la Serenissima, e le sue navi. “In bocca al lupo” come augurio no come avvertimento.  Perché “in bocca al lupo” è indubitabilmente un augurio. E non è, ovviamente, l’augurio di venir mangiato dai lupi. È un augurio marinaresco: non c’entra con i lupi, non c’entra con la montagna e le foreste, ma con il mare, e in particolare: l’Adriatico. E con lo Stato che per secoli e secoli ha dominato questo mare, imponendo ai traffici commerciali norme, burocrazie e regole ferree: la Serenissima Repubblica. Venezia, lo sappiamo, ha dominato l’Adriatico. E ha legittimato questo potere affermando che, essendo Venezia nata sul mare, il mare era il suo territorio. Il mare, tutto: da Venezia in giù, su entrambe le sponde, fino alle bocche di Otranto. L’Adriatico tutto si chiamava allora Golfo di Venezia, e con questo nome è riportato nelle carte. E tutti i traffici che vi si svolgevano dovevano rispettare le norme imposte dalla Serenissima. Dagli Asburgo ai Re d’Ungheria, dal Papa al Regno di Napoli, ci hanno provato in molti, per secoli, a contestare il diritto che Venezia si arrogava, di dettar legge sull’intero Adriatico. Il Papa minacciò perfino scomuniche e interdetti, ai quali il grandissimo Paolo Sarpi s’incaricò di rispondere, affermando le ragioni di Venezia. In ogni caso, finché la Serenissima fu la Serenissima e c’erano in giro le flotte militari di Venezia, ci fu ben poco da discutere: le leggi veneziane si applicavano e basta. Tra queste norme, quelle che venivano fatte rispettare con maggior severità erano quelle fiscali. Le merci trasportate via nave in Adriatico pagavano una tassa a Venezia, che in cambio garantiva la sicurezza dei traffici conducendo operazioni che oggi si chiamerebbero “di polizia internazionale” contro i pirati.

LA DICHIARAZIONE NELLA BOCCA DI LUPO: Il primo dovere del capitano di una nave, non appena arrivato in porto, era di consegnare un rapporto fiscale, nel quale dichiarava il carico trasportato, affinché si potesse stabilire il dazio da pagare. In ogni porto, vi era un ufficio al quale il capitano doveva consegnare queste carte. Un ufficio aperto sempre, giorno e notte: vi era infatti, sulla facciata, un apposito foro, nel quale il capitano doveva infilare la dichiarazione sul carico, prima di sbarcarne anche solo una piccola parte.  Questi fori sulle facciate sono detti “bocche di lupo“. E “bocca di lupo” si chiamano infatti, ancor oggi, i pertugi ricavati nelle facciate, le prese d’aria dei seminterrati, i fori d’aerazione ricavati a beneficio di cantine o magazzini al piano terra. Ed ecco spiegato l’augurio: quando una nave salpava, l’augurio “in bocca al lupo” era quindi l’augurio di arrivare regolarmente nel porto di destinazione con tutto il carico da dichiarare, avendo quindi evitato naufragi, tempeste e pirati e ogni altra insidia del mare.  “Che Dio te scolti” rispondeva il capitano. I lupi quindi non c’entrano. C’entrano Venezia, la Serenissima, le navi, i commerci adriatici. La nostra grande e bellissima storia.

In bocca al lupo!

Alberta Bellussi

 

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In questi giorni capita di veder volare leggeri e leggiadri degli uccellini piccoli con il petto rosso acceso: sono appunto i Pettirossi.

C’è una tenera leggenda che racconta perché il suo petto ha questo colore acceso che lo fa riconoscere a prima vista. Si racconta che un giorno, un piccolo uccellino marrone, si rifugiò nella stalla a Betlemme insieme alla Sacra Famiglia.
L’inverno era freddo e la neve ricopriva ogni cosa, la stalla era gelata e l’uccellino si accorse che il fuoco che li teneva al caldo stava per spegnersi.
Fu così che volò accanto alla brace e, muovendo ininterrottamente le ali per tutta la notte, riuscì a tenere acceso il piccolo focolare.
Al mattino seguente fu ricompensato da Gesù Bambino, che lo premiò con un petto rosso , proprio come quella brace che aveva tenuto accesa, e che divenne il simbolo del suo grande amore.
Da quella volta, il piccolo uccellino fu conosciuto da tutti col nome di Pettirosso, ed è lui che annuncia l’arrivo dell’inverno e delle festività Natalizie.
Alberta Bellussi
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I baicoli sono biscotti tipici della produzione dolciaria veneziana che più di ogni altro incarnano la tradizione veneta del “biscottare” ossia “bis-scottati”-  scottati due volte – pratica di cottura questa che permetteva agli alimenti  di essere portati  in nave durante i periodi lunghi in cui i marinai navigavano per instaurare rapporti commerciali in tutto il Mediterraneo. La scadenza era lunghissima e la loro inalterata fragranza si manteneva grazie alle scatole di latta in cui erano conservati che li rendevano adatti per i lunghi viaggi così come il pan biscotto alimento base della marineria della Serenissima. All’Arsenale sono ancora visitabili i forni della Marineria della Serenissima.

Secondo alcune fonti, i Baicoli vennero inventati nel XVIII secolo da un panettiere veneziano di Campo Santa Margherita, un luogo ricco di storia e tradizioni culinarie. Il nome di questi biscotti deriva proprio da questo legame con il mareBaìcolo era il termine dialettale utilizzato dai marinai per definire piccoli pesci quali il branzino e il cefalo, che hanno la stessa forma allungata e leggermente schiacciata di questi biscotti.

La ricetta originale dei Baicoli prevedeva l’utilizzo di ingredienti semplici e facilmente reperibili⁚ farina, burro, zucchero, lievito, albume d’uovo, latte e un pizzico di sale. La loro preparazione, seppur semplice, richiedeva una certa maestria e cura, per ottenere un biscotto croccante e dal sapore delicato. Nel corso dei secoli, la ricetta dei Baicoli si è tramandata di generazione in generazione, adattandosi ai gusti e alle tradizioni locali.

Nel 1911 fu Angelo Colussi, che decise di produrre, nella sua fabbrica, questa ricetta traduzionale nella  tipica scatola di latta sulla quale è raffigurato un innamorato che dona i biscotti alla sua amata e tutt’ora è in produzione.  Su queste scatole, spesso a fondo giallo come vuole la tradizione veneziana, si possono leggere questi versi

No gh’è a sto mondo, no, più bel biscotto, più fin, più dolce, più lisiero e san per mogiar nela cìcara o nel goto del Baicolo nostro Veneziàn”

Oggi, i Baicoli sono un simbolo della pasticceria veneziana e un prodotto di eccellenza, apprezzato in tutto il mondo.

RICETTA:

Ingredienti per 6 persone

* 1 dl latte

* 400 gr farina

* 50 gr zucchero semolato

* 80 gr burro

* 1 uovo (albume)

* 15 gr lievito di birra

Preparazione:

  1. Riscaldare il latte (tiepido) e sciogliere il lievito di birra.
  2. Su una spianatoia disporre 100gr farina a fontana e versare al centro la miscela di latte e lievito.
  3. Impastare il tutto fino ad ottenere un panetto sodo dove incidere una croce.
  4. Lasciare lievitare per 30 minuti.
  5. Mescolare 300 gr di farina con un pizzico di sale e 50 gr di zucchero.
  6. Porre al centro il panetto di pasta lievitata, disponetelo a cono e al centro lavorare 80g di burro ammorbidito e mescolare con l’albume montato a neve.
  7. Impastare aggiungendo latte q.b.
  8. Dividere poi l’impasto in quattro e lasciare lievitare ancora i panetti per 2 ore circa
  9. Infornare a 180° per circa 10 minuti.
  10. Fare raffreddare e lasciare riposare per due giorni, coperti.
  11. Tagliare i panetti a fettine sottili sottili.
  12. Disporle su una teglia e infornare di nuovo a 170° per 10 minuti circa fino a farle dorare. Alberta Bellussi

 

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CastelBrando ha acceso l’albero di Natale vivente più alto d’Italia. Con i suoi 33 metri si classifica anche tra i primi 10 più alti d’Europa!
É un Cedro dell’Atlante (Cedrus atlantica), proveniente dall’omonima catena montuosa del Nord Africa, con un’età stimata di oltre 200 anni.
L’albero di Natale, decorato con più di 600 lampadine ha sulla cima una grande stella che illumina la vallata sottostante.
L’enorme Cedro ultracentenario, di quasi 3 metri di circonferenza e cresciuto fra gli spalti protetto dalle mura di CastelBrando, è catalogato come albero monumentale ed è protetto dalla soprintendenza come bene storico nazionale.
Alberta Bellussi
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Il “pan de oro”

La storia del pandoro risale a diversi secoli fa ed è spesso avvolta da leggende e tradizioni popolari. Le origini del pandoro sono, senza dubbio, legate alla città di Verona e il dolce, nel tempo, si è legato al Natale.

Sembra che il pandoro nasca nel Medioevo, durante il periodo della Repubblica di Venezia, e che il dolce fosse già preparato in modo simile a come lo conosciamo oggi. La forma a stella del pandoro si ispira, infatti, alla Torre dei Lamberti di Verona, e proprio questo è uno degli elementi che rafforzano il legame con questa città.

Ma da dove deriva il termine pandoro?

Da “pan de oro“, che fa riferimento all’originaria pratica di decorare il dolce con foglie d’oro commestibile; pratica, questa, che risale al Rinascimento e sottolinea il prestigio e la raffinatezza del dolce, che veniva spesso preparato per occasioni speciali. Durante i secoli, la ricetta del pandoro è stata raffinata e adattata, ma il suo status di dolce natalizio è rimasto intatto.  Ma il vero pandoro fu inventato, nel 1884, da Domenico Melegatti che depositò il brevetto per la sua ricetta del pandoro presso la Camera di Commercio di Verona, stabilendo così la sua rivendicazione come creatore di questo famoso dolce natalizio. Insieme alla ricetta, registrò anche lo stampo, appositamente disegnato da un artista cittadino, e usa, per la prima volta, il nome pandoro. Era la rielaborazione raffinata di un dolce natalizio della tradizione veneta chiamato “el nadalin”. Molti anni dopo  il pandoro entra nei dizionari: lo registra Alfredo Panzini nella quinta edizione del suo Dizionario moderno (1927): «“Pandòro”: dolce di lievito, ricchissimo di burro (Verona). Dal colore aurato dovuto al rosso d’uovo».

La ricetta è un po’ impegnativa prevede 2 ore circa di preparazione e 23 di lievitazione.

Ingredienti per 1 pandoro

  • 480 g farina setacciata più un po’
  • 170 g burro morbido a pezzetti più un po’
  • 125 g zucchero semolato fine
  • 60 g latte tiepido più 3 cucchiai
  • 20 g lievito di birra fresco
  • 3 uova – 1 tuorlo
  • 1 baccello di vaniglia
  • 1 cucchiaino scarso di sale
  • zucchero a velo

Procedimento

  1. Sciogliete 15 g di lievito nel latte tiepido. Aggiungete 25 g di zucchero semolato, il tuorlo e mescolate. Aggiungete 50 g di farina e amalgamate con cura. Coprite con pellicola e lasciate riposare per 1 ora o finché il composto non raddoppia di volume.
  2. Sciogliete il lievito rimasto in altri 3 cucchiai di latte tiepido e aggiungetelo al composto lievitato; unite lo zucchero rimasto e 1 uovo intero, quindi 200 g di farina e 30 g di burro a pezzetti, lavorando finché la consistenza non sarà omogenea; lasciate riposare per un’altra ora o finché non raddoppia di volume.
  3. Aggiungete quindi la farina rimasta, 2 uova, i semi della vaniglia e il sale; mescolate bene. Imburrate una ciotola, deponetevi la pasta, coprite e lasciate riposare al tiepido per 1 ora (il volume dovrà raddoppiare); poi mettetela in frigo per 12-15 ore.
  4. Lavorate infine la pasta su un piano infarinato e stendetela con un matterello, in un quadrato. Disponete sulla zona centrale del quadrato 140 g di burro a cubetti, poi ripiegate i quattro angoli verso il centro, chiudendo bene in modo che il burro non fuoriesca. Piegate il quadrato a metà, giratelo con il lato corto verso di voi e stendetelo nuovamente; piegatelo in tre e fatelo riposare in frigo per 20 minuti.
  5. Stendete l’impasto e ripiegatelo su se stesso per altre 3 volte lasciandolo riposare in frigo ogni volta per 15 minuti.
  6. Stendete di nuovo l’impasto dandogli una forma quadrata e ripiegate gli angoli verso l’interno, come la prima volta. Capovolgetelo e dategli una forma tondeggiante.
  7. Imburrate bene uno stampo da pandoro (750 ml) e adagiatevi l’impasto, tenendo la parte con la pasta rimboccata verso il fondo. Sciogliete 20 g di burro, spennellate la pasta e lasciate riposare, coperto con la pellicola, per circa 4 ore in un luogo tiepido, finché la pasta non avrà colmato lo stampo.
  8. Cuocete il pandoro nel forno ventilato preriscaldato a 160 °C per 15 minuti; riducete quindi a 130 °C (sempre ventilato), coprite la superficie con un foglio di alluminio e cuocete per altri 40-45 minuti. Fate la prova dello stecchino: se esce asciutto, il pandoro è pronto. Fatelo raffreddare, sformatelo e completatelo con lo zucchero a velo.
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Venezia è città d’arte per antonomasia, la capitale del romanticismo, meta da sogno sospesa nel tempo tra la terra e l’acqua eppure potrebbe essere descritta attraverso i numeti. Infatti, Venezia, che prima di tutto è un topos geografico reale, “ha molti numeri” importanti i quali, oltre che per individuarla e descriverla, risultano preziosi per comprenderne più a fondo la natura. Ecco così che, anche attraverso una semplice enumerazione di dati, inesorabile emerge l’immagine di una città ancora una volta differente dalle altre, da un lato sempre sorprendente e magica, dall’altro pur con la sua fragilità e complessità

Venezia è  composta da 6 sestieri: San Marco con 5.562 numeri civici; Dorso Duro con 3004 numeri civici; Cannaregio con 6.423 numeri civici; Santa Croce con 2.344 numeri civici; San Polo con 3.144 numeri civici;  Castello con 6.827 numeri civici.

Un’unica piazza che è la meraviglia di Piazza San Marco e un unico palazzo, Palazzo Ducale.

118 sono le isole che la compongono

420 sono i ponti che attraversano i canali

4 sono i ponti sul Canal Grande: Il Ponte della Costituzione più noto come Calatrava, dal suo progettista, il Ponte degli Scalzi o della stazione, il Ponte di Rialto e il Ponte dell’Accademia. I piccoli ponti sono 300 in pietra 59 in ferro 49 in legno più il Ponte dei tre ponti.

Un solo ponte di accesso alla città il ponte della Libertà un tempo noto come Ponte di Littorio, costruito nel periodo fascista affiancato anni dopo dal ponte della Ferrovia.

177 sono i rii che si intersecano

3 soli canali : Il Canal Grande, il Canale della Giudecca e Il Canale di Cannaregio.

135 sono i campi

196 i campielli

380 le corti

7 i campazzi

1198 calli

367 rami

52 rio terrà

42 salizade

10 rughe

1 strada ( Nova)

2 vie

142 fontane

256 pozzi pubblici

circa 2.500 pozzi privati.

La sua superfice è di 415,9 chilometri quadrati e conta 250191 al 31 maggio 2024.

Le Chiese sono 98 quelle di culto, 26 quelle sconsacrate 2 di altri culti, gli armeni e i greco-ortodossi e ben 40 quelle che sono state demolite. 117 sono i campanili.

Sono questi numeri importanti da ricordare in quanto Venezia non è solo San Marco e Rialto ma l’insieme di tante calli, campi, campielli, rii, ponti che sono i testimoni tangibili  di una storia che millenaria che rimane nel cuore non solo dei veneziani ma di tutti quelli che la visitano e la amano.

Alberta Bellussi

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In Comelico e in Cadore esiste un’istituzione molto antica che si chiama “Regola”.

Le “Regole di comunione familiare” del Comelico sono la testimonianza del forte legame tra la comunità locale e il proprio territorio che si tramanda da oltre un millennio. Gestisce il patrimonio collettivo costituito da boschi, pascoli, praterie, malghe, che è inalienabile, indivisibile, inusucapibile. Ha preistoria e storia. Creata per motivi di sopravvivenza, solidarietà e difesa in zona montana.Le famiglie regoliere tramandano di padre in figlio le proprietà collettive di boschi e pascoli, insieme ai diritti di appartenenza alla Regola di Comunione Familiare, con lo scopo di preservare e migliorare la propria terra. I beni che derivano dalle attività legate al bosco e al pascolo rappresentano da sempre la principale fonte di sostentamento della comunità e sono amministrati con direttive approvate democraticamente dall’assemblea dei regolieri e contenute in antichi codici rurali detti “Laudi Statuti”. Ancora oggi, infatti, sono il punto di forza dell’offerta turistica delle Dolomiti Comelicesi, caratterizzata da contenuti ambientali e paesaggistici davvero unici. Le Regole di comunione familiare hanno saputo nel tempo adeguare la propria funzione e in questi anni hanno promosso numerose azioni di valorizzazione dell’ambiente indirizzate alla fruizione sostenibile del territorio. Le Regole di comunione familiare, che garantiscono una gestione armonica dei beni spontanei del territorio nel rispetto di tradizioni centenarie un tempo enti di diritto pubblico perché concorrevano direttamente al bilancio comunale, oggi sono diventate di diritto di privato e definite “Comunioni Familiari” a partire dalla legge 102/1971, che conferisce loro il titolo di azienda di diritto privato. È evidente che la considerazione del ruolo femminile ha sempre avuto scarsa attenzione: infatti, c’è sempre stata una tendenza all’esclusione delle donne anche, ma non solo, dall’attività regoliera. Non si deve dimenticare che questo antico diritto, pur nascendo dalle comunioni familiari, è sempre stato rappresentato dalla figura preminente dei maschi anziani, lasciando alle donne compiti di supplenza o di subentro temporaneo solo per le vedove con figli maschi minori. Tutto questo può non stupire, rientrando nella normale concezione storica della figura femminile. Pur però essendo cambiato il ruolo delle donne, gli statuti sono rimasti invariati. Tuttora le uniche donne considerate regoliere sono le vedove aventi figli di cui almeno uno maschio a carico e finché dura lo stato di vedovanza o finché un figlio maschio e convivente abbia raggiunto la maggiore età. Nel 2022 ci fu una svolta nelle elezioni tenutesi a Valle di San Pietro di Cadore la maggioranza ha votato per la prima volta una donna, Manuela Pradetto Bonvecchio, sarà chiamata a presiedere l’antichissimo istituto regoliero, che detiene la proprietà privata collettiva di un grande patrimonio ambientale. Il Comelico terra preziosa di conservazione e anche terra capace di imprevedibili scatti in avanti: finalmente un segnale netto di apertura alle donne che viene dall’assemblea dei regolieri.

Nell’area di Comelico sono ancora attive 16 Regole di comunione familiare cosi descritte:

Comune di Comelico Superiore: Regola di Padola – Regola di Dosoledo – Regola di Casamazzagno- Regola di Candide;

Comune di San Nicolo di Comelico: Regola di San Nicolo – Regola di Costa;

Comune di Danta di Cadore: Regola di Tutta Danta – Regola di Mezza Danta.

Comune di Santo Stefano di Cadore: Regola di Santo Stefano – Regola di Campolongo – Regola di Casada – Regola di Cotalissoio;

Comune di San Pietro di Cadore: Regola di San Pietro – Regola di Presenaio – Regola di Valle – Regola di Costalta.

Alberta

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Come mai si chiamano così?

A differenza di quello che si può credere dal loro nome, le tende alla veneziana non sono state inventate a Venezia ma, si tramanda, addirittura in Giappone. In realtà, andando ancora più indietro nel tempo si scopre che manufatti molto simili erano già presenti in Persia, Cina ed Egitto. Tuttavia, la loro funzione decorativa sulle finestre delle abitazioni potrebbe essere originaria del periodo settecentesco: questa è la datazione approssimativa che ne fanno gli esperti.

Ma per quale ragione, allora, si chiamano “tende alla veneziana”?

Un’antica leggenda ci svela che i primi commercianti veneziani portarono in Persia, durante i loro viaggi d’affari, questi antichi manufatti. In effetti, questo spiegherebbe perché le veneziane, in Francia, sono conosciute anche con il nome di “persienne”.

Il termine persiana deriverebbe dal latino “persa, -ae”, la cui traduzione è “originario della Persia”. Sembra dunque che la persiana sia arrivata in Europa per la prima volta nel XVIII secolo, a Venezia in particolare. Tanto che le persiane più famose sono proprio quelle veneziane. La storia della persiana ha origini antichissime, una dimostrazione data da diversi dipinti dell’epoca dei Persiani, dai quali deriva appunto il nome “persiana”. Ma i luoghi in cui veniva importata preferivano chiamarla diversamente: i mercanti veneziani la chiamavano appunto “veneziane”.

Una curiosità è che un altro nome che si usa tutt’ora, soprattutto legato alle persiane genovesi,  è “gelosia”, nome che si dice sia legato agli uomini persiani i quali, troppo gelosi delle proprie mogli, avevano appunto escogitato questo stratagemma per impedire loro di mostrarsi alla finestra.

Anche i materiali con cui venivano realizzate hanno avuto la loro ovvia evoluzione.

Dapprima venivano utilizzati il ferro e il legno, in seguito attorno al 1850 sono apparse le prime persiane realizzate in alluminio, fino ad arrivare ai giorni nostri e alla diffusione di altri materiali come il PVC e l’acciaio zincato.

Le persiane sono infissi caratterizzati da lamelle inclinate che lasciano passare la luce dell’esterno dentro le abitazioni. Le lamelle possono essere fisse oppure orientabili, ovvero modulabili a seconda della quantità di luce che si vuole diffondere all’interno dell’ambiente.

Però  colui che, per primo, ha brevettato questo sistema, nel 1769, è stato il fisico inglese Edward Bevan: il suo era un congegno di lame mobili di legno che potevano essere azionate per mezzo di una corda e una puleggia inserite in un telaio. Ed è curioso che sia stato proprio un inglese a brevettare questo sistema quando è risaputo che in molti Paesi nordici le persiane sono le assenti per eccellenza.

Come mai noi abbiamo le persiane e invece ad altre latitudini sono assenti? E’ un fatto comune vedere le persiane in alcuni Paesi, ma in altri non ce n’è traccia.

“Per quanto riguarda la differenza di utilizzo con i Paesi del nord Europa (non solo quelli più a nord, ma anche Paesi Bassi, Belgio, Germania) sembra ci siano due ragioni. Da un lato, è un problema funzionale, poiché più a nord tendono a intrappolare il poco sole che le raggiunge, mentre più a sud dobbiamo evitarlo per non surriscaldare gli spazi in cui viviamo e lavoriamo. Dall’altro, le correnti protestanti – luteranesimo e calvinismo – che si sono insediate in quelle zone d’Europa hanno cambiato la concezione della privacy tra la gente. Lì, nascondersi dietro una tenda o una persiana potrebbe voler dire che si sta nascondendo qualcosa di peccaminoso”, afferma l’architetto José María Mateo.