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Il “pan de oro”

La storia del pandoro risale a diversi secoli fa ed è spesso avvolta da leggende e tradizioni popolari. Le origini del pandoro sono, senza dubbio, legate alla città di Verona e il dolce, nel tempo, si è legato al Natale.

Sembra che il pandoro nasca nel Medioevo, durante il periodo della Repubblica di Venezia, e che il dolce fosse già preparato in modo simile a come lo conosciamo oggi. La forma a stella del pandoro si ispira, infatti, alla Torre dei Lamberti di Verona, e proprio questo è uno degli elementi che rafforzano il legame con questa città.

Ma da dove deriva il termine pandoro?

Da “pan de oro“, che fa riferimento all’originaria pratica di decorare il dolce con foglie d’oro commestibile; pratica, questa, che risale al Rinascimento e sottolinea il prestigio e la raffinatezza del dolce, che veniva spesso preparato per occasioni speciali. Durante i secoli, la ricetta del pandoro è stata raffinata e adattata, ma il suo status di dolce natalizio è rimasto intatto.  Ma il vero pandoro fu inventato, nel 1884, da Domenico Melegatti che depositò il brevetto per la sua ricetta del pandoro presso la Camera di Commercio di Verona, stabilendo così la sua rivendicazione come creatore di questo famoso dolce natalizio. Insieme alla ricetta, registrò anche lo stampo, appositamente disegnato da un artista cittadino, e usa, per la prima volta, il nome pandoro. Era la rielaborazione raffinata di un dolce natalizio della tradizione veneta chiamato “el nadalin”. Molti anni dopo  il pandoro entra nei dizionari: lo registra Alfredo Panzini nella quinta edizione del suo Dizionario moderno (1927): «“Pandòro”: dolce di lievito, ricchissimo di burro (Verona). Dal colore aurato dovuto al rosso d’uovo».

La ricetta è un po’ impegnativa prevede 2 ore circa di preparazione e 23 di lievitazione.

Ingredienti per 1 pandoro

  • 480 g farina setacciata più un po’
  • 170 g burro morbido a pezzetti più un po’
  • 125 g zucchero semolato fine
  • 60 g latte tiepido più 3 cucchiai
  • 20 g lievito di birra fresco
  • 3 uova – 1 tuorlo
  • 1 baccello di vaniglia
  • 1 cucchiaino scarso di sale
  • zucchero a velo

Procedimento

  1. Sciogliete 15 g di lievito nel latte tiepido. Aggiungete 25 g di zucchero semolato, il tuorlo e mescolate. Aggiungete 50 g di farina e amalgamate con cura. Coprite con pellicola e lasciate riposare per 1 ora o finché il composto non raddoppia di volume.
  2. Sciogliete il lievito rimasto in altri 3 cucchiai di latte tiepido e aggiungetelo al composto lievitato; unite lo zucchero rimasto e 1 uovo intero, quindi 200 g di farina e 30 g di burro a pezzetti, lavorando finché la consistenza non sarà omogenea; lasciate riposare per un’altra ora o finché non raddoppia di volume.
  3. Aggiungete quindi la farina rimasta, 2 uova, i semi della vaniglia e il sale; mescolate bene. Imburrate una ciotola, deponetevi la pasta, coprite e lasciate riposare al tiepido per 1 ora (il volume dovrà raddoppiare); poi mettetela in frigo per 12-15 ore.
  4. Lavorate infine la pasta su un piano infarinato e stendetela con un matterello, in un quadrato. Disponete sulla zona centrale del quadrato 140 g di burro a cubetti, poi ripiegate i quattro angoli verso il centro, chiudendo bene in modo che il burro non fuoriesca. Piegate il quadrato a metà, giratelo con il lato corto verso di voi e stendetelo nuovamente; piegatelo in tre e fatelo riposare in frigo per 20 minuti.
  5. Stendete l’impasto e ripiegatelo su se stesso per altre 3 volte lasciandolo riposare in frigo ogni volta per 15 minuti.
  6. Stendete di nuovo l’impasto dandogli una forma quadrata e ripiegate gli angoli verso l’interno, come la prima volta. Capovolgetelo e dategli una forma tondeggiante.
  7. Imburrate bene uno stampo da pandoro (750 ml) e adagiatevi l’impasto, tenendo la parte con la pasta rimboccata verso il fondo. Sciogliete 20 g di burro, spennellate la pasta e lasciate riposare, coperto con la pellicola, per circa 4 ore in un luogo tiepido, finché la pasta non avrà colmato lo stampo.
  8. Cuocete il pandoro nel forno ventilato preriscaldato a 160 °C per 15 minuti; riducete quindi a 130 °C (sempre ventilato), coprite la superficie con un foglio di alluminio e cuocete per altri 40-45 minuti. Fate la prova dello stecchino: se esce asciutto, il pandoro è pronto. Fatelo raffreddare, sformatelo e completatelo con lo zucchero a velo.
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Venezia è città d’arte per antonomasia, la capitale del romanticismo, meta da sogno sospesa nel tempo tra la terra e l’acqua eppure potrebbe essere descritta attraverso i numeti. Infatti, Venezia, che prima di tutto è un topos geografico reale, “ha molti numeri” importanti i quali, oltre che per individuarla e descriverla, risultano preziosi per comprenderne più a fondo la natura. Ecco così che, anche attraverso una semplice enumerazione di dati, inesorabile emerge l’immagine di una città ancora una volta differente dalle altre, da un lato sempre sorprendente e magica, dall’altro pur con la sua fragilità e complessità

Venezia è  composta da 6 sestieri: San Marco con 5.562 numeri civici; Dorso Duro con 3004 numeri civici; Cannaregio con 6.423 numeri civici; Santa Croce con 2.344 numeri civici; San Polo con 3.144 numeri civici;  Castello con 6.827 numeri civici.

Un’unica piazza che è la meraviglia di Piazza San Marco e un unico palazzo, Palazzo Ducale.

118 sono le isole che la compongono

420 sono i ponti che attraversano i canali

4 sono i ponti sul Canal Grande: Il Ponte della Costituzione più noto come Calatrava, dal suo progettista, il Ponte degli Scalzi o della stazione, il Ponte di Rialto e il Ponte dell’Accademia. I piccoli ponti sono 300 in pietra 59 in ferro 49 in legno più il Ponte dei tre ponti.

Un solo ponte di accesso alla città il ponte della Libertà un tempo noto come Ponte di Littorio, costruito nel periodo fascista affiancato anni dopo dal ponte della Ferrovia.

177 sono i rii che si intersecano

3 soli canali : Il Canal Grande, il Canale della Giudecca e Il Canale di Cannaregio.

135 sono i campi

196 i campielli

380 le corti

7 i campazzi

1198 calli

367 rami

52 rio terrà

42 salizade

10 rughe

1 strada ( Nova)

2 vie

142 fontane

256 pozzi pubblici

circa 2.500 pozzi privati.

La sua superfice è di 415,9 chilometri quadrati e conta 250191 al 31 maggio 2024.

Le Chiese sono 98 quelle di culto, 26 quelle sconsacrate 2 di altri culti, gli armeni e i greco-ortodossi e ben 40 quelle che sono state demolite. 117 sono i campanili.

Sono questi numeri importanti da ricordare in quanto Venezia non è solo San Marco e Rialto ma l’insieme di tante calli, campi, campielli, rii, ponti che sono i testimoni tangibili  di una storia che millenaria che rimane nel cuore non solo dei veneziani ma di tutti quelli che la visitano e la amano.

Alberta Bellussi

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In Comelico e in Cadore esiste un’istituzione molto antica che si chiama “Regola”.

Le “Regole di comunione familiare” del Comelico sono la testimonianza del forte legame tra la comunità locale e il proprio territorio che si tramanda da oltre un millennio. Gestisce il patrimonio collettivo costituito da boschi, pascoli, praterie, malghe, che è inalienabile, indivisibile, inusucapibile. Ha preistoria e storia. Creata per motivi di sopravvivenza, solidarietà e difesa in zona montana.Le famiglie regoliere tramandano di padre in figlio le proprietà collettive di boschi e pascoli, insieme ai diritti di appartenenza alla Regola di Comunione Familiare, con lo scopo di preservare e migliorare la propria terra. I beni che derivano dalle attività legate al bosco e al pascolo rappresentano da sempre la principale fonte di sostentamento della comunità e sono amministrati con direttive approvate democraticamente dall’assemblea dei regolieri e contenute in antichi codici rurali detti “Laudi Statuti”. Ancora oggi, infatti, sono il punto di forza dell’offerta turistica delle Dolomiti Comelicesi, caratterizzata da contenuti ambientali e paesaggistici davvero unici. Le Regole di comunione familiare hanno saputo nel tempo adeguare la propria funzione e in questi anni hanno promosso numerose azioni di valorizzazione dell’ambiente indirizzate alla fruizione sostenibile del territorio. Le Regole di comunione familiare, che garantiscono una gestione armonica dei beni spontanei del territorio nel rispetto di tradizioni centenarie un tempo enti di diritto pubblico perché concorrevano direttamente al bilancio comunale, oggi sono diventate di diritto di privato e definite “Comunioni Familiari” a partire dalla legge 102/1971, che conferisce loro il titolo di azienda di diritto privato. È evidente che la considerazione del ruolo femminile ha sempre avuto scarsa attenzione: infatti, c’è sempre stata una tendenza all’esclusione delle donne anche, ma non solo, dall’attività regoliera. Non si deve dimenticare che questo antico diritto, pur nascendo dalle comunioni familiari, è sempre stato rappresentato dalla figura preminente dei maschi anziani, lasciando alle donne compiti di supplenza o di subentro temporaneo solo per le vedove con figli maschi minori. Tutto questo può non stupire, rientrando nella normale concezione storica della figura femminile. Pur però essendo cambiato il ruolo delle donne, gli statuti sono rimasti invariati. Tuttora le uniche donne considerate regoliere sono le vedove aventi figli di cui almeno uno maschio a carico e finché dura lo stato di vedovanza o finché un figlio maschio e convivente abbia raggiunto la maggiore età. Nel 2022 ci fu una svolta nelle elezioni tenutesi a Valle di San Pietro di Cadore la maggioranza ha votato per la prima volta una donna, Manuela Pradetto Bonvecchio, sarà chiamata a presiedere l’antichissimo istituto regoliero, che detiene la proprietà privata collettiva di un grande patrimonio ambientale. Il Comelico terra preziosa di conservazione e anche terra capace di imprevedibili scatti in avanti: finalmente un segnale netto di apertura alle donne che viene dall’assemblea dei regolieri.

Nell’area di Comelico sono ancora attive 16 Regole di comunione familiare cosi descritte:

Comune di Comelico Superiore: Regola di Padola – Regola di Dosoledo – Regola di Casamazzagno- Regola di Candide;

Comune di San Nicolo di Comelico: Regola di San Nicolo – Regola di Costa;

Comune di Danta di Cadore: Regola di Tutta Danta – Regola di Mezza Danta.

Comune di Santo Stefano di Cadore: Regola di Santo Stefano – Regola di Campolongo – Regola di Casada – Regola di Cotalissoio;

Comune di San Pietro di Cadore: Regola di San Pietro – Regola di Presenaio – Regola di Valle – Regola di Costalta.

Alberta

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Come mai si chiamano così?

A differenza di quello che si può credere dal loro nome, le tende alla veneziana non sono state inventate a Venezia ma, si tramanda, addirittura in Giappone. In realtà, andando ancora più indietro nel tempo si scopre che manufatti molto simili erano già presenti in Persia, Cina ed Egitto. Tuttavia, la loro funzione decorativa sulle finestre delle abitazioni potrebbe essere originaria del periodo settecentesco: questa è la datazione approssimativa che ne fanno gli esperti.

Ma per quale ragione, allora, si chiamano “tende alla veneziana”?

Un’antica leggenda ci svela che i primi commercianti veneziani portarono in Persia, durante i loro viaggi d’affari, questi antichi manufatti. In effetti, questo spiegherebbe perché le veneziane, in Francia, sono conosciute anche con il nome di “persienne”.

Il termine persiana deriverebbe dal latino “persa, -ae”, la cui traduzione è “originario della Persia”. Sembra dunque che la persiana sia arrivata in Europa per la prima volta nel XVIII secolo, a Venezia in particolare. Tanto che le persiane più famose sono proprio quelle veneziane. La storia della persiana ha origini antichissime, una dimostrazione data da diversi dipinti dell’epoca dei Persiani, dai quali deriva appunto il nome “persiana”. Ma i luoghi in cui veniva importata preferivano chiamarla diversamente: i mercanti veneziani la chiamavano appunto “veneziane”.

Una curiosità è che un altro nome che si usa tutt’ora, soprattutto legato alle persiane genovesi,  è “gelosia”, nome che si dice sia legato agli uomini persiani i quali, troppo gelosi delle proprie mogli, avevano appunto escogitato questo stratagemma per impedire loro di mostrarsi alla finestra.

Anche i materiali con cui venivano realizzate hanno avuto la loro ovvia evoluzione.

Dapprima venivano utilizzati il ferro e il legno, in seguito attorno al 1850 sono apparse le prime persiane realizzate in alluminio, fino ad arrivare ai giorni nostri e alla diffusione di altri materiali come il PVC e l’acciaio zincato.

Le persiane sono infissi caratterizzati da lamelle inclinate che lasciano passare la luce dell’esterno dentro le abitazioni. Le lamelle possono essere fisse oppure orientabili, ovvero modulabili a seconda della quantità di luce che si vuole diffondere all’interno dell’ambiente.

Però  colui che, per primo, ha brevettato questo sistema, nel 1769, è stato il fisico inglese Edward Bevan: il suo era un congegno di lame mobili di legno che potevano essere azionate per mezzo di una corda e una puleggia inserite in un telaio. Ed è curioso che sia stato proprio un inglese a brevettare questo sistema quando è risaputo che in molti Paesi nordici le persiane sono le assenti per eccellenza.

Come mai noi abbiamo le persiane e invece ad altre latitudini sono assenti? E’ un fatto comune vedere le persiane in alcuni Paesi, ma in altri non ce n’è traccia.

“Per quanto riguarda la differenza di utilizzo con i Paesi del nord Europa (non solo quelli più a nord, ma anche Paesi Bassi, Belgio, Germania) sembra ci siano due ragioni. Da un lato, è un problema funzionale, poiché più a nord tendono a intrappolare il poco sole che le raggiunge, mentre più a sud dobbiamo evitarlo per non surriscaldare gli spazi in cui viviamo e lavoriamo. Dall’altro, le correnti protestanti – luteranesimo e calvinismo – che si sono insediate in quelle zone d’Europa hanno cambiato la concezione della privacy tra la gente. Lì, nascondersi dietro una tenda o una persiana potrebbe voler dire che si sta nascondendo qualcosa di peccaminoso”, afferma l’architetto José María Mateo.

 

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“Costoro non seminano, non arano, non vendemmiano, ma comprano dappertutto grano e vino”: questa cronaca del VIII secolo descrive perfettamente l’attitudine innata dei Veneziani al commercio, riconosciuta in tutto il mondo fin dall’antichità. Proprio per questo motivo la moneta di Venezia è stata per secoli la valuta più pregiata di tutte; monete di tantissime forme e tagli. Ne elencherò alcune seguendo l’ordine alfabetico.

Il BAGATIN era questa una moneta tra le più usate dal popolo e durata sino alla caduta della Serenissima.

Il BAIOCCO era una moneta romana che però aveva corso legale anche a Venezia e valeva due soldi veneti

Il BESSO era in rame e valeva sei denari o mezzo soldo veneto

Le BISANTE prendono il nome dalla città di Bisanzio dove venne coniata per la prima volta ma successivamente la si coniava anche a Venezia era una moneta d’oro dal valore altissimo

Il DANARO o PICCIOLO valeva come il bagatin

Il DUCATO quello d’argento pesava 109 carati e un grammo e valeva otto lire venete mentre il Ducato corrente valeva sei lire venete e quattro soldi.

Il GROSSO moneta tipica veneziana coniata nel 1200 dal Doge Pietro Ziani e valeva quattro soldi e c’era anche GROSSON che valeva otto soldi.

La LIRA VENETA valeva venti soldi e fu in corso sino alla fine della Serenissima

Il MARCHETO piccola moneta di rame coniata poco prima della caduta della Serenissima

La PALANCA valeva un soldo e il PALANCON valeva due soldi.

Lo SCUDO D’ORO coniato dal Doge Andrea Gritti nel 1530  valeva sei lire venete e dieci soldi mentre lo SCUDO D’ARGENTO valeva sei lire venete ma alla fine della Serenissima il suo valore era di dodici lire venete e otto soldi. C’era poi il MEZZO SCUDO, il QUARTO DI SCUDO e il MEZZO QUARTO DI SCUDO.

Il SISIN era una piccola moneta d’argento ma durò poco per la facilità di contraffazione, che esisteva anche allora.

Il SOLDIN piccola moneta di rame mentre il SOLDO era una moneta di rame che valeva un ventesimo di Lira veneta.

Lo ZECCHINO  moneta che prese il nome in onore della Zecca e aveva un grosso valore mentre la OSELLA era d’argento e fu emessa dal Doge Antonio Grimani .Veniva coniata ogni anno ed era il regalo che i Dogi facevano ai grandi personaggi della Serenissima nel periodo natalizio.

Queste sono le più conosciute ma ce ne sono anche molte altre.

Alberta Bellussi

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L’OROLOGIO PIU’ ANTICO DEL MONDO SI TROVA IN VENETO

Lo sai dovedove si trova il contributo più antico del mondo?

Si trova sul campanile della chiesa di Sant’Andrea di Chioggia e segna l’ora esatta da 630 anni.
L’orologio di Chioggia fu ritrovato nel 1997 da un carpentiere, Gianni Lanza, che era stato incaricato di sistemare le vecchie scale in legno che portavano alla cella campanaria. Quell’antico marchingegno era stato accantonato in un angolo dopo l’elettrificazione dell’orologio; i pesi furono ritrovati al piano terra della torre, cosicchè l’esemplare può dirsi completo in ogni sua parte. Per fortuna il parroco comprese che si poteva trattare di un reperto meritevole di attenzione e non lo fece smaltire si preoccupò invece di capirne le origini.

Uno studioso locale, Aldo Bullo, esperto di orologeria antica, vedendo l’arcaico manufatto lo collegò a quello della cattedrale di Salisbury, considerato fino a quel momento il più antico al mondo menzionano a partire dal 1386. Il meccanismo di Chioggia venne sottoposto al giudizio del prof. Ettore Pennestri (università Tor Vergata di Roma e membro del Registro Italiano Orologi da Torre) e alla d.ssa Marisa Addomine, collega del Registro. Gli studiosi intrapresero insieme un’approfondita ricerca, sia sul reperto che d’archivio, dalla quale emerse anzitutto il documento sovrano sulla sua datazione, in cui si legge :
Quod ponatur in exitu per massarios ad quod restat ad expensam orologi et quod teneat in ordine et acconcio – Si metta a disposizione degli economi del Comune la somma per saldare le spese dell’orologio e per tenerlo in ordine e funzionante. die XXVI february (26 febbraio 1386). Anche per l’esemplare chioggiotto si deve quindi ritornare al 1386: che battaglia per il primato con Salisbury.

In questo documento, per la verità, si parla già dell’esistenza dell’orologio, ma è la carta più antica di cui si disponga poiché l’archivio precedente venne distrutto durante la Guerra di Chioggia (1379-’80)
Gli studiosi sono riusciti a ricostruire l’intera storia del vetusto meccanismo, e hanno pure ricostruito virtualmente l’orologio; infatti grazie a tecniche di reverse engineering e di modellazione tridimensionale, presso la cattedra di Meccanica Applicata alle Macchine del Dipartimento di Ingegneria Meccanica dell’Università di Roma “Tor Vergata”, è stato possibile eseguire lo studio cinematico dell’orologio.
Oggi l’originale è custodito all’interno della torre, che ospita un Museo verticale, dislocato su cinque livelli, fino a raggiungere la cella campanaria, dalla quale si gode un panorama mozzafiato.

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Il Meschio nasce alle pendici del M.te Visentin a Savassa Alta, frazione di Vittorio Veneto, entra a S.Giustina e attraversa Serravalle nei pressi del vecchio ospedale dove con i suoi caratteristici “meschet”, canali provenienti dal corso principale, attraversano tutto il territorio comunale.

La sorgente di origine carsica è costituita da un bacino, chiamato “brent” localizzato a 220m di quota. L’acqua ha la caratteristica di mantenere la sua temperatura di 12°C costante in ogni stagione. Lasciata la sorgente parte dell’acqua è destinata agli acquedotti, parte scende per una ripida scarpata per raggiungere poi il lago di Negrisiola.
Il corso del Meschio si conclude dopo aver attraversato i comuni di Colle Umberto e Cordignano nei pressi di Ponte della Muda dove confluisce nel Livenza.

La conosci la fantastica leggenda del fiume Meschio fu pubblicata in un inserto de Il Secolo del 1893 ed è davvero molto interessante.

“Un rigagnolo d’acque fugge dal Piave come figlio ribelle dal padre; altero di sua origine sdegna l’invito del Cordevole di mischiare con lui le sue acque; vuole scorrere indipendente per balze e pianure ed acquistare un nome: s’inabissa quindi e sotterra attraverso il fiume lusinghiero per di bel nuovo uscire alla luce, “Mesulus o Mischio” per tale fatto si chiama (sembra che derivi dal latino “Miscère” che vuol dire mescolare)”. Per questo motivo le acque del fiume Meschio vennero celebrate per la tempera che sapevano dare alle armi le quali qui si fabbricavano, poi guidate in appositi canali, costruiti secondo i dettami della scienza, diedero vita a più di trenta stabilimenti industriali. Le antiche fucine d’armi di Serravalle davano “lavorieri miracolissimi” in “lame da spade, stocchi (un’arma simile alla spada), pugnali ed armi da instare”. Dobbiamo ricordare che già nel secolo XIII correva il detto “Cadubrium et Feltrium poma et pyra gignere, Serravallum autem gladios” (Cadore e Feltre producono mele e pere selvatiche, Serravalle spade e uomini capaci di maneggiarle) -.

Il poeta Rodolfo Della Torre così lo descrive nella sua poesia “Sorgenti del Meschio”: “Un rompere d’acqua improvvisa dal sasso; un bianco balzare di schiume canoro; cader, ricadere, arricciarsi, spezzarsi; sparire tra il verde, tra i sassi, nel cupo e poi ricomporsi, ed ancora cadere e infrangersi in fili d’argento. In schiume, che odorano intorno e lontano di muschio. Vittorio che un giorno i miei versi saprai, che un giorno vivrai la tua vita, ed oggi spalanchi gli occhioni innocenti sull’acqua che cade che sprizza che brilla, la vita, Vittorio …oh! La vita…è lo stesso mistero”
Alberta Bellussi

 

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Sant’Antonio di Padova, nato a Lisbona(Portogallo) il 15 agosto 1195 e morto a Padova il 13 giugno 1231, si chiamava Fernando Martim de Bulhoes e Taveira Azevedo. Nato da genitori nobili, a 17 anni andò a studiare Scienze umane e teologiche a Coimbra. Nel 1220, a 25 anni, fu ordinato sacerdote a Santa Cruz. Sant’Antonio soggiornò a Padova in due momenti della sua vita: fra il 1229 e il 1230 e poi tra il 1230 e il 1231, anno della sua morte.

Miracoli di Sant’Antonio
Sant’Antonio, conosciuto come il taumaturgo, era il santo dei miracoli. Non è possibile ,oggi, stabilire il numero preciso dei miracoli compiuti da Sant’Antonio. Le prime biografie di Sant’Antonio di  Padova forniscono due versioni opposte. Mentre la “Vita Prima” presenta un’immagine sobria e terrena di Sant’Antonio, priva di miracoli, la “Benignitas” e la “Rigaldina” presentano la vita di Sant’Antonio come piena di prodigi.

 Il Santo delle cose perdune 
Sant’Antonio è noto anche come il santo delle cose perdute. Sant’Antonio, infatti, fa ritrovare le cose. Una filastrocca / preghiera recita infatti “Sant’Antonio dalla barba bianca, fammi trovare quello che mi manca”. I frati della  Basilica di Sant’Antonio conservano ancora una lettera giunta oltre 20 anni fa da Sudamerica, scritta da una signora che, indispettita con il Santo  che non faceva trovare un marito alla figlia, gettò dalla finestra la statuetta di Sant’Antonio. La statuettà colpì un passante, che diventò poi il genero della signora!

Iconografia San Antonio da Padova 
L’immagine più diffusa è quella che rappresenta Sant’Antonio da Padova nelle sembianze di un giovane religioso con in braccio Gesù Bambino. L’iconografica comprende altri simboli come il giglio, la giovinezza, il saio francescano, la fiamma, il cuore, il pane.

Ostensione del Santo
L’Ostensione del Corpo di Sant’Antonio consiste nella venerazione delle spoglie mortali di Sant’Antonio da Padova, che vengono esposte nella Cappella delle Reliquie della Pontificia Basilica di Sant’Antonio da Padova.
La prima volta che fu aperta la bara di Sant’Antonio da Padova, per opera di San Bonaventura da Bagnoregio, era l’8 aprile 1263, e fu trovata miracolosamente incorrotta la lingua del Santo. Nel 1350 il legato pontificio Guy de Boulogne collocò il corpo di Sant’Antonio nella Cappella dell’Arca e nessuno lo toccò più per oltre sei secoli. Solo nel 1981 si svolse il rito dell’Ostensione del Corpo di Sant’Antonio. Rito che si ripeterà nel 2010 quando, dopo 29 anni, devoti del Santo e pellegrini, potranno rivedere il Corpo di S. Antonio in un’urna di vetro. L’Ostensione del Santo richiama in una sola settimana, più di 200 mila fedeli tra suore, frati, parrocchiani di Padova, di tutta Italia e di varie parti del mondo, portoghesi che ricordano che Sant’Antonio è nato in Portogallo, e anche zingari, molto devoti di Sant’Antonio.
Durante l’Ostensione del Santo è possibile notare come non manchi alcuna parte dello scheletro di Sant’Antonio, a conferma del fatto che le numerose reliquie di Sant’Antonio sparse nelle chiese italiane e francesi altro non sono che dei falsi.

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Venezia è unica e lo sappiamo ed è un gioiello anch’esso unico al Mondo: la Pala d’oro.

La Basilica di San Marco ospita al suo interno la preziosa Pala d’Oro, una maestosa opera bizantina di oreficeria prodotta nel X secolo. La sua realizzazione ha richiesto una tecnica sopraffine di decorazione artistica a smalto chiamata cloisonné (sottili fili o listelli o piccoli tramezzi metallici (di solito rame), celle o alveoli (detti in francese cloisons), vengono saldati o incollati ad una lastra di supporto dell’opera da costruire; successivamente quindi, nelle zone rilevate dal metallo, viene colato dello smalto, ottenendo quindi una sorta di mosaico le cui tessere sono circoscritte esattamente dai listelli metallici).

Negli anni venne impreziosita sempre più fino a suo completamento nel XIV secolo; la struttura, posta sull’altare maggiore della Basilica, è in stile gotico in argento e oro e misura 334x212cm. Sono rappresentate numerose immagini sacre con al centro il Cristo circondato dagli Evangelisti, ai lati profeti, apostoli, arcangeli e in cornice la storia di vita di San Marco. Ma la particolarità che lascia tutti abbagliati sono le 1927 gemme che contiene: 526 perle, 330 granati, 320 zaffiri, 300 smeraldi, 183 ametiste, 75 rubini, 175 agate, 34 topazi, 16 corniole, 13 diaspri. Data la sua grande preziosità sembra strano che sia arrivata a noi senza essere stata trafugata, in realtà è stata in serio pericolo come racconta la tradizione. Napoleone, trovatosi al suo cospetto durante l’invasione, fu tratto in inganno da un “gioco” linguistico tutto Veneziano che ha permesso di salvarla; Xe tutto vero! dissero i veneziani all’Imperatore senza troppo pensare che la parola italiana “VERO” in dialetto veneto significa anche “VETRO. Napoleone, per fortuna, comprese che l’opera era tutta di vetro e quindi priva di valore e la lasciò al suo posto portando in Francia altri preziosi. Grazie a questo qui pro quo dialettale, la Pala d’Oro fu salvata, concedendoci il privilegio di poterla ammirare ancora nella sua bellissima “casa” di origine.

Alberta Bellussi

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“Stai parlando a vanvera” vuol dire parlare a vuoto, senza un senso, solo per aprir bocca.

È un detto usato in tutta Italia ma la sua origine è legata a Venezia e ad un oggetto in particolare usato dalle dame del ‘600 nella città lagunare, la cosiddetta “vanvera”.

Ma la vanvera che cosa è?  È un oggetto che era molto in voga che nella Venezia seicentesca e veniva usato dalle dame che non andavano mai in giro senza le loro ampie gonne sorrette da rigide strutture a gabbia. La vanvera era una parte integrante dei sontuosi abiti delle veneziane che veniva usata in qualsiasi occasione di festa.  Si trattava appunto di una sorta di tubicino, indossato dalle donne sotto le loro gonne sul sedere, con un palloncino contenitore alla sua estremità che serviva per contenere le possibili flatulenze delle signore che, così, non sarebbero finite nell’aria provocando spiacevoli figure per le eleganti dame. Questo attrezzo, che non mancava mai nell’outfit delle signore veneziane in occasioni come balli, feste di palazzo o cene di gala serviva sostanzialmente come contenitore di flatulenze ed era molto più comune di quello che si possa pensare.  Esisteva anche un’altra versione della vanvera; ce n’era una che veniva utilizzata sotto le coperte e che portava l’aria delle proprie flatulenze fuori dalla finestra con un tubicino in modo che la stanza restasse profumata durante la notte.  Il collegamento tra l’oggetto vanvera e il modo di dire del parlare all’aria, cioè senza senso diventa è quindi  chiaro e se inizialmente veniva usato per scherzare su questo doppio senso, con il tempo e con la scomparsa dell’oggetto della vanvera, ora è rimasto il modo di dire che usiamo sempre.

Alberta Bellussi