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Si parla di Halloween ma in Veneto da secoli esiste l’antica tradizione della ‘suca baruca’ o ‘Lumera, nei giorni dei morti e dei santi,  1-2 novembre, venivano posizionate nei pressi di siepi e cimiteri per attirare le anime dei defunti. Nei secoli scorsi, infatti, nel mondo contadino si usava intagliare le zucche arancioni, per poi inserirci all’interno delle candele; venivano quindi esposte sui davanzali o lungo i fossi e prendevano il nome di “SUCHE BARUCHE” o “LUMERE”. Si credeva che così si illuminasse la strada per le anime dei defunti e confondessero gli spiriti più dispettosi e negativi.

La sera, i ragazzi si divertivano ad andare in giro con queste zucche per spaventare i passanti soprattutto nei pressi dei cimiteri; poi andavano di casa in casa a chiedere frutta secca, nocciole e castagne. La varietà era la zucca Marina di Chioggia, una varietà di zucca tipica del Veneto caratterizzata dalla spessa buccia verde-grigia, rugosa e bitorzoluta… una zucca dall’aria un po’ scontrosa, con quelle sue coste bitorzolute che ricordano molto il viso di vecchie streghe. Non per nulla una delle ipotesi relative al suo nome deriva proprio dall’assonanza fra verruca e barucca. Verruca deriva dal latino veruca, che significa, giust’appunto, escrescenza. Ma ci potrebbe essere anche un’altra strada, che porta alla tradizione ebraica, a quel baruch che significa santo, quasi a santificare la capacità della zucca di sfamare i contadini nel difficile periodo invernale.

L’importante era non vedere una suca baruca quando dentro vi si trovava uno spirito perché si rischiava di perdere il senno.

La sera, i ragazzi si divertivano ad andare in giro con le suche baruche per spaventare i passanti e far loro dei dispetti, appostandosi soprattutto nei pressi dei cimiteri. Poi andavano di casa in casa a chiedere frutta secca, nocciole e castagne e se non ricevevano niente facevano un piccolo scherzo. In alcune zone si indossavano costumi per confondersi con i morti.

In ogni famiglia, inoltre, si preparava “el piato dei morti” con castagne, dolci (i osi dei morti), marroni, fave, patate “mericane” e altre pietanze, che si lasciavano sopra al tavolo della cucina come dono per le anime dei parenti in visita; sopra il comodino si metteva invece un bicchiere d’acqua, di latte o vino. Volendo, cibi e bevande potevano essere lasciati sul davanzale per ristorare le anime.

Un altro aspetto della tradizione prevedeva poi la preparazione di ricette tradizionali e piccoli rituali.

Alberta Bellussi

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Quando camminiamo   per la campagna nelle gelide giornate d’inverno accade che veniamo travolti da folate di un profumo intenso quasi dal sapore antico. Non c’è ombre di dubbio è proprio lui il fiore di Calicanto. Se ne avete uno in giardino la sua fragranza inebria la sua area circostante.

La piante è proveniente dalla Cina ed è stato importato in Europa nella seconda metà del XVIII secolo; è un arbusto molto particolare, dai rami spogli sottili ed intricati che quando fioriscono, in inverno, si coprono di piccoli e profumatissimi fiori dalla struttura cerosa mentre negli altri mesi dell’anno è ricoperta di foglie.

Generalmente i fiori che sbocciano sono di colore bianco o giallo e ricoprono tutta la pianta dall’alto al basso, con l’interno rosso purpureo.

Il suo nome Calicanto o Calicantus deriva dal greco Chimonanthus, che significa “fiore d’inverno” e secondo le tradizioni è una pianta che risveglia lo spirito ed il corpo; un’eccezione visto che la maggior parte della natura riposa nei mesi più freddi: era di buon auspicio sfregarsi e profumarsi polsi e caviglie al fine di rinforzare e rinvigorire corpo e spirito.

Un’antica leggenda racconta che, in una fredda giornata d’inverno, un pettirosso, stanco e infreddolito, vagava cercando riparo in un ramo per potersi riposare e proteggere dal freddo. Accadde, però, che tutti gli alberi che incontrava durante il volo si rifiutavano di dargli ospitalità finché stremato giunse nei pressi di un calicanto il quale, alla vista del piccolo uccellino, decise di dargli riparo e con le sue ultime foglie ingiallite provò a scaldarlo. Il Signore, che aveva visto il bel gesto, volle ricompensare la pianta di calicanto, facendo cadere sull’albero una pioggia di stelle brillanti e profumate. Fu così che da quel momento il calicanto è fiorito solo in inverno.

Alberta Bellussi

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Entrare nella Basilica di San Marco è un po’ come uno scrigno pieno di segreti, curiosità e magia. La Basilica di San Marco è la basilica più bella del mondo che viene chiamata anche Cattedrale d’Oro grazie alle migliaia di tessere in oro che compongono i vari mosaici dei soffitti, uno stile che fonde il romanico e il bizantino: una croce greca con una grande cupola centrale e quattro cupole laterali.  Quando si entra si viene avvolti da un abbraccio dorato: più di 8.000 metri quadrati di mosaici in oro ricoprono il soffitto della Cattedrale. Ma anche il pavimento è poesia pura: è composto da straordinari mosaici in marmo realizzati nel XII secolo, con geometrie, forme, animali e tantissimi simboli decorativi e qualche piccolo segreto.

Proprio nel pavimento è celata una bellissima storia romantica, la storia d’amore tra il Doge Francesco Erizzo e Venezia.

Francesco Erizzo nel corso della sua vita ricopri vari ruoli pubblici come quello di provveditore, nel 1631 fu designato doge, con plebiscitaria votazione.

Occupò il trono dogale per cinque anni e fu un periodo abbastanza tranquillo, nel corso del quale poté proclamare la fine della pestilenza.  Sotto il suo dogato venne fatta la costruzione della grande chiesa votiva della Salute (fu lui a incaricare Baldassare Longhena, dal momento che il suo predecessore, Nicolò Contarini, non fece in tempo).

Nel 1645 ebbe però inizio la guerra di Candia, lunga e difficile , i cui esordi non furono certo favorevoli alla Repubblica; fu probabilmente nella speranza di  stimolare gli animi a reagire  che il Senato, il 7 dicembre, offrì al vecchio doge il comando supremo delle operazioni.  Lui accetto per amore e devozione verso questa città ma il compito era chiaramente superiore alle sue risorse fisiche e l’ansia e l’impegno dei preparativi ne affrettarono la morte, che lo colse a Venezia il 3 genn. 1646.

È sepolto nella chiesa di S. Martino di Castello, in uno sfarzoso monumento ch’egli s’era fatto erigere,

Aveva un desiderio che lasciò per testamento. Voleva che il suo cuore, per esprimere il suo forte amore e totale attaccamento a Venezia,  fosse sepolto a San Marco: «[…] il cuore alla Patria e che sia sotterrato in alcun angolo dell’altar maggiore della chiesa ducale di San Marco…».

Quindi quando salite verso l’altar maggiore di San Marco dalla parte sinistra, guardate il pavimento, sotto una lapide si trova una piccola urna elegante che ne contiene il suo cuore.  A indicare il luogo esatto, si trova una piastra di marmo che reca al centro un cuore di porfido, che a sua volta contiene un piccolo corno dogale sovrastante un piccolo riccio che deriva dall’assonanza tra ‘riccio’ ed ‘Erizzo’: il simbolo degli Erizzo.

Alberta Bellussi

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L’Isola della Certosa, 24 ettari a nord ovest da Venezia dal cui centro dista poche centinaia di metri e pochi istanti di barca, ha ospitato nei secoli passati un complesso monastico di cui si vuole oggi recuperare la memoria, e in età napoleonica fu convertita a uso militare: un forte. L’sola della Certosa è un luogo  di chiese e monasteri fin dal 1422, oggi rimangono  poche rovine. L’isola si trova a NE della città di Venezia, tra San Pietro di Castello e il Lido. Un canale largo una ventina di metri la separa dall’isola delle Vignole. Fu sede di un monastero Agostiniano fin dal 1199 e ceduta in seguito ad una comunità di Certosini (1424).

Dopo anni di abbandono, la rinascita con il velista Alberto Sonino, della società Vento di Venezia che gestisce da una decina d’anni l’isola e la darsena Venezia Certosa Marina. Tra gli obiettivi c’è anche il recupero della Certosa stessa. Un edificio di pregio che testimonia la lunga storia religiosa dell’isola in cui abbiamo trovato anche opere d’arte e reperti archeologici.

Oltre ai monaci, nell’isola vi era una comunità di agricoltori che coltivavano l’isola a vigneti e orti.

Una leggenda vi vuole però sepolto il tesoro della Zecca di Venezia.

ll 12 maggio 1797 Napoleone occupa Venezia. È la prima volta nella sua lunga storia che la città cade in mani nemiche e subisce un saccheggio di proporzioni colossali, si parla del 70-80% dei suoi beni artistici razziato. Su un tesoro però i nuovi padroni non riescono a mettere le mani: l’oro della Zecca di Stato. Forse per questo hanno poi utilizzato la Zecca per fondere l’ingente patrimonio delle reliquie, per lo più bizantine, in possesso di chiese e monasteri veneziani soppressi.

Tre senatori, d’altrettante nobili famiglie, sovrintendevano al funzionamento del cuore monetario della Repubblica e questi, probabilmente prima della capitolazione ai francesi, devono aver pensato di mettere tali sostanze al sicuro, dove i nuovi occupanti non andassero a frugare. Tra le varie ipotesi sul nascondiglio del tesoro, una si incentra sull’isola della Certosa, una delle più belle e curate della laguna a quel tempo, che godeva dell’attenzione delle più eminenti famiglie le quali l’avevano eletta a loro Pantheon. Pare quindi che il Savio Cassier con i suoi collaboratori possedessero qui, nel chiostro piccolo, dei loculi e proprio di questi si siano serviti per occultare il tesoro della Serenissima, in attesa di tempi migliori.

Chissà poi che strade avrà preso il gruzzolo nascosto di cui non si fa più cenno in alcun documento. Forse i nobiluomini disperando in un ritorno della Serenissima all’antica gloria, se lo sono spartito fra loro o forse la fortuna giace ancora sepolta da qualche parte sull’isola…

Per questo si ritiene che ancora oggi, sull’isola, una vera fortuna in oro attenda ancora di essere scoperta. Da qualche parte in questo parco potrebbe essere nascosto un tesoro grandissimo.

Alberta Bellussi

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Nel paesaggio autunnale sono i colori delle foglie a rubare il nostro sguardo e a rendere i giardini e i viali una tavolozza di colori dal verde, al giallo, al rosso, al marrone. Foglie, foglie di tutti i colori sugli alberi e sul suolo ma c’è un frutto arancione che colora l’autunno e l’inverno delle nostre campagne: il caco.

Il cachi è uno dei frutti autunnali per eccellenza, dotato di numerose proprietà nutritive, si dice che se vuoi vivere più a lungo, ne dovresti mangiane parecchi!

Per i cinesi considerato l’albero delle sette virtù: è infatti longevo, ottimo per far nidificare gli uccelli, fa molta ombra, la legna è molto buona da ardere e ancora il fogliame produce concime di ottima qualità, raramente viene attaccato dai parassiti e poi è esteticamente bellissimo grazie ai suoi frutti colorati.

La conosci la leggenda contadina per la quale dentro i semi di caco è possibile trovare una delle tre posate che suggerisce come sarà il tempo durante l’inverno?

Si prende il seme contenuto nel caco lo si taglia longitudinalmente e si osserva la posata impressa dentro che ci darà il suggerimento di come saranno le previsioni meteo sull’inverno.

In particolare se la forma assunta dal germoglio somiglia a

la forchetta indica un inverno mite;

il coltello indica un freddo pungente;

il cucchiaio un inverno con abbondante neve.

A me è uscito un cucchiaio e a voi?

Alberta Bellussi

 

 

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Burano è nota al mondo per la delicatezza e l’eleganza dei suoi preziosi merletti.

L’isola si trova nella laguna di Venezia ed è un luogo magico: piccole casette colorate, biscotti buonissimi, ristorantini con le migliori specialità di pesce… e soprattutto merletti!

Molto spesso nella tradizione popolare sono le leggende e racconti tramandati oralmente a contenere piccole perle di letteratura sulle origini di usi e costume; questo accade sin dai tempi più antichi.

Le merlettaie sono davvero un’attrazione dell’isola e anche le più grandi case di moda internazionali si sono spesso servite di questi finissimi ricami.

Una romantica leggenda narra che un tempo lontano a Burano abitasse un pescatore di nome Nicolò, bello e affascinante, tanto da essere lo scapolo più ambito dell’isola.

Tutte le ragazze lo volevano ma lui aveva occhi solo per Maria, la donna che amava follemente.

Pochi giorni prima delle nozze Nicolò si trovava in mare a pescare quando cominciò a sentire un canto dolcissimo… Di lì a poco la sua barchetta era circondata da un gruppo di donne bellissime: le affascinanti Sirene.

Il buranello, come novello Ulisse, non si fece incantare e pensò a quanto grande era l’amore suo per Maria nessuna donna gli aveva fatto battere il cuore come lei e resistette al richiamo suadente per amore della sua bella.

La Regina delle Sirene, ammirata dalla prova di fedeltà del pescatore colpì con la coda il fianco della barca sollevando una massa candida di schiuma che formò un magnifico velo da sposa fatto come un merletto finemente ricamato.

Nicolò donò l’oggetto alla sua sposa il giorno delle nozze e Maria, brillava di gioia e amore con al capo il suo splendido merletto.

Il giorno delle nozze fu tanta l’ammirazione che suscitò questo prezioso dono che le donne di Burano con l’ago e un filo sottilissimo impararono a confezionare un tessuto che fosse all’altezza del dono fiabesco.

Nacque così il merletto di Burano!

Alberta Bellussi

 

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Come molti detti popolari, la vecchia pratica di “contare le pecore” per addormentarsi arriva  dall’eredità contadina della nostra storia ma da dove deriva più precisamente questa conta “ovina”?

Ce lo racconta una storia che vede protagonista Ezzelino da Romano, ed è raccolta in un libro di fine Duecento intitolato ‘Il Novellino’ e da allora divenne consuetudine contare le pecore per riuscire ad abbandonarsi tra le braccia di Morfeo…

Ezzelino Da Romano era il signore della Marca Trevigiana in epoca medioevale che, grazie alla sua abilità politica e alla violenza con cui si gettava in battaglia, conquistò molte città del Nord-Est italiano, accattivandosi anche il favore dell’Imperatore Federico II di Svevia, uno degli uomini più potenti d’Europa.

A causa del suo temperamento focoso Ezzelino era sempre irrequieto e soffriva di un’inguaribile insonnia che gli impediva di dormire, anche solo per poche ore.

Per distrarsi durante le lunghi nottate in bianco allora, Ezzelino prese presso di sé un cantastorie che lo intrattenesse con canzoni e storielle; il cantastorie, però, dopo qualche tempo non riusciva più a sostenere tutte quelle ore senza riposo ed escogitò uno stratagemma.

Era talmente sfinito che una sera, quando Ezzelino gli intimò di narrare un’altra storia, questi iniziò a raccontare una vicenda il cui protagonista era un contadino proprietario di cento bisonti che lì portò al mercato per scambiarli con delle pecore, due per ognuno di questi.

Durante il suo ritorno, il villano si accorse che, a causa di un forte temporale, il fiume che avrebbe dovuto guadare si era ingrossato a tal punto da impedirgli il passaggio. L’unico modo per attraversalo era quello di utilizzare la barca sgangherata di un pescatore nella quale poteva entrare solo lui e una pecora per volta.

 Il contadino non si perse d’animo: caricò la prima pecora sulla barchetta e cominciò a remare. Con forza e pazienza riuscì a raggiungere l’altra sponda, mise giù la prima pecora e tornò indietro per recuperarne un’altra e così via…mentre parlava, il cantastorie si addormentò.

Ezzelino, infastidito, lo scosse e gli intimò di continuare il racconto ed andare oltre. Ma il favolatore rispose: “Messere, lasciate prima passare tutte le pecore una ad una, poi proseguiremo a raccontare la storia!”.

A quelle parole, Ezzelino da Romano rise e pensò che ci sarebbe voluta tutta la notte perché tutto il gregge passasse all’altra sponda del fiume!

Così per quella notte il cantastorie poté finalmente addormentarsi a un’ora consona e riposarsi e Ezzelino si mise a contare le pecore che guadavano il fiume una ad una.

Alberta Bellussi

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l Lago di Misurina è, sicuramente, uno dei laghi più belli d’Italia.

È un lago naturale che si trova nel Cadore, in provincia di Belluno, a 1.754 metri di altitudine ed è molto grande. Ha un perimetro di 2,6 chilometri ed è profondo circa 5 metri. D’estate è un’importante meta di turismo, ma anche in inverno solitamente il lago si ghiaccia completamente e diventa completamente calpestabile. Questo lago oltre ad essere famoso per le proprietà benefiche della sua acqua che rende l’aria curativa per chi soffre di disturbi respiratori, custodisce la sua origine in una delle più famose leggende delle Dolomiti.

La conoscete?

La leggenda narra la storia di Misurina, figlia unica del re Sorapiss, governatore delle terre comprese tra le Tofane, l’Antelao, le Marmarole e le Tre Cime di Lavaredo.

Misurina era una bambina viziata, molto capricciosa e dispettosa, ma era anche una bambina molto graziosa.

Per il re Sorapiss, rimasto vedovo, era l’unica ragione di vita. Il re giustificava quindi il comportamento della bambina dando la colpa di tutto alla sofferenza che la piccola provava per la mancanza della figura materna.

Al compimento dell’ottavo anno di età, Misurina venne a conoscenza dell’esistenza di una fata che viveva sul Monte Cristallo e che possedeva uno specchio magico, il quale dava il potere di leggere i pensieri di chiunque vi si specchiasse. Misurina supplicò lungamente il padre affinché le procurasse lo specchio, che desiderava a ogni costo, finché Sorapiss cedette e l’accompagnò. La fata resistette a lungo, perché non voleva accontentare quella bimba capricciosa ma, di fronte alle lacrime di Sorapiss, finì per acconsentire, ponendo però una condizione, nella speranza che il re e sua figlia rinunciassero. La fata possedeva un bellissimo giardino ricco di fiori stupendi sul Monte Cristallo, ma l’eccesso di sole li appassiva prematuramente.  Sicché chiese, in cambio dello specchio, che Sorapiss accettasse di essere trasformato in una montagna, che proteggesse con la propria ombra il giardino della fata. Il re acconsentì.

Quando Misurina ricevette lo specchio e venne informata del patto, non si scompose, anzi, si mostrò entusiasta all’idea che suo padre, per renderla felice, diventasse una montagna, sulla quale lei avrebbe potuto correre e giocare. Ma in quello stesso istante, mentre Misurina contemplava lo specchio, Sorapiss cominciò a trasformarsi, gonfiandosi e cambiando colore: i capelli divennero alberi e le rughe crepacci.

Misurina si accorse improvvisamente di trovarsi in alto, sulla montagna che era stata suo padre e, rivolgendo lo sguardo in basso, fu colta da un capogiro e precipitò nel vuoto. Il re Sorapiss, nei suoi ultimi istanti di vita, dovette così assistere impotente alla tragica morte di sua figlia, sicché dai suoi occhi ancora aperti sgorgarono così tante lacrime da formare due ruscelli, i quali si raccolsero a valle formando un immenso lago, che prese il nome di Misurina. Lo specchio, cadendo, si infranse tra le rocce e i frammenti furono trascinati a valle dai ruscelli di lacrime del re, dove ancora oggi danno riflessi multicolori e che rendono ancora oggi il Lago di Misurina un luogo unico al mondo.

Alberta Bellussi

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I boschi del Montello, il Cansiglio, i boschi vicino al Piave e non solo, un po’ in tutto il Veneto vi sono luoghi di misteri e leggende tramandate oralmente, di generazione in generazione, fin dall’origine dei tempi.

Si racconta infatti che tutta la zona sia stata, da sempre abitata, da creature magiche tipiche del folklore veneto come: fate, anguane, draghi, spiritelli vari e anche il Diavolo, o altri piccoli diavoletti scontrosi e antipatici in una sorta di contrapposizione continua tra bene e male

Ma non li avete mai visti?

Può essere perché sono discreti e timidi non amano farsi vedere dai comuni mortali, tanto che, dato che nei boschi sono presenti fenomeni carsici che creano spesso doline e grotte, si nascondono quasi tutto il giorno da occhi indiscreti e curiosi per uscire al tramonto e di notte.

Ma da cosa hanno origine queste leggende magiche e fantastiche?

Probabilmente la fauna della zona, ricca di aquile reali, gufi reali (tipici portafortuna nella storia mondiale), pippistrelli, rapaci vari, scoiattoli, ghiri, volpi, donnole, faine, oltre a tassi, daini, caprioli, cervi e cinghiali ma anche di una flora molto ricca e variopinta.

Proprio a questa flora appartiene la pianta dei “Mamai”, chiamati anche “Lino delle Fate”.

Si presentano con un fusto che arriva anche a 60 centimetri e proprio in questo periodo, estivo, la pianta fiorisce mettendo pennacchi piumosi attorcigliati alla base.

Il pennacchio, bagnato nel latte di calce ed esposto al sole, diventa presto vellutato come la pelle di gatto, o pelliccia morbida che si dice “mamao” appunto in dialetto veneto.

Il nome con il quale sono invece, universalmente conosciute queste piante, è Stipa pennata ma spesso viene chiamata anche “Lino delle fate”.

 Perché?

La leggenda vuole che le fate, alla ricerca di tessuti speciali per i loro splendidi abiti, scendano a valle dalle loro foreste incantate per cogliere i lunghi fiori piumosi di questa particolare pianta, per poi tessere le loro vesti argentate e luccicanti.

“La festa dei Mamai si svolge da moltissimo tempo nel paese di Moriago, lungo le rive del Piave,  e potete provare a cercarle: dicono che lascino alle loro spalle un luccichio di polvere magica e un intenso profumo di fiori…

Alberta Bellussi

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Le Anguane:  non ne avevo mai sentito parlare, devo ammetterlo, conoscevo il Mathariòl,  ma loro no e domenica durante una visita guidata ad un castello le ho conosciute, ne sono rimasta affascinata, e mi sono subito messa a cercare più cose possibile di loro.

La provincia di Treviso è una provincia di acque… l’acqua del Piave ha un valore molto importante per i territori che attraversa e per le sue genti.  Dalle acque sotterranee del Piave, vicino al Montello, hanno origine anche le sorgenti del Sile, l’altro grande fiume che attraversa la provincia di Treviso.

Il Sile ha una temperatura costante; l’acqua sempre limpida anche in città e la scorrevolezza continua.

Ci sono delle creature mitologiche che proteggono le acque trevigiane e si chiamano “Anguane”, una sorta di ninfe che, nelle leggende , assumono una  forma simile alla sirena, specie nel basso Piave e basso Sile, ma non solo, proteggono anche le acque di molti altri posti nel Veneto.

Ma chi è l’Anguana?

Sono creature che vivono vicino alle sorgenti, caverne o altri ambienti acquatici, come si capisce dall’origine etimologica del loro stesso nome, che viene fatto derivare dal latino Acquaneae, cioè abitatrici dell’acqua.

Dalla vita in su sono delle bellissime fanciulle, dalla vita in giù hanno corpo di anguilla o di pesce.

Secondo  altre varianti montane presentano semplicemente dei piedi rovesciati oppure, per probabile contaminazione con la figura mitologica del Mathariòl, hanno gambe caprine.

La metà umana presenta delle caratteristiche particolari; la pupilla dilatabile come gli animali notturni; sono a sangue freddo; la loro pelle è viscida e la folta chioma è costituita da alghe filiformi.

Stanno ritirate durante tutto il giorno, escono all’imboccatura delle grotte o fuori dalle sorgenti al tramonto, a lavare i panni e a cantare.

Il loro canto è ammaliante. Per sottrarsi al loro fascino gli umani devono indossare dei girocolli fatti con virgulti di viburno intrecciati.

Vengono descritte come perfette massaie, eppure la liscia della Anguane era riferita al bucato mal riuscito perché erano abituate a lavare i panni di notte, e anche ricamare lenzuola e fazzoletti, conservati dagli uomini che se ne innamoravano.

Brave madri anche se capaci di uccidere lefanciulle delle quali erano invidiose; mogli devote ma che scomparivano se lo sposo ne pronunciava il nome leggendario.

Ci sono due interpretazioni; la prima è che le Anguane siano personificazioni mitiche dell’ambivalenza dell’acqua. Se questa, da un lato, è vista come fonte di vita e di allegria, dall’altra è certo anche una potenziale occasione di morte. La seconda indica il fortissimo legame con una figura di madre controversa, complessa e articolata, parte di quel mito della fertilità e della figura materna che accompagna da sempre l’uomo.

Alberta Bellussi