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Una delle pietanze caratteristiche della cucina veneziana sono sicuramente le moéche; sono chiamate per la loro bontà e rarità “pepite di Venezia”, e ora se vai nel banco del pesce le trovi a 90/100 euro al chilo e sono ancor più una cosa preziosa.

Moéca è il nome che i veneziani hanno dato al granchio autoctono quando esso arriva al culmine della fase di muta. In due periodi dell’anno, primavera e autunno, il granchio si libera del carapace, la corazza che lo protegge, per costruire una corazza più grande. In quel lasso di tempo, i granchi possono essere gustati interamente, senza difficoltà, perchè sono teneri. Da questo deriverebbe anche il modo di dire “te si na moéca” che significa sei uno smidollato.

L’ambiente ideale per la crescita delle moeche è la laguna veneta che con i suoi fondi sabbiosi e le sue acque salate e salmastre, ben si presta alla proliferazione di questo morbido crostaceo, le zone comprese tra Burano, Giudecca e Chioggia sono poi specializzate nel loro allevamento.

Il termine moéca ha, però, un altro significato: esso si associa anche all’effigie del leone di San Marco alato che sorge dalle acque (el leon en moéca).

Nelle poche ore in cui il granchio muta il carapace, diventa una preziosa leccornia, una specialità della sola cucina veneziana e la sua storia è ancora per molti assai misteriosa, nonostante le moéche abbiano conosciuto un boom nei consumi a partire dall’ultimo dopoguerra. In verità questa tradizione inizia solo dopo la metà del secolo scorso perché prima, e per ben due secoli, la “produzione” di questo stranissimo granchio era un segreto professionale dei moécanti di Chioggia, scoperto grazie alla furbizia e alla costanza dei pescatori di Burano. Attualmente la produzione delle moéche avviene nella Laguna nord di Venezia dove negli ultimi decenni, per i mutamenti degli antichi bacini da pesca, sono cambiate anche le tecniche usate dai pescatori. I pescatori di moéche, chiamati “moécanti”, pescano armati di una particolare rete collocata nei fondali bassi della laguna, la “trezza”. Si lavora sempre con le serraglie, dette in passato seràie da seca, che non sono più fisse. Una volta catturate, le moéche vengono trasferite in sacchi di juta che hanno lo scopo di mantenere la giusta umidità durante il trasporto agli impianti di lavorazione. Nei casòni o casòti si compie la delicatissima fase di cernita che avviene in funzione dello stato biologico dei granchi e che si avvale della grandissima abilità dei moécanti. Questi li selezionano e immettono quelli prossimi alla muta, detti spiàntani (i moécanti conoscono ormai ogni segreto dei granchi), in grandi cassoni di legno, semisommersi, chiamati vièri, dove in breve tempo diventeranno moéche. Quanto detto vale per i maschi, perché per le femmine il ciclo evolutivo è diverso. Esse, infatti, mutano solo alla fine della primavera. La muta per le femmine coincide con l’accoppiamento dell’estate e in autunno, quando sono piene di uova, non muteranno più e, se catturate, saranno mangiate con il coràl (a vòva, le uova). E queste sono le masenéte. Questi esperti pescatori (se ne contano solo una cinquantina ogni tremila pescatori), sono talmente abili nel loro lavoro da riuscire a distinguere praticamente ad occhio una moéca da una mazaneta. Per quanto possa apparire semplice, le fasi di cernita si rivelano molto complesse ed è forse l’aspetto in cui si percepisce meglio la specificità di questo modo di pescare i granchi tipico della Laguna. Per tale motivo per le moéche è stato istituito un Presidio Slow Food, sostenuto dalla regione Veneto.

Alberta Bellussi

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Anche se sembra una parola curiosa quasi una parolaccia in realtà è un piatto di origine chioggiotta molto antico.  Prende il nome dalla pentola di terracotta sulla quale veniva cucinato che si chiama casso, da cassariola e veniva lasciata pipar su un angolo della cucina economica, oppure veniva preparato in barca dai pescatori: quando tiravano su le reti, tenevano da parte i granchi e altri crostacei o molluschi di scarsa qualità per prepararsi, in barca, una sorta di zuppetta calda.

Il cassopipa, per risultare buono, deve essere fatto minimo per sei o otto persone perché per prepararlo servono tutte le varietà possibili di molluschi: peoci, bevarasse, garuzoli, caparozoli, detti vongole veraci, e le bibarasse, capelonghe, telline e quant’altro si riesce a trovare al mercato, aggiungendo anche due o tre folpetti o due calamaretti nostrani.

Preparazione

Per prepararlo bisogna far saltare su una pentola con olio d’oliva e uno spicchio d’aglio le cappe separatamente (lavate e spurgate in acqua salata, se necessario) un tipo alla volta, oppure potete farlo più rustico lasciando le cappe;  mettere da parte il sugo di cottura formatosi, filtrandolo bene per togliere eventuali residui di sabbia, Preparare in una pentola, meglio se di terracotta per rispettare la tradizione, un abbondante soffritto con cipolla, sedano, carota e aggiungere tutti i tipi di cappe, i calamaretti e/o i folpetti, tagliati a pezzetti se troppo grandi, amalgamando il tutto.

Aggiungere quindi due bicchieri di vino bianco rimescolando energicamente, iniziare a questo punto ad aggiungere l’acqua di cottura delle cappe (recuperatene il più possibile) e spezie in quantità a piacere: cannella, noce moscata, alloro, abbondante pepe, timo e altri aromi che vi piacciono.

Abbassare al minimo la fiamma, o se avete una cucina a legna ancora meglio,  e lasciare cuocere, “pipare” appunto, con molta calma; aggiungendo mano a mano l’acqua delle cappe rimasta. Alla fine il sugo deve risultare denso.

Si può mangiare come zuppa o come condimento dei bigoi.

Alberta Bellussi

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I Bussolai sono i biscotti tipi dell’Isola di Burano. Il loro nome deriva dalla tipica forma a ciambella con al centro un buco che in dialetto veneziano si dice “buso”. La tradizione vuole il bussolà come dolce pasquale, accuratamente preparato nelle case e portato a cucinare dai fornai. Riposto poi nelle credenze. In passato, proprio per il loro aroma vanigliato venivano utilizzati anche per profumare i cassetti della biancheria. Secondo antiche leggende, questi biscotti venivano preparati in casa dalle mogli dei pescatori e dei marinai. Quando i mariti partivano per mare, ne portavano con sé in grandi quantità, perché erano molto nutrienti e si conservavano bene, indurendosi appena con il trascorrere del tempo. Questa usanza si diffuse talmente tanto che qualcuno iniziò a produrli per venderli. Fu così che da biscotti dei marinai, i Bussolai vennero presto consumati da tutti gli abitanti di Venezia specialmente in prossimità della Pasqua. Riscossero talmente tanto successo che conquistarono il palato proprio di tutti, anche quello delle Suore del Convento di San Maffio. Si racconta, infatti, che nel XVI secolo le ecclesiastiche ricevettero l’ordine di diminuire le spese per l’acquisto dei Bussolai dato che ne consumavano troppi. Difficile resistere alla tentazione, dato che il convento sorgeva nell’Isola di Mazzorbo, a pochi metri da Burano, il maggior centro di produzione di questi biscotti. Allo stesso impasto si può dare la forma di una esse; la famosa Esse buranea.  Questo dolcetto era comodo da “mogiar” (ammollare, nel senso di pucciare) nel vin santo o nello zibibbo.

Le versioni del bussolà sono tante gli ingredienti sono sempre gli stessi variano invece le quantità di burro o quelle dello zucchero oppure la quantità delle uova. Quelli che si vedono in commercio sono di un bel colore giallo e per questo si possono utilizzare uova a pasta gialla.

INGREDIENTI

  • 300 g di burro
    • 600 g di zucchero
    • 1 kg di farina
    • 12 tuorli d’uovo
    • 10 g di sale
    • 6-7 g di lievito
    • 1 bicchierino di mistrà
    • 1 bustina di vanillina.

PREPARAZIONE

Porre la farina sulla tavola: versare al centro lo zucchero, il burro fuso, il sale e il lievito sciolto in un po’ di acqua tiepida. Tagliare la pasta a pezzetti per formare dei piccoli cerchi vuoti al centro. Sistemare i Bussolai su una teglia coperta da carta forno e infornare a 180° per 15 minuti. Abbassare poi la temperatura del forno a 150° e cuocere per altri 10 minuti. Sfornare anche se sono un po’ soffici dato che s’induriscono raffreddandosi.

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“Radici e Fasioi” è un piatto rurale particolarmente diffuso lungo le sponde del fiume Piave, in Veneto. Questo piatto è sempre accompagnato da fette di polenta abbrustolita e sempre condito con una dadolata di lardo o pancetta saltati in padella…

L’uso del lardo o della pancetta come condimento, era quasi obbligatorio, poiché, a causa delle comuni ristrettezze economiche, non vi era alcuna possibilità di acquistare l’olio né di semi né d’oliva.

Le origini dei Radici e Fasioi si perdono nella notte dei tempi e diventa impossibile darne una datazione certa. Tuttavia, possiamo affermare, che questo piatto era consumato dalle famiglie umili, poiché i fagioli non facevano certamente parte della dieta delle famiglie più facoltose e benestanti. Era, per abitudine, una pietanza da consumare alla sera e per molti era un vero e proprio piatto unico. Si consumava in tutti i periodi dell’anno e spesso accompagnato da un buon bicchiere di Vino Rosso. E’ utile ricordare che i fagioli hanno un valore nutritivo particolarmente elevato, dal punto di vista proteico e quindi non mancavano mai nella dieta quotidiana anche perché sia agricoltori che gente comune non avevano la possibilità di comprare la carne! Negli ultimi tempi questo piatto popolare è stato rispolverato, creando anche una Confraternita che porta avanti la tradizione e ha depositato la ricetta originale a Roma. Viene preparato in alcune trattorie della zona del Piave, sia in provincia di Treviso che di Venezia spesso come antipasto caldo e servito in cocottine di terracotta con i fagioli ben caldi e il Radicchio a temperatura ambiente.

Ingredienti

300 grammi fagioli borlotti, Lamon o Cuneo;

1 costa di sedano, 1 cipolla piccola, 1 carota piccola, Sale e pepe

300 grammi di radicchio di campo;

olio extra vergine di oliva, 1 testa d’aglio, 1 rametto di rosmarino,

I fagioli vanno prima mondati con abbondante acqua tiepida e poi vanno messi a bagno in acqua fredda per una notte intera, prima della preparazione. La mattina seguente, si prepara un fondo d’aglio cipolla e rosmarino ben tritati. Si fa rosolare questo trito di verdure con un pò d’olio, si aggiungono i fagioli e si fanno insaporire. Si coprono d’acqua, si aggiungono foglie di sedano, e si fanno bollire per circa due ore mezza a fuoco moderato, avendo cura di aggiungere acqua ben tiepida per ultimarne la cottura. Un tempo si usava aggiungere della cotenna di maiale per dare sapore e risalto al piatto.

A cottura ultimata bisogna passare metà dei fagioli con un passaverdura o setaccio sino ad ottenere una purea morbida. Il composto di fagioli dovrà avere una parte di fagioli interi e una passata. Si aggiusta di sale e pepe e dado in polvere sempre alla fine.

A parte si prepara il radicchio, lavato per bene e sgocciolato in un colino. In seguito in un piatto da zuppa si unisce il radicchio mondato coperto dalla purea di fagioli ottenuta. Si condiscono con olio di semi o extravergine d’oliva, aceto, sale, pepe e per i piu’ golosi anche lardo a pezzetti saltato in padella. Meglio se i fagioli sono caldi e se ne avete la possibilità serviteli con fette di polenta grigliata. E’ Un modo di mangiare semplice, dai sapori dimenticati che forse stona con alcuni piatti altisonanti, ma ritengo che sia un modo per scoprire i sapori di un mondo che non c’è più.

Alberta Bellussi

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Il Marzapane è un dolce estremamente semplice con origini antichissime.

Marci panis ovvero “il pane di Marco”: sembrerebbe essere questa l’etimologia della parola, anche se molti ritengono che derivi dall’arabo maw-thabán, che era un’unità di capacità in uso a CIPRO e in ARMENIA quale sottomultiplo del moggio. Questa unità di misura cedette il suo nome al contenitore tarato sulla misura stessa;  era una scatoletta  di legno leggero dotata di un coperchio che venne utilizzata per diversi usi, per chiudere la corrispondenza o i documenti importanti (da questo il modo di dire “aprire i marzapani”) ma anche per spedire speciali dolci prodotti a Cipro. Dato che questi dolci prendevano forma dalla scatola ed erano simili a pani, il nome dell’involucro passò al contenuto. A quei tempi l’influenza araba e mediorientale era molto sentita, gli arabi introdussero anche le spezie nella cultura gastronomica Siciliana.

Il marzapane è sempre sembrato essere indissolubilmente legato alla Sicilia – dove raggiunge la sua massima espressione con la frutta martorana – ma in realtà è diffuso in  tanti altri Paesi. Nonostante sia complesso rintracciarne le origini precise, è chiaro che le sue radici affondano nella cultura araba, che l’ha poi introdotto in Europa intorno all’anno Mille, durante la dominazione islamica della Sicilia. Prima ancora però, dolcetti simili erano prodotti dagli antichi Etruschi in occasione dei rituali funebri e venivano offerti alle divinità ma la vera ricetta della pasta di mandorle è  veneziana.

Risale alla Serenissima, infatti, la prima ricetta codificata che ne rivendica la paternità anche per via del nome appunto, “pane di Marco” e risale al 1300: in quel periodo la repubblica marinara era fra le poche a reperire gli ingredienti più rari e pregiati come lo zucchero e le mandorle, alla base  di questo dolce. I Veneziani iniziarono a commercializzare i panetti di marzapane, per le occasioni speciali, come la festa di San Marco o il carnevale, e un tempo contrassegnata con il simbolo del leone di San Marco. Il nome divenne in tedesco Marzipan, mentre in Sicilia si tornò al nome originario di pasta reale.

La ricetta base del marzapane prevede l’uso di farina di mandorle, zucchero e albumi d’uovo, ma come sempre ingredienti e quantità variano a seconda della zona e delle tradizioni locali.

INGREDIENTI (250 g di marzapane)

125 g di farina di mandorle

125 g di zucchero a velo

30 g albume d’uovo pastorizzato

5-6 gocce di aroma di mandorla

Il marzapane che ho preparato è costituito soltanto da farina di mandorle, zucchero a velo e albume.  Vi consiglio di utilizzare l’albume già pastorizzato che si trova in commercio al supermercato per evitare di mangiare l’albume crudo. Mettete in un recipiente la farina di mandorle e lo zucchero a velo. Aggiungete l’albume, un po’ alla volta, l’aroma di mandorla e amalgamate con un cucchiaio. Aggiungete l’albume piano piano fino ad ottenere una massa densa. La quantità di albume può cambiare in base alla oleosità della farina di mandorle.

Dopo pochi minuti impastate con le mani e il marzapane è pronto.

Alberta Bellussi

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Natale è tempo anche di dolci prelibatezze, alla tradizione appartiene  il mandorlato, semplicissimo negli ingredienti  dolce che nasce nel cuore del Veneto, a Cologna Veneta in provincia di Verona.

Cologna Veneta è un piccolo comune situato nella bassa pianura veronese, conosciuto in Italia e all’estero per il suo dolce tipico delle feste natalizie, il Mandorlato.

Un dolce molto apprezzato dalle nobili famiglie venete già dai tempi della Serenissima Repubblica e citato in vari testi del XVI secolo. Fatto con miele, zucchero, albume d’uovo e mandorle è uno dei dolci tipici del Natale fin dai tempi in cui Cologna faceva parte del “Dogado” della Serenissima.

Se ne hanno riferimenti a partire dal 1500 a Venezia e a Vicenza. Alvise Zorzi, scrittore e studioso veneziano del ‘900 nel suo libro “La vita quotidiana a Venezia nel secolo di Tiziano” scrive: “Nel Cinquecento c’erano altri doni consuetudinari: la focaccia del giorno di Pasqua, il Mandorlato e la mostarda di Natale, i marroni e la cotognata del giorno di S. Martino”.

Era un dolce che si faceva in casa ma la  prima fabbrica moderna di Mandorlato fu aperta a Cologna Veneta nel 1852 per iniziativa dello speziale Italo Marani ed ancora oggi è attiva. Ai nostri giorni sono molte le ditte che lo producono, sia industrialmente che artigianalmente.

 

INGREDIENTI (PER 4 PERSONE)

500 grammi mandorle pelate

350 grammi di Miele millefiori

mezzo cucchiaino di Cannella

2 albumi uovo – cialde bianche

 

PREPARAZIONE

Tostate le mandorle, mettendole in forno a 120 gradi per circa 10 minuti. Riscaldate il miele a bagnomaria, con fuoco moderato, per circa mezz’ora mescolando di continuo sino a quando non risulterà completamente liquido. Montate gli albumi d’uovo a neve ferma e aggiungetene delicatamente metà al miele. Proseguite la cottura a bagnomaria per un’altra mezz’ora, mescolando spesso per evitare che si attacchi alle pareti del tegame. Togliete dal fuoco, unite gli albumi rimasti e mescolate delicatamente sino ad ottenere un composto omogeneo. Aggiungete le mandorle tostate e mezzo cucchiano di cannella. Amalgamate il tutto, mescolando con cura, e poi versate il composto in uno stampo basso e largo, foderato con le cialde bianche (o carta da forno) cercando di ottenere uno spessore di circa 2-3 centimetri. Lasciate raffreddare e rassodare; servite il vostro Mandorlato tagliandolo a pezzettoni.

Alberta Bellussi

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 Il Cavallo di San Martino si mangia l’11 novembre. Nella giornata di commemorazione del Santo si ricorda un momento importante  della vita contadina del passato, in questa data infatti, venivano rinnovati i contratti agricoli annuali e per l’occasione si festeggiava con i frutti della stagione autunnale, tra i quali il vino novello.

L’ antico proverbio, “A San Martino ogni mosto è vino”, ricorda che in questo periodo si aprono le botti per assaggiare il vino che spesso accompagna la degustazione di questi dolci.

Questo dolce-biscotto è per tradizione preparato a Venezia  ma ormai la consuetudine si è estesa in tutto il Veneto dove questi simpatici cavalli vengono esposti in bella mostra nelle vetrine di numerose pasticcerie. E’ un dolce molto apprezzato dai bambini,
Ha la forma caratteristica di San Martino a cavallo con decori di ogni tipo: dalla glassa di zucchero alla copertura ricoperto di cioccolato e guarnito con cioccolatini e caramelle.

Ricetta

100gr di Miele di Acacia

300gr di Zucchero Semolato

600gr di Burro

200gr di Uova

5gr di Sale

10gr di Lievito Chimico

1kg di Farina

Per preparare i biscotti ponete tutti gli ingredienti su una spianatoia ed impastate bene per amalgamare e ottenere un impasto liscio ed omogeneo. Lasciatelo riposare, avvolto nella pellicola trasparente, per almeno un’ ora in frigorifero. Stendete l’impasto in una sfoglia dello spessore di mezzo centimetro circa con lo stampino e disponete le forme su di una teglia foderata con carta forno. Se non avete la formina adatta non abbiate paura, create la forma del cavallo a mano oppure scaricatela da una qualsiasi immagine dal web e riproducetela su di in un cartoncino. Infornate le sagome in forno statico preriscaldato a 180° fino a quando non si sarà imbiondita la frolla e dunque abbastanza croccante da reggere la glassatura. Vi sembrerà strano leggere tra gli ingredienti il Miele ma sarà un grande alleato per gargantirvi la consistenza giusta. Ora non vi resta che glassare sciogliendo il cioccolato a bagnomaria o al microonde e dare sfogo alla vostra creatività con le decorazioni dolci!!

Alberta Bellussi

 

 

 

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Devo ammettere che amo molto la pianta del giuggiolo e ancor di più i suoi frutti e non vedo l’ora che arrivi l’autunno per potermi deliziare degli stessi.

Legata a questo frutto esiste una famosa espressione: “andar in brodo de giugioe” detto antico diffusamente utilizzato per indicare uno stato d’animo di grande soddisfazione e godimento, quasi uscire di sé dalla contentezza; stato che tutti noi speriamo di provare almeno qualche volta nella vita.

 Da dove deriva questa espressione?

Con le giuggiole dalla notte dei tempi si fa un delizioso infuso che sembra inebri i sensi per la sua dolcezza e il suo gusto.

Questo liquore era conosciuto e apprezzato già presso le civiltà del bacino del Mediterraneo, sin dagli antichi Egizi e dai Fenici, i quali crearono i primi preparati di cui siamo a conoscenza.

Tra le fonti storiche più remote che citano i frutti del giuggiolo troviamo le “Storie” di Erodoto, il quale paragonò il gusto dolce della giuggiola a quella del dattero, raccontando che da essa si poteva ottenere una bevanda inebriante utilizzando la sua polpa fermentata. Alcuni studiosi ipotizzano inoltre che nel Libro IX dell’Odissea il “frutto del loto” citato da Omero che portò all’oblio gli uomini di Ulisse sbarcati sull’isola dei Lotofagi, possa in realtà corrispondere ad una specie di giuggiolo selvatico, e dunque l’incantesimo narrato sarebbe stato provocato dalla bevanda alcolica preparata con i frutti inebrianti di questa pianta e non da sostanze narcotiche.

Presso gli antichi romani l’albero del giuggiolo divenne il simbolo del silenzio e fu usato per adornare i templi dedicati alla dea Prudenza; l’uso in ambito religioso non escluse però un utilizzo anche profano da parte delle popolazioni latine, le quali per secoli coltivarono i giuggioli per utilizzare i loro succulenti frutti nella preparazione di infusi liquorosi. Nelle zone di campagna era ritenuta una pianta portafortuna, pertanto presso molte case coloniche si trovava facilmente coltivato un giuggiolo vicino al lato esposto a sud.

Durante il Medioevo le conoscenze e le antiche tradizioni culinarie riuscirono a sopravvivere grazie alla trasmissione dei saperi artigianali di generazione in generazione nel mondo contadino e all’opera di conservazione delle ricette e dei rimedi erboristici nei monasteri.

Nel periodo Rinascimentale la fama delle giuggiole riprese vigore e questo frutto acquisì nuova fama per le sue particolari caratteristiche e la sua utilità.

Fu la potente famiglia dei Gonzaga ad esaltarne l’uso in cucina, la quale possedeva una ricca residenza estiva in prossimità del lago di Garda, denominata “il Serraglio”: qui veniva prodotto e offerto agli ospiti illustri un delizioso liquore a base di giuggiole: il cosiddetto “brodo di giuggiole”- considerato un perfetto accompagnamento di torte e biscotti secchi che potevano essere inzuppati nella bevanda, oppure venire utilizzato come digestivo da sorseggiare a fine pasto.

 

La fama e l’apprezzamento di questa bevanda si diffuse e perdurò nel tempo, tanto che il ‘brodo di giuggiole’ diede origine ad un’espressione metaforica giunta fino a noi. L’uso di questa espressione originaria compare nella prima edizione del Vocabolario degli Accademici della Crusca (1612), dove viene menzionata due volte: alla voce ‘succiare’, con un esempio tratto dal “Morgante” di Luigi Pulci, e alla voce castagna, dove per ‘succiola’ si intende la castagna cotta nell’acqua con la sua scorza.

L’epoca dei Gonzaga è ormai lontana, ma la coltivazione dei giuggioli nell’area del Garda e del Basso Veneto esiste ancora.

Dalle sponde del lago, alle colline veronesi e vicentine, fino ai Colli Euganei, le piante di giuggiolo crescono rigogliose grazie al clima mite e ai terreni favorevoli. Nel corso dei secoli la produzione artigianale del “Brodo di Giuggiole” si è tramandata ed è arrivata fino a noi, diventando un prodotto ambito e diffuso localmente, trovando nel piccolo borgo padovano di Arquà Petrarca la culla della sua valorizzazione e della rinascita della sua tradizione.

Si tratta sicuramente di un liquore che ha ancora una distribuzione di nicchia, ma negli ultimi anni ha cominciato a farsi conoscere ed apprezzare anche oltre i confini regionali e nazionali.

LA PREPARAZIONE DEL BRODO DI GIUGGIOLE

Il Brodo di Giuggiole è un infuso idroalcolico naturale a base di frutta autunnale: oltre alle giuggiole mature, si utilizzano le mele cotogne, i melograni e l’uva, mettendo il tutto in infusione con l’aggiunta di zucchero e scorze di limone

La ricetta moderna si basa sull’infusione idroalcolica di giuggiole a piena maturazione, a cui vengono aggiunte mele cotogne, scorze di limone, uva, melograni e altra frutta, intera o in succo, con l’aggiunta di zucchero. La preparazione classica prevede una macerazione piuttosto lunga: i frutti si devono lasciare in infusione per un paio di mesi, dopodichè il liquido ottenuto viene filtrato ed infine imbottigliato. Il prodotto ottenuto è una bevanda liquorosa dalla gradazione alcolica media (24%vol), dal colore rosso ambrato e dal profumo tipico di giuggiole. Il sapore è dolce e fruttato, con un gusto ricco ed avvolgente, particolarmente gradito anche dal pubblico femminile.

Il brodo di giuggiole si conserva abbastanza a lungo come tutti i liquori fruttati, ed è ideale come digestivo servito a temperatura ambiente alla fine dei pasti, ma può essere degustato anche ghiacciato o come ingrediente principale di drink e aperitivi sfiziosi.

Nella stagione invernale è possibile scaldare il brodo di giuggiole, preparando una bevanda calda tipo punch.

Alberta Bellussi

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Ho sentito, in questi giorni, parlare del “gelato veneto della rinascita”: lo sbatudin … subito mi si sono aperti un sacco di cassetti della memoria: emozioni, ricordi, sapori e profumi di un tempo.

Ricordi d’infanzia, ricordi di bambina, di quando la nonna mi vedeva un po’ giù e pallida, anche se da biondina quale sono sempre stata tanto colorata non sono mai stata, e mi diceva:

Bertina sentate che te fae un sbatudin e te te tira su subito”.

Mi piaceva un sacco questa coccola per la mia salute. Mi sedevo e attendevo che lei compisse tutto quel rito di fare questo ricostituente naturale che era abituale per chi viveva nella campagna veneta.

Bastava poco, un uovo fresco raccolto dalle galline che giravano per i cortili delle case rurali, dello zucchero e olio di gomito per farlo bello cremoso.

Le braccia della nonna erano come un minipimer umano sotto la sua vigorosa girata veniva cremoso lo sbatudin, la maionese, gli albumi montati a neve …aveva un che di magico.

Io ero seduta, emozionata e impaziente che la guardavo romper l’uovo, quello più grande che aveva, poi buttava un po’ alla volta lo zucchero e iniziava a mescolare energicamente.

 Il suo sbatudin era così cremoso, profumato e colorato, ma di un colore così intenso, così giallo, che mi sembrava di vederci dentro il sole e stavo meglio solo alla vista.

A volte mi buttava anche un goccino di caffè, che aveva nella moka sopra la stufa, di nascosto dalla mamma oppure i grandi lo prendevano con il Marsala. Quando ci buttavo il caffè lo intingevo con un paio di savoiardi  e me lo metteva sempre in una tazzina da the.

E poi ha continuato a farmelo quando avevo gli esami all’Università; era diventato una sorta di gesto d’amore che era divenuto scaramantico per la buona riuscita dell’esame e quando tornavo con un bel voto tutta fiera mi diceva: “ ecco veditu el me sbatudin”.

 

Ricetta

Difficoltà: Bassissima

Tempo di preparazione: 3 minuti

Ingredienti per lo sbatudin:

– 1 uovo medio freschissimo e biologico;

– 1 cucchiaio di zucchero

– caffè q.b.

Preparazione:

Rompete l’uovo, separare il tuorlo, mettetelo in un bicchiere, aggiungete lo zucchero e con una forchetta sbattetelo energicamente fino a far diventare l’uovo bello cremoso.

Aggiungete un goccio di caffè e gustatevi il vostro uovo sbattuto prima della colazione e per tirarvi su quando ne avete bisogno.

Alberta Bellussi

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La Pasqua è la festa cristiana per eccellenza.

A Venezia anche la Pasqua è stata influenzata dalle città con le quali la Serenissima si rapportava. Pensiamo infatti come la città di Venezia, più di tutte, per il suo glorioso passato e grazie al commercio abbia potuto confrontarsi con culture e religioni di tutto il mondo, rivedendo il proprio modo di intendere le tradizioni religiose. Basti pensare quanti credo religiosi sono presenti nella città, da uno dei più importanti Ghetti Ebraici del mondo, a San Lazzaro degli Armeni con la chiesa ortodossa, ai copti, alle tantissime chiese cristiane ecc.

Per esempio l’utilizzo dell’uovo è stato preso dalla cultura orientale con la quale Venezia era a contatto quotidiano. L’uovo, da sempre, è considerato il simbolo della vita e della rigenerazione e rispecchia quindi il messaggio pasquale della vittoria della vita sulla morte…

Il giorno della Pasqua si festeggiava con l lauti banchetti e con la preparazione della dolce “fugassa” (focaccia), molto simile all’attuale colomba pasquale; si festeggiava la resurrezione di Cristo, la Sua rinascita e si poneva fine al periodo del digiuno e delle privazioni quaresimali.

A Venezia c’era però anche una festa nella festa; il doge con tutto il suo seguito, effettuava una di quelle “andate”, come si chiamavano i cortei dogali che si svolgevano in determinate ricorrenze, per recarsi, a piedi lungo la Riva, alla chiesa di San Zaccaria e all’annesso monastero, dove veniva accolto, sul portone, dalla badessa congiuntamente alle altre monache.

Il doge veniva quindi accompagnato all’altare maggiore dove, insieme a tutta la Signoria, ascoltava la messa officiata dal Patriarca. Subito dopo si svolgeva un sontuoso banchetto nel refettorio del convento, preparato dalle monache in suo onore. Non solo, in questa occasione, il doge veniva anche omaggiato con un corno dogale, la corona del doge, confezionato dalle stesse monache. La leggenda e la cronaca fanno risalire il primo omaggio del tradizionale corno al doge, alla badessa Agostina Morosini, che offrì il primo al doge Pietro Tradonico (836-864).

Non solo il doge godeva delle bontà gastronomiche pasquali.

Proverbi culinari pasquali

Fugassa e uova entrarono a far parte del cultura culinaria pasquale veneta a tal punto che ne derivarono alcuni proverbi:

“No xè Pasqua sensa fugassa”

 “Xè Pasqua, xè Pasqua che caro che gò, se magna ea fugassa, se beve i cocò”

A Pasqua, trista xè la polastra che no la fa el vovo

 

RICETTA: La fugassa veneta

per uno stampo di carta per focaccia da 750 grammi

Ingredienti

250 g di farina 00

250 g di farina manitoba

70 ml di latte tiepido

4 uova intere medie a temperatura ambiente

12 g di lievito di birra fresco* (aumentate la quantità ( a 20 g) se dovete ridurre i tempi e farla in giornata senza riposo notturno)

150 g di zucchero

100 g di burro temperatura ambiente

1 presa di sale

5 cucchiai di aroma spumadoro oppure buccia di arancia e limone grattugiata

Per glassare:

latte

burro

2 cucchiai di zucchero zucchero in granella

oppure

1 albume

2 cucchiai di zucchero zucchero in granella

mandorle

Istruzioni

Per il lievitino:

In un recipiente di vetro sciogliete il lievito di birra nel latte tiepido, con 20 grammi di zucchero e 100 grammi delle farina che avrete mischiato. Formate la pastella coprite con della pellicola e lasciate riposare, fino al raddoppio (circa 1 ora).

Primo impasto:

Nel recipiente della planetaria, unire 200 grammi di farina, 2 uova e 80 grammi di zucchero. Aggiungete il lievitino e cominciate a lavorare il tutto con il gancio fino a che l’impasto inizia ad incordare.

Unite 50 grammi di burro morbido a piccoli pezzetti e continua a lavorare per circa 30 minuti, finché l’impasto sarà molto morbido e liscio.

Formate una palla con l’impasto e mettete a riposare coperto, al caldo, finché non sarà raddoppiato (circa 1 ora 1 ora e 1/2).

Secondo impasto:

Sempre nella planetaria, aggiungete la restante farina (200g ), 50 grammi di zucchero e le 2 uova, il sale e gli aromi.

Aggiungete l’impasto lievitato e cominciate a lavorare un’altra volta con il gancio finché sarà bello liscio, e unite gli altri 50 grammi di burro morbido a pezzetti.

Continuate a lavorare finché l’impasto sarà bello liscio, molto morbido ed elastico ma non appiccicoso. Ci vorrà un po’ più di tempo, anche 45 minuti. L’impasto sarà pronto quando si staccherà in un unico blocco.

Quindi rimettetelo a riposare, coperto con la pellicola, finché sarà raddoppiato. Io anche tutta la notte a temperatura ambiente (circa 20°C).

finale:

Sgonfiare l’impasto, formate una palla e mettetela nell’apposito stampo e lasciate ancora a lievitare in un posto caldo, coperto, circa 2 ore. L’impasto dovrà arrivare al bordo dello stampo. Lasciate l’impsto scoperto per 10-15 minuti in modo che si formi una leggera pellicola e con una lametta praticare un taglio a croce.

Spennellate il dolce con la “glassa”: per la versione più semplice, che io preferisco, spennellate con un po’ di latte e mettete qualche pezzetto di burro poi cospargete con lo zucchero in granella o semolato. Per la versione più ricca montate a neve l’albume con lo zucchero, spennellate la superficie del dolce e cospargete di zucchero in granella e mandorle.

Mettete in forno caldo statico a 170°C su una placca, a griglia possibilmente, e appena la focaccia si colorerà sopra coprite con un foglio di carta alluminio e portate a cottura finale. Ci vorranno circa 45-50 minuti, fate la prova stecchino e fatela raffreddare su una gratella.

Una volta raffreddata potete conservarla per qualche giorno dentro ad un sacchetto di plastica per alimenti.

Alberta Bellussi