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Venezia è unica e lo sappiamo ed è un gioiello anch’esso unico al Mondo: la Pala d’oro.

La Basilica di San Marco ospita al suo interno la preziosa Pala d’Oro, una maestosa opera bizantina di oreficeria prodotta nel X secolo. La sua realizzazione ha richiesto una tecnica sopraffine di decorazione artistica a smalto chiamata cloisonné (sottili fili o listelli o piccoli tramezzi metallici (di solito rame), celle o alveoli (detti in francese cloisons), vengono saldati o incollati ad una lastra di supporto dell’opera da costruire; successivamente quindi, nelle zone rilevate dal metallo, viene colato dello smalto, ottenendo quindi una sorta di mosaico le cui tessere sono circoscritte esattamente dai listelli metallici).

Negli anni venne impreziosita sempre più fino a suo completamento nel XIV secolo; la struttura, posta sull’altare maggiore della Basilica, è in stile gotico in argento e oro e misura 334x212cm. Sono rappresentate numerose immagini sacre con al centro il Cristo circondato dagli Evangelisti, ai lati profeti, apostoli, arcangeli e in cornice la storia di vita di San Marco. Ma la particolarità che lascia tutti abbagliati sono le 1927 gemme che contiene: 526 perle, 330 granati, 320 zaffiri, 300 smeraldi, 183 ametiste, 75 rubini, 175 agate, 34 topazi, 16 corniole, 13 diaspri. Data la sua grande preziosità sembra strano che sia arrivata a noi senza essere stata trafugata, in realtà è stata in serio pericolo come racconta la tradizione. Napoleone, trovatosi al suo cospetto durante l’invasione, fu tratto in inganno da un “gioco” linguistico tutto Veneziano che ha permesso di salvarla; Xe tutto vero! dissero i veneziani all’Imperatore senza troppo pensare che la parola italiana “VERO” in dialetto veneto significa anche “VETRO. Napoleone, per fortuna, comprese che l’opera era tutta di vetro e quindi priva di valore e la lasciò al suo posto portando in Francia altri preziosi. Grazie a questo qui pro quo dialettale, la Pala d’Oro fu salvata, concedendoci il privilegio di poterla ammirare ancora nella sua bellissima “casa” di origine.

Alberta Bellussi

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“Stai parlando a vanvera” vuol dire parlare a vuoto, senza un senso, solo per aprir bocca.

È un detto usato in tutta Italia ma la sua origine è legata a Venezia e ad un oggetto in particolare usato dalle dame del ‘600 nella città lagunare, la cosiddetta “vanvera”.

Ma la vanvera che cosa è?  È un oggetto che era molto in voga che nella Venezia seicentesca e veniva usato dalle dame che non andavano mai in giro senza le loro ampie gonne sorrette da rigide strutture a gabbia. La vanvera era una parte integrante dei sontuosi abiti delle veneziane che veniva usata in qualsiasi occasione di festa.  Si trattava appunto di una sorta di tubicino, indossato dalle donne sotto le loro gonne sul sedere, con un palloncino contenitore alla sua estremità che serviva per contenere le possibili flatulenze delle signore che, così, non sarebbero finite nell’aria provocando spiacevoli figure per le eleganti dame. Questo attrezzo, che non mancava mai nell’outfit delle signore veneziane in occasioni come balli, feste di palazzo o cene di gala serviva sostanzialmente come contenitore di flatulenze ed era molto più comune di quello che si possa pensare.  Esisteva anche un’altra versione della vanvera; ce n’era una che veniva utilizzata sotto le coperte e che portava l’aria delle proprie flatulenze fuori dalla finestra con un tubicino in modo che la stanza restasse profumata durante la notte.  Il collegamento tra l’oggetto vanvera e il modo di dire del parlare all’aria, cioè senza senso diventa è quindi  chiaro e se inizialmente veniva usato per scherzare su questo doppio senso, con il tempo e con la scomparsa dell’oggetto della vanvera, ora è rimasto il modo di dire che usiamo sempre.

Alberta Bellussi

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In Italia ci sono alcune città molto famose per il caffè, come Napoli o Trieste, ma fu Venezia la prima città italiana a scoprirlo e nella quale arrivarono i primi chicchi.

Nel 1570 fu, infatti, Prospero Alpini, medico del console Giorgio Emo, che lo scoprì in Egitto quando il politico era impegnato lì per conto della Repubblica di Venezia. Il dottore fu il primo italiano a raffigurare la pianta su una tavola botanica e studiare i benefici dei suoi chicchi, che dopo essere stati tostati regalavano una bevanda nera e “di sapore simile alla cicoria”; il suo testo si chiamava “De Plantis Aegypty”, famoso trattato sulle piante di origine nordafricana in cui il caffè è oggetto di studio per la prima volta.

Più di un secolo dopo, nel 1683, le cose cambiarono e in Piazza San Marco aprì la prima “Bottega del caffè“ dove si vendeva la bevanda nera dal forte potere stimolante.

Nel 1720, sotto le Procuratie Nuove, viene aperto il Caffè Florian, con il nome di “Alla Veneziana trionfante” che presto cambiò il nome in Florian.  La data fissata per l’apertura fu il 26 dicembre ma intoppi burocratici la fecero spostare al 29 dicembre. Così ben presto i veneziani lo elessero a punto d’incontro, «’Ndemo da Florian!» dicevano in dialetto e così la bottega di Floriano Francescani prese il nome con cui è ancora oggi conosciuta in tutto il mondo. Sarà il primo “cafè” d’Europa; fu un successo enorme tanto che attorno alla metà del ‘700 si contano in città già oltre 220 botteghe del caffè. Da Venezia si diffondono rapidamente in tutta Italia e in Europa facendo dilagare la moda dei cafè come centro della vita mondana e intellettuale, ritrovo dove deliziarsi anche con il tabacco e la cioccolata che nel frattempo erano approdati in Occidente.  Il locale divenne subito di gran moda, grazie alla posizione, ma anche alla raffinatezza degli arredi, alla bellezza delle sue sale piene di stucchi e affreschi: qui s’incontrava la bella gente dell’epoca, ed anche i dongiovanni visto che fu uno dei primi bar aperti anche alle donne,  come Carlo Goldoni o Giacomo Casanova e, in tempi più recenti, Antonio Canova, Lord Byron, Gabriele d’Annunzio, Ernest Hemingway, solo per citarne alcuni, ma anche personaggi cinematografici come James Bond e Gwyneth Paltrow. È sopravvissuto alla caduta della ”Serenissima” e a due guerre mondiali, conservando intatto il suo fascino nei secoli. Protagonista dei maggiori capitoli della storia veneziana, fu qui, a fine ‘800, che l’allora sindaco di Venezia, Riccardo Selvatico, ebbe l’idea di organizzare un’esposizione internazionale d’arte, divenuta poi famosa con il nome di Biennale di Venezia. Nel 2020 ha compiuto 300 anni ed è stato emesso un francobollo.

Alberta Bellussi

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E’ una frase questa che abbiamo usato e sentito centinaia di volte aver ascoltato

Te fasso veder mi che ora che xe” è un detto che i veneti conoscono bene e capiscono subito che quando lo sentono pronunciare sanno che c’è qualcosa che non va anzi forse meglio girare alla larga.

Questa frase, infatti, che letteralmente significa “Adesso ti faccio vedere io che ora è” è una vera e propria minaccia, usata anche bonariamente o ironicamente per rimproverare o spaventare qualcuno che si è comportato male e dovrà pagarne le conseguenze.

Ma da dove deriva questo modo di dire veneziano?

Un motivo c’è ed è legato alla storia di Venezia. Questo detto comunissimo, infatti, trae origine da un’abitudine tutta veneziana ai tempi della Serenissima rimasta nel linguaggio comune in questo detto: “”Te fasso veder mi che ora che xe”.

Nella metà del XVIII secolo in piazza San Marco nello spazio tra le colonne di San Marco e San Todaro, venivano effettuate le esecuzioni capitali.

Quest’area di San Marco è ancora oggetto di superstizione da parte dei veneziani che non vi passano mai in mezzo perché era destinata alle uccisioni ed è proprio da questo luogo che deriva il detto “Te fasso veder mi che ora che xe”.

I condannati a morte erano costretti a dare le spalle al bacino San Marco e l’ultima cosa che guardavano, appena prima di venire ammazzati, era dritto alla torre dell’orologio che avevano davanti che segnava l’ora della propria morte. Proprio da qui deriva questa minaccia di origine molto antica: “Ti faccio vedere che ore sono”, nel senso di “Ti condanno a morte” ora fa ancora parte dei modi di dire veneti in un’accezione più leggera.

Alberta Bellussi

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La frase “tagliare la testa al toro” significa risolvere definitivamente una questione che si protrae da tempo anche a scapito o a danno dì qualcosa o di qualcuno.

Ma da dove nasce questa espressione? Lo sai che è un detto veneziano.

Tutto iniziò nel 1162, quando il patriarca di Aquileia, Ulrico di Treven mosse alla conquista di Grado, città della Serenissima.  Il Doge di Venezia, Vitale II Michiel, reagì fortemente sconfiggendo l’esercito di Aquileia e facendo vari prigionieri tra i quali 12 prelati, 12 alleati e lo stesso Ulrico. Venezia accettò, poi, di liberare Ulrico solo dopo il pagamento di un ingente riscatto: 12 pani per i prelati, 12 maiali per gli alleati e un toro per il Patriarca. I pani vennero distribuiti alla popolazione, la carne dei maiali venne distribuita tra i Senatori e il toro, che simboleggiava il Patriarca, fu ucciso nella pubblica Piazza, tagliandogli la testa. Così, la decapitazione del toro pose fine alla diatriba tra i contendenti e assunse il significato odierno di risolvere definitivamente una controversia che si protrae da tempo. Per ridicolizzare gli aquilani, si stabilì inoltre che ogni anno un toro, 12 maiali e 12 pani dovessero essere mandati a Palazzo Ducale dove si celebrava una festa in cui gli animali, simbolo dei vinti, venivano giustiziati. Il popolo in massa seguiva con applausi e grida di eccitazione il macabro rituale. La tradizione perdurò per secoli fino a quando nel 1523 il doge Andrea Gritti abolì l’uccisione dei maiali, mantenendo solo la tradizione del “Taglio della testa del toro” e portando a tre il numero dei tori da sacrificare. La cosa si è poi trasformata in una vera e propria cerimonia che veniva fatta a Carnevale, il giovedì grasso: non si usavano più maiali e pani ma c’erano 3 tori, portati dalle due corporazioni dei Fabbri e dei Macellai, che il giovedì grasso venivano decapitati, questo segnava la chiusura di ogni lotta e dello spettacolo. Da qui la decapitazione del toro diventa quindi il simbolo della fine della diatriba tra i contendenti e da qui deriva il significato di risolvere definitivamente una controversia che si protrae da tempo, dare una fine a una cosa, una discussione, un problema.

Alberta Bellussi

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Non vi fu mai uomo, né cristiano né saracino né tartaro o pagano, che mai cercasse tanto nel mondo quanto feci io. Sono Marco Polo, veneziano, e questi sono i colori, i suoni, le luci e le fragranze del mio viaggio, destinato a continuare. Sono Marco Polo, il viaggiatore, e non ho raccontato neppure la metà di ciò che ho visto”. Il Milione

700 anni fa moriva Marco Polo considerato uno dei più grandi viaggiatori di ogni tempo, un simbolo senza tempo della inestinguibile sete di conoscenza e della necessità di scoperta mai paga degli uomini.

Il grande mercante e viaggiatore Marco Polo si spegneva nel 1324, settecento anni fa, all’età di settant’anni. Era nato a Venezia, anzi sembra in Dalmazia che al tempo era veneziana, nel 1254 da una famiglia di mercanti in affari con Costantinopoli e il Mar Nero. Sarà proprio insieme al padre Niccolò e allo zio Matteo, che Marco Polo, all’età di circa diciassette anni, partì dal sestiere veneziano di Cannaregio alla volta dell’Oriente, lungo quella che poi verrà appellata la Via della seta. Marco Polo viaggiò intraprendendo una strada lunga circa quindicimila chilometri fra andata e ritorno, nelle misteriose terre di Levante con gli occhi colmi di stupore e con la volontà di conoscere le antiche culture orientali. Il viaggio durò ventiquattro anni. In questo quarto di secolo circa, Marco Polo attraversò luoghi mitici come la Cappadocia, il Deserto dei Gobi, il Kashmir, il massiccio del Pamir, e fece tappa nelle città di Trebisonda, Baghdad, Tabriz, Samarcanda, Lanzhou, Karakorum, Pechino, Xanadu, Pagan e Costantinopoli. Frequentò anche la corte di Kublai Khan, nipote del celeberrimo Gengis Khan e Gran Khan del vastissimo Impero mongolo, svolgendo per il sovrano compiti diplomatici. Ritornato in Occidente, nel 1298 l’esploratore finì in prigione, catturato dai genovesi in Asia Minore. In carcere incontrò Rustichello da Pisa che appassionato delle vicende di Polo in Oriente decise di scriverne le memorie – adoperando la lingua d’oïl – dando vita a Il Milione, fra i più conosciuti resoconti di viaggio della storia della letteratura.

Le manifestazioni per celebrare il mercante viaggiatore saranno molte quest’anno a Venezia.

A lui sarà dedicata l’edizione 2024 del Carnevale di Venezia dal titolo “Ad Oriente, il mirabolante viaggio di Marco Polo”.

L’epopea di Marco Polo sarà al centro, anche di una mostra allestita a Palazzo Ducale di Venezia dal 6 aprile. La mostra incentrata sulla vita e le mirabolanti avventure di Marco Polo si chiamerà “I mondi di Marco Polo. Il viaggio di un mercante veneziano del Duecento” e comprenderà molti oggetti già presenti nella collezione della Fondazione Musei Civici di Venezia e tanti tesori provenienti da varie parti del mondo: manufatti, reperti e opere artistiche.

A Marco Polo saranno dedicate anche la mostra L’Asse del tempo. Tessuti per l’abbigliamento in seta di Suzhou al Museo di Palazzo Mocenigo di Venezia.

Alberta Bellussi

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Lo “Schieson  Trevisan” è, sicuramente,  un tassello importante della nostra tradizione perché era presente in tutte le case della campagna trevigiana e rappresentava lo strumento per conoscere il momento giusto per approntare le semine, per fare il buon vino, gli innesti delle piante, e le raccolte, insomma tutte quelle attività utili per programmare l’annata agricola, non per ultimo, la cura della propria persona con decotti ed erbe particolare, anche queste da raccogliere e lavorare in un particolare momento della fase lunare; ma anche fiere, mercati, appuntamenti vari della Marca Trevigiana.

Lo Schieson scandiva, con le lune, i proverbi, i consigli, gli appuntamenti, la vita della società contadina già dal ‘700. Un lunario che ha 307 anni,  è nato nel 1716 ed è l’almanacco più antico d’Italia e d’Europa.

E’ sempre stato consultato per i suoi  “pronosteghi” che raramente ha sbagliato anche alcuni che al leggerli potevano sembrare delle farneticazioni; infatti ha annunciato, nel 1797,  la fine della Serenissima e nel 1989 la caduta del muro di Berlino.

Il nome di questo calendario deriva da quello dialettale di un albero, “s-cieson”, detto anche “pisolera, s-cesson, bessoler”,  in italiano bagarolo o schiacciasassi ed è stato l’ispiratore della prima copia, “Schieson de Casacorba” , dove nasce il Sile, scritto già dal 1716-17 da un prete, si ispirava a questa grande pianta ombrosa che si alzava davanti la chiesa del paese e sotto alla quale la gente si fermava a chiacchierare e discutere.

Il calendario funzionava come una specie di amplificatore delle chiacchiere e delle critiche della gente comune e, siccome i rami flessibili del bagolaro servivano a far fruste, si proponeva anche di bacchettare o fustigare i vizi più comuni.

Dal 1744 il calendario cambiò nome in “Schieson Trevisan” e fu edito da Giovanni Pozzobon, poeta trevigiano che, da garzone di stamperia si dedicò, in età adulta, alla poesia scrivendo versi nel nativo dialetto e componendo almanacchi, che pubblicò per 42 anni dal 1744 al 1786. Tra questi il “Pronostego“, pronostico o poesia sull’anno, ricca di ironia e battute di spirito.

Come scrisse Bartolomeo Gamba, il “popolare libretto” era pieno di “buoni morali insegnamenti, giammai contraddetti da verun espressione sfuggitagli in offesa della Religione o della decenza“. Fortunatissimo divenne il lunario del Pozzobon, tanto che venne tradotto anche in spagnolo, francese e tedesco e stampato in circa 40.000 copie; e quando l’edizione fu meglio ordinata e garantita da un privilegio concesso dal Veneto magistrato dei Riformatori, lo spaccio arrivò fino alle 80.000 copie. Pozzobon modificò la pubblicazione; il suo non fu solo un semplice calendario-lunario in folio da appendere limitato alle notizie metereologiche, lo rese più piacevole con le previsioni sull’anno che divenne, anche, la parte più ghiotta per l’ironia e le battute di spirito.

Nelle campagne di Godega di S. Urbano veniva venduto o regalato ad ambulanti che vendevano filati, aghi, casa per casa con il nome di lunario di “Bepo Gobo da Casier” perché questo è il nome del mago raffigurato poco sotto il nome dell’almanacco nonché autore nominale del Pronostego.

Succedeva che nel giorno della fiera agricola che ricorreva ogni anno la prima domenica di marzo e durava tre giorni, veniva spesso regalato a chi comprava piante o sementi. Il lunario comperato veniva esposto in cucina e quello regalato veniva appeso sulla porta della stalla insieme all’icona di S. Antonio Abate (festività del 17 gennaio), noto con il nome di “Santantoni del porzel“.

Era infatti quello il giorno in cui si macellava un maiale nutrito dalla generosità di tutto il paese, perché veniva comperato dal parroco il giorno di S. Pietro e Paolo (29 giugno) e poi lasciato libero di vagare di casa in casa. Dopo essere stato nutrito dalle famiglie e dalle borgate veniva macellato il 17 gennaio, e la “porzelaria” veniva distribuita ai poveri del paese.

La Fiera di Godega di S.Urbano e tutt’ora la prima fiera importante del bestiame, di piante e sementi dopo l’inverno. C’era allora un proverbio che così recitava: “Chi vol a morosa d’istà ghe compra i fighi al primo marcà ”.. questo perché le bancarelle dei dolciumi vendevano delle corone di fichi secchi, tenuti insieme da uno spago e chiamate in dialetto “morona de fighi” che lo spasimante regalava alla sua bella come segno di preferenza.

Vari editori si succedettero nella stampa del  “Schieson Trevisan”, ed il passare degli anni non solo non l’ha scalfito, ma lo ha reso un simbolo importante della cultura, del mondo agricolo e dell’identità locale. Ora questa importante eredità è nelle mani dell’Associazione Trevisani nel mondo anche perché era il calendario dei nostri avi; quindi rappresenta, ancora oggi, un modo per non dimenticare le origini e sentirsi a casa, anche oltreoceano, conservando gelosamente la propria cultura fatta di storia, usanze, tradizioni locali. Lo Schieson Trevisan rappresenta anche un modo per non dimenticare le nostre origini e  quelle dei nostri emigrati che per sentirsi a casa anche Oltreoceano, conservano gelosamente la propria cultura fatta di storia, usanze, tradizioni locali; è infatti ricercatissimo tra gli immigrati veneti che vivono per il mondo, oltre che nella Marca Trevigiana, che  è persino andato sullo spazio, caricato nello Space Shuttle, assieme ai semi del radicchio, durante la missione STS-95 del 1998, nell’ambito del progetto Sem della Nasa, mirato alla sperimentazione degli effetti della microgravità sui semi e sulle piante.

Lo Schieson Trevisan rappresenta un ponte importante tra passato, presente e futuro, in un foglio dal sapore antico da appendere in un luogo facile da consultare, contiene un concentrato di Veneto:  tradizioni, consigli, previsioni, proverbi simpatici tutto in dialetto e spesso con una rima ironica e simpatica, continuare a tener viva questa tradizione di  “Bepo Gobo” e il suo lunario, giorno dopo giorno; sarebbe bello farlo conoscere e veicolare il suo valore iconico e simbolico  anche i giovani di oggi perché siano anch’essi dei custodi gelosi delle radici del nostro albero e che a loro volta lo continuino a tramandare di generazione in generazione come accade dal 1717.

Alberta Bellussi

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Si parla di Halloween ma in Veneto da secoli esiste l’antica tradizione della ‘suca baruca’ o ‘Lumera, nei giorni dei morti e dei santi,  1-2 novembre, venivano posizionate nei pressi di siepi e cimiteri per attirare le anime dei defunti. Nei secoli scorsi, infatti, nel mondo contadino si usava intagliare le zucche arancioni, per poi inserirci all’interno delle candele; venivano quindi esposte sui davanzali o lungo i fossi e prendevano il nome di “SUCHE BARUCHE” o “LUMERE”. Si credeva che così si illuminasse la strada per le anime dei defunti e confondessero gli spiriti più dispettosi e negativi.

La sera, i ragazzi si divertivano ad andare in giro con queste zucche per spaventare i passanti soprattutto nei pressi dei cimiteri; poi andavano di casa in casa a chiedere frutta secca, nocciole e castagne. La varietà era la zucca Marina di Chioggia, una varietà di zucca tipica del Veneto caratterizzata dalla spessa buccia verde-grigia, rugosa e bitorzoluta… una zucca dall’aria un po’ scontrosa, con quelle sue coste bitorzolute che ricordano molto il viso di vecchie streghe. Non per nulla una delle ipotesi relative al suo nome deriva proprio dall’assonanza fra verruca e barucca. Verruca deriva dal latino veruca, che significa, giust’appunto, escrescenza. Ma ci potrebbe essere anche un’altra strada, che porta alla tradizione ebraica, a quel baruch che significa santo, quasi a santificare la capacità della zucca di sfamare i contadini nel difficile periodo invernale.

L’importante era non vedere una suca baruca quando dentro vi si trovava uno spirito perché si rischiava di perdere il senno.

La sera, i ragazzi si divertivano ad andare in giro con le suche baruche per spaventare i passanti e far loro dei dispetti, appostandosi soprattutto nei pressi dei cimiteri. Poi andavano di casa in casa a chiedere frutta secca, nocciole e castagne e se non ricevevano niente facevano un piccolo scherzo. In alcune zone si indossavano costumi per confondersi con i morti.

In ogni famiglia, inoltre, si preparava “el piato dei morti” con castagne, dolci (i osi dei morti), marroni, fave, patate “mericane” e altre pietanze, che si lasciavano sopra al tavolo della cucina come dono per le anime dei parenti in visita; sopra il comodino si metteva invece un bicchiere d’acqua, di latte o vino. Volendo, cibi e bevande potevano essere lasciati sul davanzale per ristorare le anime.

Un altro aspetto della tradizione prevedeva poi la preparazione di ricette tradizionali e piccoli rituali.

Alberta Bellussi

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Lo sai che a Venezia c’è un cuore rosso di pietra che porta fortuna agli innamorati, per trovarlo bisogna andare nel Sestriere di Castello nel  Sotoportego dei Preti. Dietro a questo cuore c’è una leggenda un po’ particolare che narra come in quel luogo abitasse un giovane pescatore. Una notte mentre tornava dalla pesca trovò impigliato, nelle sue reti, una sirena; la trainò a riva.  Lei disse di chiamarsi Melusina. I due parlarono per molte notti e finì che si innamorano e decisero di sposarsi. La sirena però si fece promettere che non si sarebbero mai visti di sabato prima del matrimonio. Il pescatore accettò, ma preso dalla voglia di vedere la sua amata, un sabato si recò in riva per vederla e trovò un serpente. Il serpente allora raccontò di essere Melusina colpita da un maleficio, dal quale si sarebbe liberata con il matrimonio. I due si sposarono ed ebbero tre figli, ma Melusina morì giovane e il pescatore rimase solo con i tre figli da mandare avanti.

Tuttavia, ogni volta che il pescatore tornava a casa la trovava completamente sistemata. Per capire chi lo aiutasse una sera tornò a casa prima e vi trovò un serpente in cucina, che uccise per lo spavento. Da quel momento la casa non fu più messa in ordine e solo allora egli capì che il serpente era l’anima della sua sirena che tornava ogni giorno per aiutarlo. In ricordo di questi grande amore fu messa appunto nel Sotoportego dei Preti la pietra rossa a forma di cuore che, se toccata, si dice  che porti fortuna agli innamorati.

Alberta Bellussi

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Fin da prima del mille le navi veneziane solcavano il Mediterraneo verso l’Egitto. La stessa leggenda della traslazione delle reliquie dell’evangelista Marco da Alessandria d’Egitto ad opera di Bono da Malamocco e Rustico da Torcello testimoniano l’esistenza di un consolidato itinerario marittimo che collegava Venezia ad Alessandria. Le relazioni diplomatiche e commerciali continuarono per secoli, a testimonianza ci sono dei documenti, datati 1200, che testimoniano gli accordi di pace stretti tra i due stati. I traffici con l’Egitto erano di capitale importanza per Venezia come detto espressamente da Innocenzo III quando, nel 1198, permise di continuare il commercio nonostante fossero in corso i preparativi per la crociata. Olio, vino, miele, frutta, ambra, stoffe, pellicce, vetri e manufatti in legno erano alcuni dei prodotti che i Veneziani, portarono in Egitto, insieme ai famosi ducati che in certi momenti avevano più potere dell’oro. Mentre i Veneziani erano soliti comprare zucchero e datteri, spezie, tessuti.

Ma chi erano i Mamelucchi?

I Mamelucchi erano degli schiavi al servizio dei diversi califfi, impiegati nell’amministrazione e nell’esercito. Essi formavano una vera e propria casta che doveva rispettare un iter ben preciso per poter passare dallo stato di schiavi a quello di cittadini liberi. Per circa due secoli, XIII- XVI sec., i Mamelucchi guidarono l’Egitto e si succedettero a numerosi sovrani. Anche se spesso, si creavano lotte interne e sanguinose ribellioni per la conquista del potere, i Mamelucchi garantirono un periodo di prosperità all’Egitto, favorendo il commercio sul Mediterraneo e con Venezia.

( A proposito di Egitto una piccola curiosità che riguarda le origini della mia famiglia molti secoli sono trascorsi (XVI sec) da quando, come narra una leggenda, una ricca signora venuta da Alessandria d’Egitto, carica d’oro, con cammelli,  largo seguito e con i figli si fermò a Tezze di Vazzola e con la sua progenie diede inizio alla stirpe dei Bellussi).

I MAMMALUCCHI DI CARNEVALE:

I mammalucchi sono, invece, delle frittelle inventate nel 1970, e che in poco tempo sono diventate molto famose a Venezia, in particolar modo durante il periodo del Carnevale.  Questi dolcetti fritti (con crema, uvetta e scorza d’arancia) sono una vera specialità, seppur la storia dietro alla loro nascita sia un po’ meno “romanzata” di quello che si crede. Parola del creatore dei mammalucchi, Sergio Lotto, il quale recentemente ha dichiarato come le sue frittelle non siano nate per errore, tutt’altro. Il pasticcere ha puntualizzato come i suoi mammalucchi siano nati negli anni 70 nella pasticceria Bonifacio, poi la ricetta è stata lasciata anche ai “concorrenti” della Targa. Entrambi continuano a farli. Niente errori insomma, nemmeno l’esclamazione “Che mammalucco che sono stato”, epiteto che Lotto si sarebbe affibbiato per la svista. Il resto è storia: corresse ad occhio le dosi e invece di cuocerlo al forno, come inizialmente previsto, ci aggiunse della crema e finì per friggerlo. Inutile chiedere la ricetta dei mammaluchi non viene diffusa: si sa che gli ingredienti sono farina, zucchero, uova, burro, uva passa e cubetti di arancio e che ad arricchire l’impasto c’è una morbida crema aromatizzata all’arancia.

Il risultato è una preparazione che richiama più alla tradizione araba dei dolci di strada che a quella delle tonde frittelle: la forma infatti è a cilindro, cui la frittura conferisce una doratura perfetta e una croccantezza che non arriva all’interno ma si limita a rendere fragrante la superficie.

Ti xe un mamauco :  si intende una persona stupidotta, sciocca, anche se allo stesso modo a essere definito così è l’impasto un po’ “strambo”, Sergio Lotto l’ha descritto così,  alla base delle frittelle (farina, zucchero, farina burro uvetta e scorza d’arancia).  Non c’è una spiegazione semantica, che rimanda ai soldati delle milizie turche egiziane,  ma fonica; “mammalucco” è una parola il cui suono, nella nostra lingua, già da sé dipinge lo sciocco. La terminazione in “ucco” è propria di diversi spregiativi derisori. I linguisti, in questi casi, parlano di “simbolismo fonetico”: una parola disegna il suo significato col suo suono. Questo fatto ci invita a differenziare il modo di scrivere questa parola a seconda del senso: il mamelucco indicherà più facilmente il nome della milizia, il mammalucco, quello dello sciocco.

Alberta Bellussi