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Il Carnevale di Venezia del 2025 è dedicato ai 300 anni dalla nascita di Giacomo Casanova, ci sono molte feste, serate a tema.

Avventuriero, scrittore, alchimista, diplomatico, spia e soprattutto grande amatore.

Il nome di Giacomo Casanova ha attraversato i secoli rappresentando una filosofia di vita per molti aspiranti libertini. La sua vita amorosa a dir poco movimentata lo hanno reso famoso più delle sue opere letterarie. Il suo scritto più importante resta Histoire de ma vie (Storia della mia vita), in cui ha tramandato ai posteri il racconto di tutti i suoi viaggi, avventure, ma soprattutto incontri galanti con avvenenti donne.

Giacomo Girolamo Casanova nasce a Venezia il 2 aprile 1725. Suo padre Gaetano era un attore e ballerino parmigiano di remote origini spagnole. La madre, Zanetta Farussi, era un’attrice veneziana di successo, menzionata persino da Goldoni nelle sue memorie.

Rimasto orfano di padre a soli otto anni ed essendo la madre sempre in viaggio, Casanova viene allevato dalla nonna materna. È proprio in questi anni che cresce il suo interesse per le pratiche di magia. Infatti, la parente lo porta da una fattucchiera per guarirlo da diversi disturbi di salute.

A nove anni sarà mandato a Padova, dove rimane fino alla fine degli studi. Nel 1737 si iscrive all’università, laureandosi in Diritto. Terminati gli studi, Giacomo Casanova va a Corfù e a Costantinopoli. Rientra a Venezia nel 1742, dove ottiene un incarico presso l’avvocato Marco da Lezze. La morte della nonna Marzia Baldissera, sua guida dell’infanzia, lo destabilizza, tanto da farlo finire nel Forte di Sant’Andrea per condotta turbolenta.

Vaga dalla Calabria ad Ancona, dove le avventure amorose gli costano spesso rimproveri e cambi di datore di lavoro. Nel 1744 finisce in quarantena, dove intesse una relazione con una schiava greca, alloggiata nella camera sopra la sua. La sua condotta, aggravata delle sue posizioni di libertinaggio, gli vale la persecuzione degli inquisitori veneziani. Ottiene una condanna, alleggerita dalle sue amicizie nel patriziato, che forse ne agevola anche l’evasione. Dopo un primo tentativo fallito, attraverso un foro nel soffitto praticato da un compagno di reclusione, il frate Marino Balbi, esce dal tetto per rientrare nel palazzo e uscirne come un comune ospite rimasto intrappolato dopo l’orario di visita. Una gondola lo porta lontano e, nonostante questo, dà il via all’inseguimento. Fugge a Bolanzo, per poi dirigersi fino a Monaco di Baviera, Augusta, Strasburgo e Parigi, dove lo accoglie l’amico De Bernis. Nel corso della sua vita Casanova è riuscito a sedurre un numero incalcolabile di donne. Tra le tante avventure vissute, ce n’è una che risulta più curiosa anche rispetto alle altre. Durante il suo secondo soggiorno ad Ancona, Casanova conosce Bellino, dalla natura un po’ ambigua, da  lei ha anche un figlio illegittimo, Cesarino Lanti.

Il più grande amore della vita di Casanova è Henriette, una donna anticonformista e coraggiosa. Questo nome nasconde in realtà l’identità di una nobildonna di Aix-en-Provence, forse Adelaide de Gueidan. I due si incontrano durante il carnevale 1749, mentre lei sta fuggendo vestita da ufficiale, colpevole di aver abbandonato il tetto coniugale. I due trascorrono un infuocato periodo in fuga tra Parma e Roma, per poi incontrarsi in altre due occasioni in cui lei finge di non conoscerlo.

Il caso più clamoroso è quello che riguarda la relazione di Casanova con suor M.M. e i conseguenti rapporti con l’ambasciatore di Francia De Bernis. Dal punto di vista stilistico è uno dei momenti più intensi delle memorie. Il ritmo del racconto, serratissimo, e la tensione emotiva dei personaggi hanno fatto pensare che si tratti di un passaggio completamente inventato. Ma alcuni studiosi, pur non riuscendo a identificare la donna, lo hanno certificato come veritiero.

Dopo la sua fuga dai Piombi di Venezia, a Parigi conosce la marchesa d’Urfé, nobildonna ricchissima e stravagante, con la quale intrattiene una lunga relazione, spendendo in lungo e in largo il denaro che lei gli mette a disposizione. Nella sua biografia Casanova menziona molte avventure, alcune presumibilmente romanzate o addirittura inventate. Ma, tirando le somme, l’autore è arrivato a menzionare più di 120 donne sedotte. Per lui non era tanto il farle cadere, quanto la capacità e la volontà di amare veramente le donne che conquistava, insieme al piacere di essere ricambiato.

Alberta Bellussi

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La principale forma di ricchezza per Venezia era costituita dal commercio del sale, ricavato dai giacimenti di acqua salata, le cosiddette saline

Questo popolo” si diceva dei veneziani “non ara, non semina, nè vendemmia, eppure ha tanta ricchezza”.

La Serenissima iniziò a essere il centro più importante di produzione di sale nell’alto Adriatico già dal IX secolo con le saline che nel Medioevo occupavano almeno metà della laguna, oltre a quelle di Chioggia e delle diverse isole come Sant’Erasmo e Murano. Poi le progressive conquiste di Cervia, di Canne in Puglia e via via fino a Creta e a Cipro ampliarono notevolmente il mercato e la sua forza economica in quanto, a questo prodotto prezioso, venivano applicate due imposte: una sul suo valore, pari alla quinta parte del prezzo, e l’altra sul suo peso, il famigerato dazio, per cui ogni quindici giorni i “salinari” consegnavano il ricavato ai procuratori di San Marco: un fiume di denaro che entrava fresco nelle casse dello Stato.

Sul finire del 1200 i Veneziani, diventati ormai incontrastati padroni di Cervia, potevano farsi inviare dai centomila ai centocinquantamila canestri (“corbe”) di sale romagnolo l’anno, pari a due-tremila tonnellate, da scambiare poi con i prodotti delle città di terraferma: grano, vino, olio, legnami. La stessa cosa succedeva sul mar Tirreno per la rivale repubblica marinara di Genova che si riforniva di sale dalle isole Baleari e dalle saline siciliane del ragusano e del trapanese per poi destinarlo ai mercati di Torino e della Savoia. Cosicché si può dire che il sale condizionò per secoli l’economia e la vita di molti popoli, dando spesso luogo a numerosi e violenti scontri, anche armati, denominati appunto “guerre del sale”, cui non si sottrassero città come Ravenna, Ferrara, Verona e la stessa Padova.

Ma la grande intuizione di Venezia, messa in campo e mantenuta almeno fino al Seicento, fu la duplice funzione assegnata al sale. Innanzitutto quale merce di scambio molto ambita ma poi anche come «carico di ritorno» delle navi che, rientrando dai commerci con l’oriente con materiali leggeri come tessuti e spezie, venivano opportunamente zavorrate col sale, dietro promessa ai mercanti che il Comune avrebbe acquistato il loro intero carico.

IL MONOPOLIO: Con il sale gestito in regime di monopolio si garantivano grandi e continuati introiti per la Repubblica.  I Provveditori al sale si occupavano degli interventi di difesa dei lidi verso il mare e delle grandi opere di protezione dei litorali, lavori fondamentali per la sopravvivenza fisica della Serenissima, si occupavano anche della costruzione dei relativi magazzini nei punti strategici della città, come alle Zattere e alla punta della Dogana.

«Inoltre essi partecipavano finanziariamente alla ricostruzione dei quartieri distrutti dagli incendi, alla costruzione degli edifici pubblici, quali il Palazzo ducale o il palazzo dei Procuratori di San Marco, all’abbellimento delle chiese finanziando i più grandi architetti, gli scultori, i pittori più celebri, i doratori…».

L’edificazione dei palazzi durava talvolta alcuni decenni, aveva bisogno di finanziamenti prolungati e di un sistema che offriva buone garanzie. Non solo, in tal modo veniva raggiunto un altro importante obiettivo: Venezia con la costruzione di importanti palazzi pubblici mirava a rappresentarsi nella sua natura di città-stato. Venezia trovò per secoli nel sale la sua fortuna, come lo fu la seta per i Cinesi o come lo è oggi il petrolio per gli Arabi.

Alberta Bellussi

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Quando una persona affronta una prova difficile, un esame l’augurio più frequente che gli viene rivolto è “In bocca al lupo“. Un tempo si rispondeva: “Crepi” ora spesso si risponde: “Viva”. Pochi però sono a conoscenza che nell’augurio “in bocca al lupo“, i lupi non c’entrano nulla, c’entrano, invece, Venezia, la Serenissima, e le sue navi. “In bocca al lupo” come augurio no come avvertimento.  Perché “in bocca al lupo” è indubitabilmente un augurio. E non è, ovviamente, l’augurio di venir mangiato dai lupi. È un augurio marinaresco: non c’entra con i lupi, non c’entra con la montagna e le foreste, ma con il mare, e in particolare: l’Adriatico. E con lo Stato che per secoli e secoli ha dominato questo mare, imponendo ai traffici commerciali norme, burocrazie e regole ferree: la Serenissima Repubblica. Venezia, lo sappiamo, ha dominato l’Adriatico. E ha legittimato questo potere affermando che, essendo Venezia nata sul mare, il mare era il suo territorio. Il mare, tutto: da Venezia in giù, su entrambe le sponde, fino alle bocche di Otranto. L’Adriatico tutto si chiamava allora Golfo di Venezia, e con questo nome è riportato nelle carte. E tutti i traffici che vi si svolgevano dovevano rispettare le norme imposte dalla Serenissima. Dagli Asburgo ai Re d’Ungheria, dal Papa al Regno di Napoli, ci hanno provato in molti, per secoli, a contestare il diritto che Venezia si arrogava, di dettar legge sull’intero Adriatico. Il Papa minacciò perfino scomuniche e interdetti, ai quali il grandissimo Paolo Sarpi s’incaricò di rispondere, affermando le ragioni di Venezia. In ogni caso, finché la Serenissima fu la Serenissima e c’erano in giro le flotte militari di Venezia, ci fu ben poco da discutere: le leggi veneziane si applicavano e basta. Tra queste norme, quelle che venivano fatte rispettare con maggior severità erano quelle fiscali. Le merci trasportate via nave in Adriatico pagavano una tassa a Venezia, che in cambio garantiva la sicurezza dei traffici conducendo operazioni che oggi si chiamerebbero “di polizia internazionale” contro i pirati.

LA DICHIARAZIONE NELLA BOCCA DI LUPO: Il primo dovere del capitano di una nave, non appena arrivato in porto, era di consegnare un rapporto fiscale, nel quale dichiarava il carico trasportato, affinché si potesse stabilire il dazio da pagare. In ogni porto, vi era un ufficio al quale il capitano doveva consegnare queste carte. Un ufficio aperto sempre, giorno e notte: vi era infatti, sulla facciata, un apposito foro, nel quale il capitano doveva infilare la dichiarazione sul carico, prima di sbarcarne anche solo una piccola parte.  Questi fori sulle facciate sono detti “bocche di lupo“. E “bocca di lupo” si chiamano infatti, ancor oggi, i pertugi ricavati nelle facciate, le prese d’aria dei seminterrati, i fori d’aerazione ricavati a beneficio di cantine o magazzini al piano terra. Ed ecco spiegato l’augurio: quando una nave salpava, l’augurio “in bocca al lupo” era quindi l’augurio di arrivare regolarmente nel porto di destinazione con tutto il carico da dichiarare, avendo quindi evitato naufragi, tempeste e pirati e ogni altra insidia del mare.  “Che Dio te scolti” rispondeva il capitano. I lupi quindi non c’entrano. C’entrano Venezia, la Serenissima, le navi, i commerci adriatici. La nostra grande e bellissima storia.

In bocca al lupo!

Alvise Fontanella

 

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CastelBrando ha acceso l’albero di Natale vivente più alto d’Italia. Con i suoi 33 metri si classifica anche tra i primi 10 più alti d’Europa!
É un Cedro dell’Atlante (Cedrus atlantica), proveniente dall’omonima catena montuosa del Nord Africa, con un’età stimata di oltre 200 anni.
L’albero di Natale, decorato con più di 600 lampadine ha sulla cima una grande stella che illumina la vallata sottostante.
L’enorme Cedro ultracentenario, di quasi 3 metri di circonferenza e cresciuto fra gli spalti protetto dalle mura di CastelBrando, è catalogato come albero monumentale ed è protetto dalla soprintendenza come bene storico nazionale.
Alberta Bellussi
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Venezia è città d’arte per antonomasia, la capitale del romanticismo, meta da sogno sospesa nel tempo tra la terra e l’acqua eppure potrebbe essere descritta attraverso i numeti. Infatti, Venezia, che prima di tutto è un topos geografico reale, “ha molti numeri” importanti i quali, oltre che per individuarla e descriverla, risultano preziosi per comprenderne più a fondo la natura. Ecco così che, anche attraverso una semplice enumerazione di dati, inesorabile emerge l’immagine di una città ancora una volta differente dalle altre, da un lato sempre sorprendente e magica, dall’altro pur con la sua fragilità e complessità

Venezia è  composta da 6 sestieri: San Marco con 5.562 numeri civici; Dorso Duro con 3004 numeri civici; Cannaregio con 6.423 numeri civici; Santa Croce con 2.344 numeri civici; San Polo con 3.144 numeri civici;  Castello con 6.827 numeri civici.

Un’unica piazza che è la meraviglia di Piazza San Marco e un unico palazzo, Palazzo Ducale.

118 sono le isole che la compongono

420 sono i ponti che attraversano i canali

4 sono i ponti sul Canal Grande: Il Ponte della Costituzione più noto come Calatrava, dal suo progettista, il Ponte degli Scalzi o della stazione, il Ponte di Rialto e il Ponte dell’Accademia. I piccoli ponti sono 300 in pietra 59 in ferro 49 in legno più il Ponte dei tre ponti.

Un solo ponte di accesso alla città il ponte della Libertà un tempo noto come Ponte di Littorio, costruito nel periodo fascista affiancato anni dopo dal ponte della Ferrovia.

177 sono i rii che si intersecano

3 soli canali : Il Canal Grande, il Canale della Giudecca e Il Canale di Cannaregio.

135 sono i campi

196 i campielli

380 le corti

7 i campazzi

1198 calli

367 rami

52 rio terrà

42 salizade

10 rughe

1 strada ( Nova)

2 vie

142 fontane

256 pozzi pubblici

circa 2.500 pozzi privati.

La sua superfice è di 415,9 chilometri quadrati e conta 250191 al 31 maggio 2024.

Le Chiese sono 98 quelle di culto, 26 quelle sconsacrate 2 di altri culti, gli armeni e i greco-ortodossi e ben 40 quelle che sono state demolite. 117 sono i campanili.

Sono questi numeri importanti da ricordare in quanto Venezia non è solo San Marco e Rialto ma l’insieme di tante calli, campi, campielli, rii, ponti che sono i testimoni tangibili  di una storia che millenaria che rimane nel cuore non solo dei veneziani ma di tutti quelli che la visitano e la amano.

Alberta Bellussi

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In Comelico e in Cadore esiste un’istituzione molto antica che si chiama “Regola”.

Le “Regole di comunione familiare” del Comelico sono la testimonianza del forte legame tra la comunità locale e il proprio territorio che si tramanda da oltre un millennio. Gestisce il patrimonio collettivo costituito da boschi, pascoli, praterie, malghe, che è inalienabile, indivisibile, inusucapibile. Ha preistoria e storia. Creata per motivi di sopravvivenza, solidarietà e difesa in zona montana.Le famiglie regoliere tramandano di padre in figlio le proprietà collettive di boschi e pascoli, insieme ai diritti di appartenenza alla Regola di Comunione Familiare, con lo scopo di preservare e migliorare la propria terra. I beni che derivano dalle attività legate al bosco e al pascolo rappresentano da sempre la principale fonte di sostentamento della comunità e sono amministrati con direttive approvate democraticamente dall’assemblea dei regolieri e contenute in antichi codici rurali detti “Laudi Statuti”. Ancora oggi, infatti, sono il punto di forza dell’offerta turistica delle Dolomiti Comelicesi, caratterizzata da contenuti ambientali e paesaggistici davvero unici. Le Regole di comunione familiare hanno saputo nel tempo adeguare la propria funzione e in questi anni hanno promosso numerose azioni di valorizzazione dell’ambiente indirizzate alla fruizione sostenibile del territorio. Le Regole di comunione familiare, che garantiscono una gestione armonica dei beni spontanei del territorio nel rispetto di tradizioni centenarie un tempo enti di diritto pubblico perché concorrevano direttamente al bilancio comunale, oggi sono diventate di diritto di privato e definite “Comunioni Familiari” a partire dalla legge 102/1971, che conferisce loro il titolo di azienda di diritto privato. È evidente che la considerazione del ruolo femminile ha sempre avuto scarsa attenzione: infatti, c’è sempre stata una tendenza all’esclusione delle donne anche, ma non solo, dall’attività regoliera. Non si deve dimenticare che questo antico diritto, pur nascendo dalle comunioni familiari, è sempre stato rappresentato dalla figura preminente dei maschi anziani, lasciando alle donne compiti di supplenza o di subentro temporaneo solo per le vedove con figli maschi minori. Tutto questo può non stupire, rientrando nella normale concezione storica della figura femminile. Pur però essendo cambiato il ruolo delle donne, gli statuti sono rimasti invariati. Tuttora le uniche donne considerate regoliere sono le vedove aventi figli di cui almeno uno maschio a carico e finché dura lo stato di vedovanza o finché un figlio maschio e convivente abbia raggiunto la maggiore età. Nel 2022 ci fu una svolta nelle elezioni tenutesi a Valle di San Pietro di Cadore la maggioranza ha votato per la prima volta una donna, Manuela Pradetto Bonvecchio, sarà chiamata a presiedere l’antichissimo istituto regoliero, che detiene la proprietà privata collettiva di un grande patrimonio ambientale. Il Comelico terra preziosa di conservazione e anche terra capace di imprevedibili scatti in avanti: finalmente un segnale netto di apertura alle donne che viene dall’assemblea dei regolieri.

Nell’area di Comelico sono ancora attive 16 Regole di comunione familiare cosi descritte:

Comune di Comelico Superiore: Regola di Padola – Regola di Dosoledo – Regola di Casamazzagno- Regola di Candide;

Comune di San Nicolo di Comelico: Regola di San Nicolo – Regola di Costa;

Comune di Danta di Cadore: Regola di Tutta Danta – Regola di Mezza Danta.

Comune di Santo Stefano di Cadore: Regola di Santo Stefano – Regola di Campolongo – Regola di Casada – Regola di Cotalissoio;

Comune di San Pietro di Cadore: Regola di San Pietro – Regola di Presenaio – Regola di Valle – Regola di Costalta.

Alberta

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Come mai si chiamano così?

A differenza di quello che si può credere dal loro nome, le tende alla veneziana non sono state inventate a Venezia ma, si tramanda, addirittura in Giappone. In realtà, andando ancora più indietro nel tempo si scopre che manufatti molto simili erano già presenti in Persia, Cina ed Egitto. Tuttavia, la loro funzione decorativa sulle finestre delle abitazioni potrebbe essere originaria del periodo settecentesco: questa è la datazione approssimativa che ne fanno gli esperti.

Ma per quale ragione, allora, si chiamano “tende alla veneziana”?

Un’antica leggenda ci svela che i primi commercianti veneziani portarono in Persia, durante i loro viaggi d’affari, questi antichi manufatti. In effetti, questo spiegherebbe perché le veneziane, in Francia, sono conosciute anche con il nome di “persienne”.

Il termine persiana deriverebbe dal latino “persa, -ae”, la cui traduzione è “originario della Persia”. Sembra dunque che la persiana sia arrivata in Europa per la prima volta nel XVIII secolo, a Venezia in particolare. Tanto che le persiane più famose sono proprio quelle veneziane. La storia della persiana ha origini antichissime, una dimostrazione data da diversi dipinti dell’epoca dei Persiani, dai quali deriva appunto il nome “persiana”. Ma i luoghi in cui veniva importata preferivano chiamarla diversamente: i mercanti veneziani la chiamavano appunto “veneziane”.

Una curiosità è che un altro nome che si usa tutt’ora, soprattutto legato alle persiane genovesi,  è “gelosia”, nome che si dice sia legato agli uomini persiani i quali, troppo gelosi delle proprie mogli, avevano appunto escogitato questo stratagemma per impedire loro di mostrarsi alla finestra.

Anche i materiali con cui venivano realizzate hanno avuto la loro ovvia evoluzione.

Dapprima venivano utilizzati il ferro e il legno, in seguito attorno al 1850 sono apparse le prime persiane realizzate in alluminio, fino ad arrivare ai giorni nostri e alla diffusione di altri materiali come il PVC e l’acciaio zincato.

Le persiane sono infissi caratterizzati da lamelle inclinate che lasciano passare la luce dell’esterno dentro le abitazioni. Le lamelle possono essere fisse oppure orientabili, ovvero modulabili a seconda della quantità di luce che si vuole diffondere all’interno dell’ambiente.

Però  colui che, per primo, ha brevettato questo sistema, nel 1769, è stato il fisico inglese Edward Bevan: il suo era un congegno di lame mobili di legno che potevano essere azionate per mezzo di una corda e una puleggia inserite in un telaio. Ed è curioso che sia stato proprio un inglese a brevettare questo sistema quando è risaputo che in molti Paesi nordici le persiane sono le assenti per eccellenza.

Come mai noi abbiamo le persiane e invece ad altre latitudini sono assenti? E’ un fatto comune vedere le persiane in alcuni Paesi, ma in altri non ce n’è traccia.

“Per quanto riguarda la differenza di utilizzo con i Paesi del nord Europa (non solo quelli più a nord, ma anche Paesi Bassi, Belgio, Germania) sembra ci siano due ragioni. Da un lato, è un problema funzionale, poiché più a nord tendono a intrappolare il poco sole che le raggiunge, mentre più a sud dobbiamo evitarlo per non surriscaldare gli spazi in cui viviamo e lavoriamo. Dall’altro, le correnti protestanti – luteranesimo e calvinismo – che si sono insediate in quelle zone d’Europa hanno cambiato la concezione della privacy tra la gente. Lì, nascondersi dietro una tenda o una persiana potrebbe voler dire che si sta nascondendo qualcosa di peccaminoso”, afferma l’architetto José María Mateo.

 

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“Costoro non seminano, non arano, non vendemmiano, ma comprano dappertutto grano e vino”: questa cronaca del VIII secolo descrive perfettamente l’attitudine innata dei Veneziani al commercio, riconosciuta in tutto il mondo fin dall’antichità. Proprio per questo motivo la moneta di Venezia è stata per secoli la valuta più pregiata di tutte; monete di tantissime forme e tagli. Ne elencherò alcune seguendo l’ordine alfabetico.

Il BAGATIN era questa una moneta tra le più usate dal popolo e durata sino alla caduta della Serenissima.

Il BAIOCCO era una moneta romana che però aveva corso legale anche a Venezia e valeva due soldi veneti

Il BESSO era in rame e valeva sei denari o mezzo soldo veneto

Le BISANTE prendono il nome dalla città di Bisanzio dove venne coniata per la prima volta ma successivamente la si coniava anche a Venezia era una moneta d’oro dal valore altissimo

Il DANARO o PICCIOLO valeva come il bagatin

Il DUCATO quello d’argento pesava 109 carati e un grammo e valeva otto lire venete mentre il Ducato corrente valeva sei lire venete e quattro soldi.

Il GROSSO moneta tipica veneziana coniata nel 1200 dal Doge Pietro Ziani e valeva quattro soldi e c’era anche GROSSON che valeva otto soldi.

La LIRA VENETA valeva venti soldi e fu in corso sino alla fine della Serenissima

Il MARCHETO piccola moneta di rame coniata poco prima della caduta della Serenissima

La PALANCA valeva un soldo e il PALANCON valeva due soldi.

Lo SCUDO D’ORO coniato dal Doge Andrea Gritti nel 1530  valeva sei lire venete e dieci soldi mentre lo SCUDO D’ARGENTO valeva sei lire venete ma alla fine della Serenissima il suo valore era di dodici lire venete e otto soldi. C’era poi il MEZZO SCUDO, il QUARTO DI SCUDO e il MEZZO QUARTO DI SCUDO.

Il SISIN era una piccola moneta d’argento ma durò poco per la facilità di contraffazione, che esisteva anche allora.

Il SOLDIN piccola moneta di rame mentre il SOLDO era una moneta di rame che valeva un ventesimo di Lira veneta.

Lo ZECCHINO  moneta che prese il nome in onore della Zecca e aveva un grosso valore mentre la OSELLA era d’argento e fu emessa dal Doge Antonio Grimani .Veniva coniata ogni anno ed era il regalo che i Dogi facevano ai grandi personaggi della Serenissima nel periodo natalizio.

Queste sono le più conosciute ma ce ne sono anche molte altre.

Alberta Bellussi

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L’OROLOGIO PIU’ ANTICO DEL MONDO SI TROVA IN VENETO

Lo sai dovedove si trova il contributo più antico del mondo?

Si trova sul campanile della chiesa di Sant’Andrea di Chioggia e segna l’ora esatta da 630 anni.
L’orologio di Chioggia fu ritrovato nel 1997 da un carpentiere, Gianni Lanza, che era stato incaricato di sistemare le vecchie scale in legno che portavano alla cella campanaria. Quell’antico marchingegno era stato accantonato in un angolo dopo l’elettrificazione dell’orologio; i pesi furono ritrovati al piano terra della torre, cosicchè l’esemplare può dirsi completo in ogni sua parte. Per fortuna il parroco comprese che si poteva trattare di un reperto meritevole di attenzione e non lo fece smaltire si preoccupò invece di capirne le origini.

Uno studioso locale, Aldo Bullo, esperto di orologeria antica, vedendo l’arcaico manufatto lo collegò a quello della cattedrale di Salisbury, considerato fino a quel momento il più antico al mondo menzionano a partire dal 1386. Il meccanismo di Chioggia venne sottoposto al giudizio del prof. Ettore Pennestri (università Tor Vergata di Roma e membro del Registro Italiano Orologi da Torre) e alla d.ssa Marisa Addomine, collega del Registro. Gli studiosi intrapresero insieme un’approfondita ricerca, sia sul reperto che d’archivio, dalla quale emerse anzitutto il documento sovrano sulla sua datazione, in cui si legge :
Quod ponatur in exitu per massarios ad quod restat ad expensam orologi et quod teneat in ordine et acconcio – Si metta a disposizione degli economi del Comune la somma per saldare le spese dell’orologio e per tenerlo in ordine e funzionante. die XXVI february (26 febbraio 1386). Anche per l’esemplare chioggiotto si deve quindi ritornare al 1386: che battaglia per il primato con Salisbury.

In questo documento, per la verità, si parla già dell’esistenza dell’orologio, ma è la carta più antica di cui si disponga poiché l’archivio precedente venne distrutto durante la Guerra di Chioggia (1379-’80)
Gli studiosi sono riusciti a ricostruire l’intera storia del vetusto meccanismo, e hanno pure ricostruito virtualmente l’orologio; infatti grazie a tecniche di reverse engineering e di modellazione tridimensionale, presso la cattedra di Meccanica Applicata alle Macchine del Dipartimento di Ingegneria Meccanica dell’Università di Roma “Tor Vergata”, è stato possibile eseguire lo studio cinematico dell’orologio.
Oggi l’originale è custodito all’interno della torre, che ospita un Museo verticale, dislocato su cinque livelli, fino a raggiungere la cella campanaria, dalla quale si gode un panorama mozzafiato.

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Venezia è unica e lo sappiamo ed è un gioiello anch’esso unico al Mondo: la Pala d’oro.

La Basilica di San Marco ospita al suo interno la preziosa Pala d’Oro, una maestosa opera bizantina di oreficeria prodotta nel X secolo. La sua realizzazione ha richiesto una tecnica sopraffine di decorazione artistica a smalto chiamata cloisonné (sottili fili o listelli o piccoli tramezzi metallici (di solito rame), celle o alveoli (detti in francese cloisons), vengono saldati o incollati ad una lastra di supporto dell’opera da costruire; successivamente quindi, nelle zone rilevate dal metallo, viene colato dello smalto, ottenendo quindi una sorta di mosaico le cui tessere sono circoscritte esattamente dai listelli metallici).

Negli anni venne impreziosita sempre più fino a suo completamento nel XIV secolo; la struttura, posta sull’altare maggiore della Basilica, è in stile gotico in argento e oro e misura 334x212cm. Sono rappresentate numerose immagini sacre con al centro il Cristo circondato dagli Evangelisti, ai lati profeti, apostoli, arcangeli e in cornice la storia di vita di San Marco. Ma la particolarità che lascia tutti abbagliati sono le 1927 gemme che contiene: 526 perle, 330 granati, 320 zaffiri, 300 smeraldi, 183 ametiste, 75 rubini, 175 agate, 34 topazi, 16 corniole, 13 diaspri. Data la sua grande preziosità sembra strano che sia arrivata a noi senza essere stata trafugata, in realtà è stata in serio pericolo come racconta la tradizione. Napoleone, trovatosi al suo cospetto durante l’invasione, fu tratto in inganno da un “gioco” linguistico tutto Veneziano che ha permesso di salvarla; Xe tutto vero! dissero i veneziani all’Imperatore senza troppo pensare che la parola italiana “VERO” in dialetto veneto significa anche “VETRO. Napoleone, per fortuna, comprese che l’opera era tutta di vetro e quindi priva di valore e la lasciò al suo posto portando in Francia altri preziosi. Grazie a questo qui pro quo dialettale, la Pala d’Oro fu salvata, concedendoci il privilegio di poterla ammirare ancora nella sua bellissima “casa” di origine.

Alberta Bellussi