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Il Meschio nasce alle pendici del M.te Visentin a Savassa Alta, frazione di Vittorio Veneto, entra a S.Giustina e attraversa Serravalle nei pressi del vecchio ospedale dove con i suoi caratteristici “meschet”, canali provenienti dal corso principale, attraversano tutto il territorio comunale.

La sorgente di origine carsica è costituita da un bacino, chiamato “brent” localizzato a 220m di quota. L’acqua ha la caratteristica di mantenere la sua temperatura di 12°C costante in ogni stagione. Lasciata la sorgente parte dell’acqua è destinata agli acquedotti, parte scende per una ripida scarpata per raggiungere poi il lago di Negrisiola.
Il corso del Meschio si conclude dopo aver attraversato i comuni di Colle Umberto e Cordignano nei pressi di Ponte della Muda dove confluisce nel Livenza.

La conosci la fantastica leggenda del fiume Meschio fu pubblicata in un inserto de Il Secolo del 1893 ed è davvero molto interessante.

“Un rigagnolo d’acque fugge dal Piave come figlio ribelle dal padre; altero di sua origine sdegna l’invito del Cordevole di mischiare con lui le sue acque; vuole scorrere indipendente per balze e pianure ed acquistare un nome: s’inabissa quindi e sotterra attraverso il fiume lusinghiero per di bel nuovo uscire alla luce, “Mesulus o Mischio” per tale fatto si chiama (sembra che derivi dal latino “Miscère” che vuol dire mescolare)”. Per questo motivo le acque del fiume Meschio vennero celebrate per la tempera che sapevano dare alle armi le quali qui si fabbricavano, poi guidate in appositi canali, costruiti secondo i dettami della scienza, diedero vita a più di trenta stabilimenti industriali. Le antiche fucine d’armi di Serravalle davano “lavorieri miracolissimi” in “lame da spade, stocchi (un’arma simile alla spada), pugnali ed armi da instare”. Dobbiamo ricordare che già nel secolo XIII correva il detto “Cadubrium et Feltrium poma et pyra gignere, Serravallum autem gladios” (Cadore e Feltre producono mele e pere selvatiche, Serravalle spade e uomini capaci di maneggiarle) -.

Il poeta Rodolfo Della Torre così lo descrive nella sua poesia “Sorgenti del Meschio”: “Un rompere d’acqua improvvisa dal sasso; un bianco balzare di schiume canoro; cader, ricadere, arricciarsi, spezzarsi; sparire tra il verde, tra i sassi, nel cupo e poi ricomporsi, ed ancora cadere e infrangersi in fili d’argento. In schiume, che odorano intorno e lontano di muschio. Vittorio che un giorno i miei versi saprai, che un giorno vivrai la tua vita, ed oggi spalanchi gli occhioni innocenti sull’acqua che cade che sprizza che brilla, la vita, Vittorio …oh! La vita…è lo stesso mistero”
Alberta Bellussi

 

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Sant’Antonio di Padova, nato a Lisbona(Portogallo) il 15 agosto 1195 e morto a Padova il 13 giugno 1231, si chiamava Fernando Martim de Bulhoes e Taveira Azevedo. Nato da genitori nobili, a 17 anni andò a studiare Scienze umane e teologiche a Coimbra. Nel 1220, a 25 anni, fu ordinato sacerdote a Santa Cruz. Sant’Antonio soggiornò a Padova in due momenti della sua vita: fra il 1229 e il 1230 e poi tra il 1230 e il 1231, anno della sua morte.

Miracoli di Sant’Antonio
Sant’Antonio, conosciuto come il taumaturgo, era il santo dei miracoli. Non è possibile ,oggi, stabilire il numero preciso dei miracoli compiuti da Sant’Antonio. Le prime biografie di Sant’Antonio di  Padova forniscono due versioni opposte. Mentre la “Vita Prima” presenta un’immagine sobria e terrena di Sant’Antonio, priva di miracoli, la “Benignitas” e la “Rigaldina” presentano la vita di Sant’Antonio come piena di prodigi.

 Il Santo delle cose perdune 
Sant’Antonio è noto anche come il santo delle cose perdute. Sant’Antonio, infatti, fa ritrovare le cose. Una filastrocca / preghiera recita infatti “Sant’Antonio dalla barba bianca, fammi trovare quello che mi manca”. I frati della  Basilica di Sant’Antonio conservano ancora una lettera giunta oltre 20 anni fa da Sudamerica, scritta da una signora che, indispettita con il Santo  che non faceva trovare un marito alla figlia, gettò dalla finestra la statuetta di Sant’Antonio. La statuettà colpì un passante, che diventò poi il genero della signora!

Iconografia San Antonio da Padova 
L’immagine più diffusa è quella che rappresenta Sant’Antonio da Padova nelle sembianze di un giovane religioso con in braccio Gesù Bambino. L’iconografica comprende altri simboli come il giglio, la giovinezza, il saio francescano, la fiamma, il cuore, il pane.

Ostensione del Santo
L’Ostensione del Corpo di Sant’Antonio consiste nella venerazione delle spoglie mortali di Sant’Antonio da Padova, che vengono esposte nella Cappella delle Reliquie della Pontificia Basilica di Sant’Antonio da Padova.
La prima volta che fu aperta la bara di Sant’Antonio da Padova, per opera di San Bonaventura da Bagnoregio, era l’8 aprile 1263, e fu trovata miracolosamente incorrotta la lingua del Santo. Nel 1350 il legato pontificio Guy de Boulogne collocò il corpo di Sant’Antonio nella Cappella dell’Arca e nessuno lo toccò più per oltre sei secoli. Solo nel 1981 si svolse il rito dell’Ostensione del Corpo di Sant’Antonio. Rito che si ripeterà nel 2010 quando, dopo 29 anni, devoti del Santo e pellegrini, potranno rivedere il Corpo di S. Antonio in un’urna di vetro. L’Ostensione del Santo richiama in una sola settimana, più di 200 mila fedeli tra suore, frati, parrocchiani di Padova, di tutta Italia e di varie parti del mondo, portoghesi che ricordano che Sant’Antonio è nato in Portogallo, e anche zingari, molto devoti di Sant’Antonio.
Durante l’Ostensione del Santo è possibile notare come non manchi alcuna parte dello scheletro di Sant’Antonio, a conferma del fatto che le numerose reliquie di Sant’Antonio sparse nelle chiese italiane e francesi altro non sono che dei falsi.

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Venezia è unica e lo sappiamo ed è un gioiello anch’esso unico al Mondo: la Pala d’oro.

La Basilica di San Marco ospita al suo interno la preziosa Pala d’Oro, una maestosa opera bizantina di oreficeria prodotta nel X secolo. La sua realizzazione ha richiesto una tecnica sopraffine di decorazione artistica a smalto chiamata cloisonné (sottili fili o listelli o piccoli tramezzi metallici (di solito rame), celle o alveoli (detti in francese cloisons), vengono saldati o incollati ad una lastra di supporto dell’opera da costruire; successivamente quindi, nelle zone rilevate dal metallo, viene colato dello smalto, ottenendo quindi una sorta di mosaico le cui tessere sono circoscritte esattamente dai listelli metallici).

Negli anni venne impreziosita sempre più fino a suo completamento nel XIV secolo; la struttura, posta sull’altare maggiore della Basilica, è in stile gotico in argento e oro e misura 334x212cm. Sono rappresentate numerose immagini sacre con al centro il Cristo circondato dagli Evangelisti, ai lati profeti, apostoli, arcangeli e in cornice la storia di vita di San Marco. Ma la particolarità che lascia tutti abbagliati sono le 1927 gemme che contiene: 526 perle, 330 granati, 320 zaffiri, 300 smeraldi, 183 ametiste, 75 rubini, 175 agate, 34 topazi, 16 corniole, 13 diaspri. Data la sua grande preziosità sembra strano che sia arrivata a noi senza essere stata trafugata, in realtà è stata in serio pericolo come racconta la tradizione. Napoleone, trovatosi al suo cospetto durante l’invasione, fu tratto in inganno da un “gioco” linguistico tutto Veneziano che ha permesso di salvarla; Xe tutto vero! dissero i veneziani all’Imperatore senza troppo pensare che la parola italiana “VERO” in dialetto veneto significa anche “VETRO. Napoleone, per fortuna, comprese che l’opera era tutta di vetro e quindi priva di valore e la lasciò al suo posto portando in Francia altri preziosi. Grazie a questo qui pro quo dialettale, la Pala d’Oro fu salvata, concedendoci il privilegio di poterla ammirare ancora nella sua bellissima “casa” di origine.

Alberta Bellussi

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“Stai parlando a vanvera” vuol dire parlare a vuoto, senza un senso, solo per aprir bocca.

È un detto usato in tutta Italia ma la sua origine è legata a Venezia e ad un oggetto in particolare usato dalle dame del ‘600 nella città lagunare, la cosiddetta “vanvera”.

Ma la vanvera che cosa è?  È un oggetto che era molto in voga che nella Venezia seicentesca e veniva usato dalle dame che non andavano mai in giro senza le loro ampie gonne sorrette da rigide strutture a gabbia. La vanvera era una parte integrante dei sontuosi abiti delle veneziane che veniva usata in qualsiasi occasione di festa.  Si trattava appunto di una sorta di tubicino, indossato dalle donne sotto le loro gonne sul sedere, con un palloncino contenitore alla sua estremità che serviva per contenere le possibili flatulenze delle signore che, così, non sarebbero finite nell’aria provocando spiacevoli figure per le eleganti dame. Questo attrezzo, che non mancava mai nell’outfit delle signore veneziane in occasioni come balli, feste di palazzo o cene di gala serviva sostanzialmente come contenitore di flatulenze ed era molto più comune di quello che si possa pensare.  Esisteva anche un’altra versione della vanvera; ce n’era una che veniva utilizzata sotto le coperte e che portava l’aria delle proprie flatulenze fuori dalla finestra con un tubicino in modo che la stanza restasse profumata durante la notte.  Il collegamento tra l’oggetto vanvera e il modo di dire del parlare all’aria, cioè senza senso diventa è quindi  chiaro e se inizialmente veniva usato per scherzare su questo doppio senso, con il tempo e con la scomparsa dell’oggetto della vanvera, ora è rimasto il modo di dire che usiamo sempre.

Alberta Bellussi

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In Italia ci sono alcune città molto famose per il caffè, come Napoli o Trieste, ma fu Venezia la prima città italiana a scoprirlo e nella quale arrivarono i primi chicchi.

Nel 1570 fu, infatti, Prospero Alpini, medico del console Giorgio Emo, che lo scoprì in Egitto quando il politico era impegnato lì per conto della Repubblica di Venezia. Il dottore fu il primo italiano a raffigurare la pianta su una tavola botanica e studiare i benefici dei suoi chicchi, che dopo essere stati tostati regalavano una bevanda nera e “di sapore simile alla cicoria”; il suo testo si chiamava “De Plantis Aegypty”, famoso trattato sulle piante di origine nordafricana in cui il caffè è oggetto di studio per la prima volta.

Più di un secolo dopo, nel 1683, le cose cambiarono e in Piazza San Marco aprì la prima “Bottega del caffè“ dove si vendeva la bevanda nera dal forte potere stimolante.

Nel 1720, sotto le Procuratie Nuove, viene aperto il Caffè Florian, con il nome di “Alla Veneziana trionfante” che presto cambiò il nome in Florian.  La data fissata per l’apertura fu il 26 dicembre ma intoppi burocratici la fecero spostare al 29 dicembre. Così ben presto i veneziani lo elessero a punto d’incontro, «’Ndemo da Florian!» dicevano in dialetto e così la bottega di Floriano Francescani prese il nome con cui è ancora oggi conosciuta in tutto il mondo. Sarà il primo “cafè” d’Europa; fu un successo enorme tanto che attorno alla metà del ‘700 si contano in città già oltre 220 botteghe del caffè. Da Venezia si diffondono rapidamente in tutta Italia e in Europa facendo dilagare la moda dei cafè come centro della vita mondana e intellettuale, ritrovo dove deliziarsi anche con il tabacco e la cioccolata che nel frattempo erano approdati in Occidente.  Il locale divenne subito di gran moda, grazie alla posizione, ma anche alla raffinatezza degli arredi, alla bellezza delle sue sale piene di stucchi e affreschi: qui s’incontrava la bella gente dell’epoca, ed anche i dongiovanni visto che fu uno dei primi bar aperti anche alle donne,  come Carlo Goldoni o Giacomo Casanova e, in tempi più recenti, Antonio Canova, Lord Byron, Gabriele d’Annunzio, Ernest Hemingway, solo per citarne alcuni, ma anche personaggi cinematografici come James Bond e Gwyneth Paltrow. È sopravvissuto alla caduta della ”Serenissima” e a due guerre mondiali, conservando intatto il suo fascino nei secoli. Protagonista dei maggiori capitoli della storia veneziana, fu qui, a fine ‘800, che l’allora sindaco di Venezia, Riccardo Selvatico, ebbe l’idea di organizzare un’esposizione internazionale d’arte, divenuta poi famosa con il nome di Biennale di Venezia. Nel 2020 ha compiuto 300 anni ed è stato emesso un francobollo.

Alberta Bellussi

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Una delle pietanze caratteristiche della cucina veneziana sono sicuramente le moéche; sono chiamate per la loro bontà e rarità “pepite di Venezia”, e ora se vai nel banco del pesce le trovi a 90/100 euro al chilo e sono ancor più una cosa preziosa.

Moéca è il nome che i veneziani hanno dato al granchio autoctono quando esso arriva al culmine della fase di muta. In due periodi dell’anno, primavera e autunno, il granchio si libera del carapace, la corazza che lo protegge, per costruire una corazza più grande. In quel lasso di tempo, i granchi possono essere gustati interamente, senza difficoltà, perchè sono teneri. Da questo deriverebbe anche il modo di dire “te si na moéca” che significa sei uno smidollato.

L’ambiente ideale per la crescita delle moeche è la laguna veneta che con i suoi fondi sabbiosi e le sue acque salate e salmastre, ben si presta alla proliferazione di questo morbido crostaceo, le zone comprese tra Burano, Giudecca e Chioggia sono poi specializzate nel loro allevamento.

Il termine moéca ha, però, un altro significato: esso si associa anche all’effigie del leone di San Marco alato che sorge dalle acque (el leon en moéca).

Nelle poche ore in cui il granchio muta il carapace, diventa una preziosa leccornia, una specialità della sola cucina veneziana e la sua storia è ancora per molti assai misteriosa, nonostante le moéche abbiano conosciuto un boom nei consumi a partire dall’ultimo dopoguerra. In verità questa tradizione inizia solo dopo la metà del secolo scorso perché prima, e per ben due secoli, la “produzione” di questo stranissimo granchio era un segreto professionale dei moécanti di Chioggia, scoperto grazie alla furbizia e alla costanza dei pescatori di Burano. Attualmente la produzione delle moéche avviene nella Laguna nord di Venezia dove negli ultimi decenni, per i mutamenti degli antichi bacini da pesca, sono cambiate anche le tecniche usate dai pescatori. I pescatori di moéche, chiamati “moécanti”, pescano armati di una particolare rete collocata nei fondali bassi della laguna, la “trezza”. Si lavora sempre con le serraglie, dette in passato seràie da seca, che non sono più fisse. Una volta catturate, le moéche vengono trasferite in sacchi di juta che hanno lo scopo di mantenere la giusta umidità durante il trasporto agli impianti di lavorazione. Nei casòni o casòti si compie la delicatissima fase di cernita che avviene in funzione dello stato biologico dei granchi e che si avvale della grandissima abilità dei moécanti. Questi li selezionano e immettono quelli prossimi alla muta, detti spiàntani (i moécanti conoscono ormai ogni segreto dei granchi), in grandi cassoni di legno, semisommersi, chiamati vièri, dove in breve tempo diventeranno moéche. Quanto detto vale per i maschi, perché per le femmine il ciclo evolutivo è diverso. Esse, infatti, mutano solo alla fine della primavera. La muta per le femmine coincide con l’accoppiamento dell’estate e in autunno, quando sono piene di uova, non muteranno più e, se catturate, saranno mangiate con il coràl (a vòva, le uova). E queste sono le masenéte. Questi esperti pescatori (se ne contano solo una cinquantina ogni tremila pescatori), sono talmente abili nel loro lavoro da riuscire a distinguere praticamente ad occhio una moéca da una mazaneta. Per quanto possa apparire semplice, le fasi di cernita si rivelano molto complesse ed è forse l’aspetto in cui si percepisce meglio la specificità di questo modo di pescare i granchi tipico della Laguna. Per tale motivo per le moéche è stato istituito un Presidio Slow Food, sostenuto dalla regione Veneto.

Alberta Bellussi

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Anche se sembra una parola curiosa quasi una parolaccia in realtà è un piatto di origine chioggiotta molto antico.  Prende il nome dalla pentola di terracotta sulla quale veniva cucinato che si chiama casso, da cassariola e veniva lasciata pipar su un angolo della cucina economica, oppure veniva preparato in barca dai pescatori: quando tiravano su le reti, tenevano da parte i granchi e altri crostacei o molluschi di scarsa qualità per prepararsi, in barca, una sorta di zuppetta calda.

Il cassopipa, per risultare buono, deve essere fatto minimo per sei o otto persone perché per prepararlo servono tutte le varietà possibili di molluschi: peoci, bevarasse, garuzoli, caparozoli, detti vongole veraci, e le bibarasse, capelonghe, telline e quant’altro si riesce a trovare al mercato, aggiungendo anche due o tre folpetti o due calamaretti nostrani.

Preparazione

Per prepararlo bisogna far saltare su una pentola con olio d’oliva e uno spicchio d’aglio le cappe separatamente (lavate e spurgate in acqua salata, se necessario) un tipo alla volta, oppure potete farlo più rustico lasciando le cappe;  mettere da parte il sugo di cottura formatosi, filtrandolo bene per togliere eventuali residui di sabbia, Preparare in una pentola, meglio se di terracotta per rispettare la tradizione, un abbondante soffritto con cipolla, sedano, carota e aggiungere tutti i tipi di cappe, i calamaretti e/o i folpetti, tagliati a pezzetti se troppo grandi, amalgamando il tutto.

Aggiungere quindi due bicchieri di vino bianco rimescolando energicamente, iniziare a questo punto ad aggiungere l’acqua di cottura delle cappe (recuperatene il più possibile) e spezie in quantità a piacere: cannella, noce moscata, alloro, abbondante pepe, timo e altri aromi che vi piacciono.

Abbassare al minimo la fiamma, o se avete una cucina a legna ancora meglio,  e lasciare cuocere, “pipare” appunto, con molta calma; aggiungendo mano a mano l’acqua delle cappe rimasta. Alla fine il sugo deve risultare denso.

Si può mangiare come zuppa o come condimento dei bigoi.

Alberta Bellussi

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E’ una frase questa che abbiamo usato e sentito centinaia di volte aver ascoltato

Te fasso veder mi che ora che xe” è un detto che i veneti conoscono bene e capiscono subito che quando lo sentono pronunciare sanno che c’è qualcosa che non va anzi forse meglio girare alla larga.

Questa frase, infatti, che letteralmente significa “Adesso ti faccio vedere io che ora è” è una vera e propria minaccia, usata anche bonariamente o ironicamente per rimproverare o spaventare qualcuno che si è comportato male e dovrà pagarne le conseguenze.

Ma da dove deriva questo modo di dire veneziano?

Un motivo c’è ed è legato alla storia di Venezia. Questo detto comunissimo, infatti, trae origine da un’abitudine tutta veneziana ai tempi della Serenissima rimasta nel linguaggio comune in questo detto: “”Te fasso veder mi che ora che xe”.

Nella metà del XVIII secolo in piazza San Marco nello spazio tra le colonne di San Marco e San Todaro, venivano effettuate le esecuzioni capitali.

Quest’area di San Marco è ancora oggetto di superstizione da parte dei veneziani che non vi passano mai in mezzo perché era destinata alle uccisioni ed è proprio da questo luogo che deriva il detto “Te fasso veder mi che ora che xe”.

I condannati a morte erano costretti a dare le spalle al bacino San Marco e l’ultima cosa che guardavano, appena prima di venire ammazzati, era dritto alla torre dell’orologio che avevano davanti che segnava l’ora della propria morte. Proprio da qui deriva questa minaccia di origine molto antica: “Ti faccio vedere che ore sono”, nel senso di “Ti condanno a morte” ora fa ancora parte dei modi di dire veneti in un’accezione più leggera.

Alberta Bellussi

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I Bussolai sono i biscotti tipi dell’Isola di Burano. Il loro nome deriva dalla tipica forma a ciambella con al centro un buco che in dialetto veneziano si dice “buso”. La tradizione vuole il bussolà come dolce pasquale, accuratamente preparato nelle case e portato a cucinare dai fornai. Riposto poi nelle credenze. In passato, proprio per il loro aroma vanigliato venivano utilizzati anche per profumare i cassetti della biancheria. Secondo antiche leggende, questi biscotti venivano preparati in casa dalle mogli dei pescatori e dei marinai. Quando i mariti partivano per mare, ne portavano con sé in grandi quantità, perché erano molto nutrienti e si conservavano bene, indurendosi appena con il trascorrere del tempo. Questa usanza si diffuse talmente tanto che qualcuno iniziò a produrli per venderli. Fu così che da biscotti dei marinai, i Bussolai vennero presto consumati da tutti gli abitanti di Venezia specialmente in prossimità della Pasqua. Riscossero talmente tanto successo che conquistarono il palato proprio di tutti, anche quello delle Suore del Convento di San Maffio. Si racconta, infatti, che nel XVI secolo le ecclesiastiche ricevettero l’ordine di diminuire le spese per l’acquisto dei Bussolai dato che ne consumavano troppi. Difficile resistere alla tentazione, dato che il convento sorgeva nell’Isola di Mazzorbo, a pochi metri da Burano, il maggior centro di produzione di questi biscotti. Allo stesso impasto si può dare la forma di una esse; la famosa Esse buranea.  Questo dolcetto era comodo da “mogiar” (ammollare, nel senso di pucciare) nel vin santo o nello zibibbo.

Le versioni del bussolà sono tante gli ingredienti sono sempre gli stessi variano invece le quantità di burro o quelle dello zucchero oppure la quantità delle uova. Quelli che si vedono in commercio sono di un bel colore giallo e per questo si possono utilizzare uova a pasta gialla.

INGREDIENTI

  • 300 g di burro
    • 600 g di zucchero
    • 1 kg di farina
    • 12 tuorli d’uovo
    • 10 g di sale
    • 6-7 g di lievito
    • 1 bicchierino di mistrà
    • 1 bustina di vanillina.

PREPARAZIONE

Porre la farina sulla tavola: versare al centro lo zucchero, il burro fuso, il sale e il lievito sciolto in un po’ di acqua tiepida. Tagliare la pasta a pezzetti per formare dei piccoli cerchi vuoti al centro. Sistemare i Bussolai su una teglia coperta da carta forno e infornare a 180° per 15 minuti. Abbassare poi la temperatura del forno a 150° e cuocere per altri 10 minuti. Sfornare anche se sono un po’ soffici dato che s’induriscono raffreddandosi.

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La frase “tagliare la testa al toro” significa risolvere definitivamente una questione che si protrae da tempo anche a scapito o a danno dì qualcosa o di qualcuno.

Ma da dove nasce questa espressione? Lo sai che è un detto veneziano.

Tutto iniziò nel 1162, quando il patriarca di Aquileia, Ulrico di Treven mosse alla conquista di Grado, città della Serenissima.  Il Doge di Venezia, Vitale II Michiel, reagì fortemente sconfiggendo l’esercito di Aquileia e facendo vari prigionieri tra i quali 12 prelati, 12 alleati e lo stesso Ulrico. Venezia accettò, poi, di liberare Ulrico solo dopo il pagamento di un ingente riscatto: 12 pani per i prelati, 12 maiali per gli alleati e un toro per il Patriarca. I pani vennero distribuiti alla popolazione, la carne dei maiali venne distribuita tra i Senatori e il toro, che simboleggiava il Patriarca, fu ucciso nella pubblica Piazza, tagliandogli la testa. Così, la decapitazione del toro pose fine alla diatriba tra i contendenti e assunse il significato odierno di risolvere definitivamente una controversia che si protrae da tempo. Per ridicolizzare gli aquilani, si stabilì inoltre che ogni anno un toro, 12 maiali e 12 pani dovessero essere mandati a Palazzo Ducale dove si celebrava una festa in cui gli animali, simbolo dei vinti, venivano giustiziati. Il popolo in massa seguiva con applausi e grida di eccitazione il macabro rituale. La tradizione perdurò per secoli fino a quando nel 1523 il doge Andrea Gritti abolì l’uccisione dei maiali, mantenendo solo la tradizione del “Taglio della testa del toro” e portando a tre il numero dei tori da sacrificare. La cosa si è poi trasformata in una vera e propria cerimonia che veniva fatta a Carnevale, il giovedì grasso: non si usavano più maiali e pani ma c’erano 3 tori, portati dalle due corporazioni dei Fabbri e dei Macellai, che il giovedì grasso venivano decapitati, questo segnava la chiusura di ogni lotta e dello spettacolo. Da qui la decapitazione del toro diventa quindi il simbolo della fine della diatriba tra i contendenti e da qui deriva il significato di risolvere definitivamente una controversia che si protrae da tempo, dare una fine a una cosa, una discussione, un problema.

Alberta Bellussi