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Il Carnevale di Venezia del 2025 è dedicato ai 300 anni dalla nascita di Giacomo Casanova, ci sono molte feste, serate a tema.

Avventuriero, scrittore, alchimista, diplomatico, spia e soprattutto grande amatore.

Il nome di Giacomo Casanova ha attraversato i secoli rappresentando una filosofia di vita per molti aspiranti libertini. La sua vita amorosa a dir poco movimentata lo hanno reso famoso più delle sue opere letterarie. Il suo scritto più importante resta Histoire de ma vie (Storia della mia vita), in cui ha tramandato ai posteri il racconto di tutti i suoi viaggi, avventure, ma soprattutto incontri galanti con avvenenti donne.

Giacomo Girolamo Casanova nasce a Venezia il 2 aprile 1725. Suo padre Gaetano era un attore e ballerino parmigiano di remote origini spagnole. La madre, Zanetta Farussi, era un’attrice veneziana di successo, menzionata persino da Goldoni nelle sue memorie.

Rimasto orfano di padre a soli otto anni ed essendo la madre sempre in viaggio, Casanova viene allevato dalla nonna materna. È proprio in questi anni che cresce il suo interesse per le pratiche di magia. Infatti, la parente lo porta da una fattucchiera per guarirlo da diversi disturbi di salute.

A nove anni sarà mandato a Padova, dove rimane fino alla fine degli studi. Nel 1737 si iscrive all’università, laureandosi in Diritto. Terminati gli studi, Giacomo Casanova va a Corfù e a Costantinopoli. Rientra a Venezia nel 1742, dove ottiene un incarico presso l’avvocato Marco da Lezze. La morte della nonna Marzia Baldissera, sua guida dell’infanzia, lo destabilizza, tanto da farlo finire nel Forte di Sant’Andrea per condotta turbolenta.

Vaga dalla Calabria ad Ancona, dove le avventure amorose gli costano spesso rimproveri e cambi di datore di lavoro. Nel 1744 finisce in quarantena, dove intesse una relazione con una schiava greca, alloggiata nella camera sopra la sua. La sua condotta, aggravata delle sue posizioni di libertinaggio, gli vale la persecuzione degli inquisitori veneziani. Ottiene una condanna, alleggerita dalle sue amicizie nel patriziato, che forse ne agevola anche l’evasione. Dopo un primo tentativo fallito, attraverso un foro nel soffitto praticato da un compagno di reclusione, il frate Marino Balbi, esce dal tetto per rientrare nel palazzo e uscirne come un comune ospite rimasto intrappolato dopo l’orario di visita. Una gondola lo porta lontano e, nonostante questo, dà il via all’inseguimento. Fugge a Bolanzo, per poi dirigersi fino a Monaco di Baviera, Augusta, Strasburgo e Parigi, dove lo accoglie l’amico De Bernis. Nel corso della sua vita Casanova è riuscito a sedurre un numero incalcolabile di donne. Tra le tante avventure vissute, ce n’è una che risulta più curiosa anche rispetto alle altre. Durante il suo secondo soggiorno ad Ancona, Casanova conosce Bellino, dalla natura un po’ ambigua, da  lei ha anche un figlio illegittimo, Cesarino Lanti.

Il più grande amore della vita di Casanova è Henriette, una donna anticonformista e coraggiosa. Questo nome nasconde in realtà l’identità di una nobildonna di Aix-en-Provence, forse Adelaide de Gueidan. I due si incontrano durante il carnevale 1749, mentre lei sta fuggendo vestita da ufficiale, colpevole di aver abbandonato il tetto coniugale. I due trascorrono un infuocato periodo in fuga tra Parma e Roma, per poi incontrarsi in altre due occasioni in cui lei finge di non conoscerlo.

Il caso più clamoroso è quello che riguarda la relazione di Casanova con suor M.M. e i conseguenti rapporti con l’ambasciatore di Francia De Bernis. Dal punto di vista stilistico è uno dei momenti più intensi delle memorie. Il ritmo del racconto, serratissimo, e la tensione emotiva dei personaggi hanno fatto pensare che si tratti di un passaggio completamente inventato. Ma alcuni studiosi, pur non riuscendo a identificare la donna, lo hanno certificato come veritiero.

Dopo la sua fuga dai Piombi di Venezia, a Parigi conosce la marchesa d’Urfé, nobildonna ricchissima e stravagante, con la quale intrattiene una lunga relazione, spendendo in lungo e in largo il denaro che lei gli mette a disposizione. Nella sua biografia Casanova menziona molte avventure, alcune presumibilmente romanzate o addirittura inventate. Ma, tirando le somme, l’autore è arrivato a menzionare più di 120 donne sedotte. Per lui non era tanto il farle cadere, quanto la capacità e la volontà di amare veramente le donne che conquistava, insieme al piacere di essere ricambiato.

Alberta Bellussi

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Il Veneto è una terra ricca di fate e streghe, orchi e salbanèlli, anguàne e mazzariòi, e poi leggende che pullulano di santi e di mostri, e di storie di fantasmi e di luoghi misteriosi da scoprire; vicende amorose belle e drammatiche tanto da aver ispirato anche William Shakespeare, storie fantastiche dolci o tragiche frutto di oltre due millenni di trasmissione orale che diventano poi tradizione popolare. Tutto ciò ha come sfondo i vari paesaggi del Veneto, dalle Dolomiti ai fondali della laguna, dai sontuosi castelli alle ville meravigliose, dalle calli di Venezia ai boschi.

Ecco l’elenco di alcuni luoghi dove ci sono queste presenze misteriose che non trovano mai pace.

In provincia di Treviso:

Il Santuario di Santa Augusta a Vittorio Veneto: la leggenda di Santa Augusta è legata alla tragica storia di una giovane martire uccisa dal padre, re Matrucco, per essersi convertita al cristianesimo. Dopo terribili torture, tra cui l’essere bruciata viva e rotolata giù da una collina, fu infine decapitata. Il santuario fu costruito nel luogo in cui furono ritrovate le sue ossa. Secondo la tradizione, chi introduce la testa in un foro dietro l’altare può guarire dall’emicrania, e passando tra due colonne si può curare il mal di schiena.

Il Castello di Collalto: Il fantasma di Bianca, murata viva per amore, si dice infesti il castello. Il suo pianto si ode nelle notti di luna piena, quando la sua figura appare sui bastioni. La leggenda dice che il suo spirito è condannato a vagare per sempre, incapace di trovare pace. Il castello risale all’XI secolo e divenne un’importante roccaforte della famiglia Collalto, che esercitò grande influenza sulla regione durante il Medioevo.

Nella Chiesa di Santa Caterina a Treviso, si dice che lo spirito di una giovane monaca, morta misteriosamente, appaia durante la notte. La leggenda narra che la monaca fosse innamorata di un uomo, motivo per cui venne punita severamente. Alcuni affermano di averla vista inginocchiata davanti all’altare, pregando in silenzio con lacrime di dolore.

In Provincia di Venezia:

A Palazzo Contarini del Zaffo si racconta che una nobildonna tradita dal marito vaghi per le sale del palazzo durante le notti di tempesta. La sua figura appare tra le finestre e i vetri, e il suo lamento si unisce al rumore della pioggia. Costruito nel XV secolo, il palazzo fu un importante centro politico e culturale durante la Serenissima e ospitò numerosi nobili veneziani.

La “Malcontenta”, come è conosciuta Villa Foscari, prende il suo nome da una nobildonna che, secondo la leggenda, venne segregata nella villa per i suoi comportamenti scandalosi. Si dice che il suo spirito infelice vaghi ancora per le stanze, portando con sé un’aura di malinconia. Molti visitatori sostengono di sentire la sua presenza, avvertendo improvvisi cambiamenti di temperatura e rumori inspiegabili.

L’Isola di Poveglia nella laguna veneta, utilizzata come lazzaretto dal XIV secolo, divenne poi una struttura per malati mentali. È stata abbandonata negli anni ’60 ed è considerata uno dei luoghi più infestati del mondo. I fantasmi dei malati di peste e dei pazienti del manicomio sembrano infestare l’isola. Molti credono che l’isola sia una porta per l’aldilà, dove le anime tormentate non trovano pace.

In provincia di Padova:

Il Castello di Monselice è conosciuto per le sue antiche prigioni, dove si narra che prigionieri torturati non abbiano mai lasciato il castello. Di notte, si sentono passi e lamenti che riecheggiano tra le antiche mura. Molti visitatori raccontano di aver visto figure spettrali vagare nei corridoi, aumentando il fascino sinistro del castello.

Il Castello di Valbona con la sua pianta rettangolare, le torri esagonali e le mura merlate, è uno dei fortilizi meglio conservati del territorio euganeo. Risalente al Duecento, fu più volte distrutto e ricostruito, divenendo un baluardo difensivo sotto i Carraresi. Secondo la leggenda, il fantasma della figlia di Germano Ghibelli, signore del castello, vaga tra i merli in lacrime, dopo la sua tragica morte per amore non corrisposto. Oltre alla sua funzione militare, il castello fu per secoli un centro di commercio e amministrazione per la regione circostante.

La Basilica di Sant’Antonio è famosa per una curiosa leggenda: si dice che il diavolo abbia lasciato l’impronta di uno zoccolo su un mattone. Tuttavia, l’impronta somiglia più a una ciabatta. In realtà, si narra che furono i ciabattini padovani, che contribuirono a completare i lavori della basilica, a lasciare questo segno come simbolo del loro aiuto.

Il Castello di Torlonga anche conosciuto come la Torre Ezzelina, è legato alla storia di Ezzelino III da Romano, un crudele signore che terrorizzò la regione. Il suo spirito inquieto, così come quelli dei suoi prigionieri torturati, si dice infestino la torre. Costruito come torre di avvistamento, il castello fu parte di un complesso sistema difensivo durante il Medioevo.

In provincia di Verona:

 A Villa del Bene sembra che un vecchio proprietario della villa, Benedetto del Bene, non sembra voler lasciare la sua dimora. Oggetti che si spostano da soli e apparizioni fugaci raccontano la presenza di un’anima irrequieta. Gli abitanti del luogo evitano la villa di notte, convinti della sua natura infestata. Si dice che il fantasma appaia nelle stanze della villa, disturbando la quiete notturna.

A  Villa Fraccaroli si narra la tragica storia di una giovane serva assassinata che  ha legato il suo spirito alla villa. Si manifestano suoni inspiegabili e apparizioni misteriose, rendendo Villa Fraccaroli una meta da brividi. La villa, costruita nel XIX secolo, rappresenta uno dei migliori esempi di architettura nobiliare della campagna veronese e fu residenza di importanti famiglie dell’epoca.

Infine in provincia di Vicenza:

Al Fontanasso Dea Coa Longa: in una foresta oscura presso Fontanasso, si narra che il fantasma di una donna, conosciuta come la “Dea Coa Longa”, appaia con una lunga coda di serpente. La leggenda racconta che la dea protegga la zona e punisca coloro che si avventurano troppo in profondità. Questo luogo, un tempo parte di un antico bosco sacro, è ricco di storia e leggende legate a culti precristiani che hanno influenzato le tradizioni locali.

Alberta Bellussi

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Da una leggenda deriva pure il nome di Lavaredo delle tre cime dolomitiche che da Longères svettano splendenti nel cielo e che soltanto da Auronzo si possono ammirare in tutta la loro maestosità e in tutta la loro magnificenza. E la leggenda dice così.
Un gigante, di nome Lavaredo, che abitava su quegli altissimi monti, si era perdutamente innamorato di una bellissiffia fanciulla. Era costei la principessa Val d’Ansiei, che, con la sua voce armoniosa e squiilante, cantava le canzoni della montagna deliziando la valle percorsa dal fiume Ansiei.
Ma la vezzosa principessa non poteva corrispondere l’amore di Lavaredo perchè amava un altro gigante e da questo amore nacque un figlio, al quale venne dato il nome di Auronzo.
L’amore del gigante fu di breve durata; il crudele infatti abbandonò ben presto la bella principessa.
Il loro figlio, Auronzo, scese nella valle e fissò la sua abitazione nel punto dove sorse il paese che da lui prese il nome.
Però il gigante Lavaredo continuava ad amare la principessa Val d’Ansiei e, in virtù di questo suo immenso amore, decise di offrire al figlio della donna amata un gruppo di crode il più bello che fosse esistito.
E il buon gigante si mise all’opera, spaccando crode e ghiaioni con un enorme marlello e scolpendoli poi con uno scalpello smisurato. Dopo un lungo e faticoso lavoro, potè infine incidere e modellare nella roccia tre altissime cime, la cui simmetria riuscì tanto armonica e meravigliosa da rendere questo gruppo di crode unico al mondo. Si accinse quindi al lavoro di cesellatura delle tre cime, intagliate con tanta cura e tenacia, ma il generoso gigante non potè terminare che la più piccola, perchè gli mancarono le forze, e ormai sfinito dalla dura fatica cadde affranto per non rialzarsi più. E sul suo corpo inerte rotolarono i sassi da lui stesso scavati, fino a ricoprirlo. Il suo braccio destro, con la mano che aveva compiuto l’opera ardita e stupenda, dette la forma ad un’ampia forcella, alla forcella di Lavaredo. Fu così che di queste tre cime meravigliose, una, la Piccola, venne finita, mentre le altre due, la Grande e la Ovest, non poterono essere che abbozzate.
In seguito esse portarono il nome del buon gigante che le aveva ideate, scolpite e modellate e precisamete le Tre cime di Lavaredo.
Ed Auronzo, il figlio della principessa Val d’Ansiei, al quale Lavaredo aveva dedicato la sua opera sublime, dal fondo della valle potè ammirare in eterno questo vero capolavoro di incomparabile magnificenza.
Alberta Bellussi

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In questi giorni capita di veder volare leggeri e leggiadri degli uccellini piccoli con il petto rosso acceso: sono appunto i Pettirossi.

C’è una tenera leggenda che racconta perché il suo petto ha questo colore acceso che lo fa riconoscere a prima vista. Si racconta che un giorno, un piccolo uccellino marrone, si rifugiò nella stalla a Betlemme insieme alla Sacra Famiglia.
L’inverno era freddo e la neve ricopriva ogni cosa, la stalla era gelata e l’uccellino si accorse che il fuoco che li teneva al caldo stava per spegnersi.
Fu così che volò accanto alla brace e, muovendo ininterrottamente le ali per tutta la notte, riuscì a tenere acceso il piccolo focolare.
Al mattino seguente fu ricompensato da Gesù Bambino, che lo premiò con un petto rosso , proprio come quella brace che aveva tenuto accesa, e che divenne il simbolo del suo grande amore.
Da quella volta, il piccolo uccellino fu conosciuto da tutti col nome di Pettirosso, ed è lui che annuncia l’arrivo dell’inverno e delle festività Natalizie.
Alberta Bellussi
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Il Meschio nasce alle pendici del M.te Visentin a Savassa Alta, frazione di Vittorio Veneto, entra a S.Giustina e attraversa Serravalle nei pressi del vecchio ospedale dove con i suoi caratteristici “meschet”, canali provenienti dal corso principale, attraversano tutto il territorio comunale.

La sorgente di origine carsica è costituita da un bacino, chiamato “brent” localizzato a 220m di quota. L’acqua ha la caratteristica di mantenere la sua temperatura di 12°C costante in ogni stagione. Lasciata la sorgente parte dell’acqua è destinata agli acquedotti, parte scende per una ripida scarpata per raggiungere poi il lago di Negrisiola.
Il corso del Meschio si conclude dopo aver attraversato i comuni di Colle Umberto e Cordignano nei pressi di Ponte della Muda dove confluisce nel Livenza.

La conosci la fantastica leggenda del fiume Meschio fu pubblicata in un inserto de Il Secolo del 1893 ed è davvero molto interessante.

“Un rigagnolo d’acque fugge dal Piave come figlio ribelle dal padre; altero di sua origine sdegna l’invito del Cordevole di mischiare con lui le sue acque; vuole scorrere indipendente per balze e pianure ed acquistare un nome: s’inabissa quindi e sotterra attraverso il fiume lusinghiero per di bel nuovo uscire alla luce, “Mesulus o Mischio” per tale fatto si chiama (sembra che derivi dal latino “Miscère” che vuol dire mescolare)”. Per questo motivo le acque del fiume Meschio vennero celebrate per la tempera che sapevano dare alle armi le quali qui si fabbricavano, poi guidate in appositi canali, costruiti secondo i dettami della scienza, diedero vita a più di trenta stabilimenti industriali. Le antiche fucine d’armi di Serravalle davano “lavorieri miracolissimi” in “lame da spade, stocchi (un’arma simile alla spada), pugnali ed armi da instare”. Dobbiamo ricordare che già nel secolo XIII correva il detto “Cadubrium et Feltrium poma et pyra gignere, Serravallum autem gladios” (Cadore e Feltre producono mele e pere selvatiche, Serravalle spade e uomini capaci di maneggiarle) -.

Il poeta Rodolfo Della Torre così lo descrive nella sua poesia “Sorgenti del Meschio”: “Un rompere d’acqua improvvisa dal sasso; un bianco balzare di schiume canoro; cader, ricadere, arricciarsi, spezzarsi; sparire tra il verde, tra i sassi, nel cupo e poi ricomporsi, ed ancora cadere e infrangersi in fili d’argento. In schiume, che odorano intorno e lontano di muschio. Vittorio che un giorno i miei versi saprai, che un giorno vivrai la tua vita, ed oggi spalanchi gli occhioni innocenti sull’acqua che cade che sprizza che brilla, la vita, Vittorio …oh! La vita…è lo stesso mistero”
Alberta Bellussi

 

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Si parla di Halloween ma in Veneto da secoli esiste l’antica tradizione della ‘suca baruca’ o ‘Lumera, nei giorni dei morti e dei santi,  1-2 novembre, venivano posizionate nei pressi di siepi e cimiteri per attirare le anime dei defunti. Nei secoli scorsi, infatti, nel mondo contadino si usava intagliare le zucche arancioni, per poi inserirci all’interno delle candele; venivano quindi esposte sui davanzali o lungo i fossi e prendevano il nome di “SUCHE BARUCHE” o “LUMERE”. Si credeva che così si illuminasse la strada per le anime dei defunti e confondessero gli spiriti più dispettosi e negativi.

La sera, i ragazzi si divertivano ad andare in giro con queste zucche per spaventare i passanti soprattutto nei pressi dei cimiteri; poi andavano di casa in casa a chiedere frutta secca, nocciole e castagne. La varietà era la zucca Marina di Chioggia, una varietà di zucca tipica del Veneto caratterizzata dalla spessa buccia verde-grigia, rugosa e bitorzoluta… una zucca dall’aria un po’ scontrosa, con quelle sue coste bitorzolute che ricordano molto il viso di vecchie streghe. Non per nulla una delle ipotesi relative al suo nome deriva proprio dall’assonanza fra verruca e barucca. Verruca deriva dal latino veruca, che significa, giust’appunto, escrescenza. Ma ci potrebbe essere anche un’altra strada, che porta alla tradizione ebraica, a quel baruch che significa santo, quasi a santificare la capacità della zucca di sfamare i contadini nel difficile periodo invernale.

L’importante era non vedere una suca baruca quando dentro vi si trovava uno spirito perché si rischiava di perdere il senno.

La sera, i ragazzi si divertivano ad andare in giro con le suche baruche per spaventare i passanti e far loro dei dispetti, appostandosi soprattutto nei pressi dei cimiteri. Poi andavano di casa in casa a chiedere frutta secca, nocciole e castagne e se non ricevevano niente facevano un piccolo scherzo. In alcune zone si indossavano costumi per confondersi con i morti.

In ogni famiglia, inoltre, si preparava “el piato dei morti” con castagne, dolci (i osi dei morti), marroni, fave, patate “mericane” e altre pietanze, che si lasciavano sopra al tavolo della cucina come dono per le anime dei parenti in visita; sopra il comodino si metteva invece un bicchiere d’acqua, di latte o vino. Volendo, cibi e bevande potevano essere lasciati sul davanzale per ristorare le anime.

Un altro aspetto della tradizione prevedeva poi la preparazione di ricette tradizionali e piccoli rituali.

Alberta Bellussi

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Quando camminiamo   per la campagna nelle gelide giornate d’inverno accade che veniamo travolti da folate di un profumo intenso quasi dal sapore antico. Non c’è ombre di dubbio è proprio lui il fiore di Calicanto. Se ne avete uno in giardino la sua fragranza inebria la sua area circostante.

La piante è proveniente dalla Cina ed è stato importato in Europa nella seconda metà del XVIII secolo; è un arbusto molto particolare, dai rami spogli sottili ed intricati che quando fioriscono, in inverno, si coprono di piccoli e profumatissimi fiori dalla struttura cerosa mentre negli altri mesi dell’anno è ricoperta di foglie.

Generalmente i fiori che sbocciano sono di colore bianco o giallo e ricoprono tutta la pianta dall’alto al basso, con l’interno rosso purpureo.

Il suo nome Calicanto o Calicantus deriva dal greco Chimonanthus, che significa “fiore d’inverno” e secondo le tradizioni è una pianta che risveglia lo spirito ed il corpo; un’eccezione visto che la maggior parte della natura riposa nei mesi più freddi: era di buon auspicio sfregarsi e profumarsi polsi e caviglie al fine di rinforzare e rinvigorire corpo e spirito.

Un’antica leggenda racconta che, in una fredda giornata d’inverno, un pettirosso, stanco e infreddolito, vagava cercando riparo in un ramo per potersi riposare e proteggere dal freddo. Accadde, però, che tutti gli alberi che incontrava durante il volo si rifiutavano di dargli ospitalità finché stremato giunse nei pressi di un calicanto il quale, alla vista del piccolo uccellino, decise di dargli riparo e con le sue ultime foglie ingiallite provò a scaldarlo. Il Signore, che aveva visto il bel gesto, volle ricompensare la pianta di calicanto, facendo cadere sull’albero una pioggia di stelle brillanti e profumate. Fu così che da quel momento il calicanto è fiorito solo in inverno.

Alberta Bellussi

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Entrare nella Basilica di San Marco è un po’ come uno scrigno pieno di segreti, curiosità e magia. La Basilica di San Marco è la basilica più bella del mondo che viene chiamata anche Cattedrale d’Oro grazie alle migliaia di tessere in oro che compongono i vari mosaici dei soffitti, uno stile che fonde il romanico e il bizantino: una croce greca con una grande cupola centrale e quattro cupole laterali.  Quando si entra si viene avvolti da un abbraccio dorato: più di 8.000 metri quadrati di mosaici in oro ricoprono il soffitto della Cattedrale. Ma anche il pavimento è poesia pura: è composto da straordinari mosaici in marmo realizzati nel XII secolo, con geometrie, forme, animali e tantissimi simboli decorativi e qualche piccolo segreto.

Proprio nel pavimento è celata una bellissima storia romantica, la storia d’amore tra il Doge Francesco Erizzo e Venezia.

Francesco Erizzo nel corso della sua vita ricopri vari ruoli pubblici come quello di provveditore, nel 1631 fu designato doge, con plebiscitaria votazione.

Occupò il trono dogale per cinque anni e fu un periodo abbastanza tranquillo, nel corso del quale poté proclamare la fine della pestilenza.  Sotto il suo dogato venne fatta la costruzione della grande chiesa votiva della Salute (fu lui a incaricare Baldassare Longhena, dal momento che il suo predecessore, Nicolò Contarini, non fece in tempo).

Nel 1645 ebbe però inizio la guerra di Candia, lunga e difficile , i cui esordi non furono certo favorevoli alla Repubblica; fu probabilmente nella speranza di  stimolare gli animi a reagire  che il Senato, il 7 dicembre, offrì al vecchio doge il comando supremo delle operazioni.  Lui accetto per amore e devozione verso questa città ma il compito era chiaramente superiore alle sue risorse fisiche e l’ansia e l’impegno dei preparativi ne affrettarono la morte, che lo colse a Venezia il 3 genn. 1646.

È sepolto nella chiesa di S. Martino di Castello, in uno sfarzoso monumento ch’egli s’era fatto erigere,

Aveva un desiderio che lasciò per testamento. Voleva che il suo cuore, per esprimere il suo forte amore e totale attaccamento a Venezia,  fosse sepolto a San Marco: «[…] il cuore alla Patria e che sia sotterrato in alcun angolo dell’altar maggiore della chiesa ducale di San Marco…».

Quindi quando salite verso l’altar maggiore di San Marco dalla parte sinistra, guardate il pavimento, sotto una lapide si trova una piccola urna elegante che ne contiene il suo cuore.  A indicare il luogo esatto, si trova una piastra di marmo che reca al centro un cuore di porfido, che a sua volta contiene un piccolo corno dogale sovrastante un piccolo riccio che deriva dall’assonanza tra ‘riccio’ ed ‘Erizzo’: il simbolo degli Erizzo.

Alberta Bellussi

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L’Isola della Certosa, 24 ettari a nord ovest da Venezia dal cui centro dista poche centinaia di metri e pochi istanti di barca, ha ospitato nei secoli passati un complesso monastico di cui si vuole oggi recuperare la memoria, e in età napoleonica fu convertita a uso militare: un forte. L’sola della Certosa è un luogo  di chiese e monasteri fin dal 1422, oggi rimangono  poche rovine. L’isola si trova a NE della città di Venezia, tra San Pietro di Castello e il Lido. Un canale largo una ventina di metri la separa dall’isola delle Vignole. Fu sede di un monastero Agostiniano fin dal 1199 e ceduta in seguito ad una comunità di Certosini (1424).

Dopo anni di abbandono, la rinascita con il velista Alberto Sonino, della società Vento di Venezia che gestisce da una decina d’anni l’isola e la darsena Venezia Certosa Marina. Tra gli obiettivi c’è anche il recupero della Certosa stessa. Un edificio di pregio che testimonia la lunga storia religiosa dell’isola in cui abbiamo trovato anche opere d’arte e reperti archeologici.

Oltre ai monaci, nell’isola vi era una comunità di agricoltori che coltivavano l’isola a vigneti e orti.

Una leggenda vi vuole però sepolto il tesoro della Zecca di Venezia.

ll 12 maggio 1797 Napoleone occupa Venezia. È la prima volta nella sua lunga storia che la città cade in mani nemiche e subisce un saccheggio di proporzioni colossali, si parla del 70-80% dei suoi beni artistici razziato. Su un tesoro però i nuovi padroni non riescono a mettere le mani: l’oro della Zecca di Stato. Forse per questo hanno poi utilizzato la Zecca per fondere l’ingente patrimonio delle reliquie, per lo più bizantine, in possesso di chiese e monasteri veneziani soppressi.

Tre senatori, d’altrettante nobili famiglie, sovrintendevano al funzionamento del cuore monetario della Repubblica e questi, probabilmente prima della capitolazione ai francesi, devono aver pensato di mettere tali sostanze al sicuro, dove i nuovi occupanti non andassero a frugare. Tra le varie ipotesi sul nascondiglio del tesoro, una si incentra sull’isola della Certosa, una delle più belle e curate della laguna a quel tempo, che godeva dell’attenzione delle più eminenti famiglie le quali l’avevano eletta a loro Pantheon. Pare quindi che il Savio Cassier con i suoi collaboratori possedessero qui, nel chiostro piccolo, dei loculi e proprio di questi si siano serviti per occultare il tesoro della Serenissima, in attesa di tempi migliori.

Chissà poi che strade avrà preso il gruzzolo nascosto di cui non si fa più cenno in alcun documento. Forse i nobiluomini disperando in un ritorno della Serenissima all’antica gloria, se lo sono spartito fra loro o forse la fortuna giace ancora sepolta da qualche parte sull’isola…

Per questo si ritiene che ancora oggi, sull’isola, una vera fortuna in oro attenda ancora di essere scoperta. Da qualche parte in questo parco potrebbe essere nascosto un tesoro grandissimo.

Alberta Bellussi

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Nel paesaggio autunnale sono i colori delle foglie a rubare il nostro sguardo e a rendere i giardini e i viali una tavolozza di colori dal verde, al giallo, al rosso, al marrone. Foglie, foglie di tutti i colori sugli alberi e sul suolo ma c’è un frutto arancione che colora l’autunno e l’inverno delle nostre campagne: il caco.

Il cachi è uno dei frutti autunnali per eccellenza, dotato di numerose proprietà nutritive, si dice che se vuoi vivere più a lungo, ne dovresti mangiane parecchi!

Per i cinesi considerato l’albero delle sette virtù: è infatti longevo, ottimo per far nidificare gli uccelli, fa molta ombra, la legna è molto buona da ardere e ancora il fogliame produce concime di ottima qualità, raramente viene attaccato dai parassiti e poi è esteticamente bellissimo grazie ai suoi frutti colorati.

La conosci la leggenda contadina per la quale dentro i semi di caco è possibile trovare una delle tre posate che suggerisce come sarà il tempo durante l’inverno?

Si prende il seme contenuto nel caco lo si taglia longitudinalmente e si osserva la posata impressa dentro che ci darà il suggerimento di come saranno le previsioni meteo sull’inverno.

In particolare se la forma assunta dal germoglio somiglia a

la forchetta indica un inverno mite;

il coltello indica un freddo pungente;

il cucchiaio un inverno con abbondante neve.

A me è uscito un cucchiaio e a voi?

Alberta Bellussi