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Non vi fu mai uomo, né cristiano né saracino né tartaro o pagano, che mai cercasse tanto nel mondo quanto feci io. Sono Marco Polo, veneziano, e questi sono i colori, i suoni, le luci e le fragranze del mio viaggio, destinato a continuare. Sono Marco Polo, il viaggiatore, e non ho raccontato neppure la metà di ciò che ho visto”. Il Milione

700 anni fa moriva Marco Polo considerato uno dei più grandi viaggiatori di ogni tempo, un simbolo senza tempo della inestinguibile sete di conoscenza e della necessità di scoperta mai paga degli uomini.

Il grande mercante e viaggiatore Marco Polo si spegneva nel 1324, settecento anni fa, all’età di settant’anni. Era nato a Venezia, anzi sembra in Dalmazia che al tempo era veneziana, nel 1254 da una famiglia di mercanti in affari con Costantinopoli e il Mar Nero. Sarà proprio insieme al padre Niccolò e allo zio Matteo, che Marco Polo, all’età di circa diciassette anni, partì dal sestiere veneziano di Cannaregio alla volta dell’Oriente, lungo quella che poi verrà appellata la Via della seta. Marco Polo viaggiò intraprendendo una strada lunga circa quindicimila chilometri fra andata e ritorno, nelle misteriose terre di Levante con gli occhi colmi di stupore e con la volontà di conoscere le antiche culture orientali. Il viaggio durò ventiquattro anni. In questo quarto di secolo circa, Marco Polo attraversò luoghi mitici come la Cappadocia, il Deserto dei Gobi, il Kashmir, il massiccio del Pamir, e fece tappa nelle città di Trebisonda, Baghdad, Tabriz, Samarcanda, Lanzhou, Karakorum, Pechino, Xanadu, Pagan e Costantinopoli. Frequentò anche la corte di Kublai Khan, nipote del celeberrimo Gengis Khan e Gran Khan del vastissimo Impero mongolo, svolgendo per il sovrano compiti diplomatici. Ritornato in Occidente, nel 1298 l’esploratore finì in prigione, catturato dai genovesi in Asia Minore. In carcere incontrò Rustichello da Pisa che appassionato delle vicende di Polo in Oriente decise di scriverne le memorie – adoperando la lingua d’oïl – dando vita a Il Milione, fra i più conosciuti resoconti di viaggio della storia della letteratura.

Le manifestazioni per celebrare il mercante viaggiatore saranno molte quest’anno a Venezia.

A lui sarà dedicata l’edizione 2024 del Carnevale di Venezia dal titolo “Ad Oriente, il mirabolante viaggio di Marco Polo”.

L’epopea di Marco Polo sarà al centro, anche di una mostra allestita a Palazzo Ducale di Venezia dal 6 aprile. La mostra incentrata sulla vita e le mirabolanti avventure di Marco Polo si chiamerà “I mondi di Marco Polo. Il viaggio di un mercante veneziano del Duecento” e comprenderà molti oggetti già presenti nella collezione della Fondazione Musei Civici di Venezia e tanti tesori provenienti da varie parti del mondo: manufatti, reperti e opere artistiche.

A Marco Polo saranno dedicate anche la mostra L’Asse del tempo. Tessuti per l’abbigliamento in seta di Suzhou al Museo di Palazzo Mocenigo di Venezia.

Alberta Bellussi

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Lo “Schieson  Trevisan” è, sicuramente,  un tassello importante della nostra tradizione perché era presente in tutte le case della campagna trevigiana e rappresentava lo strumento per conoscere il momento giusto per approntare le semine, per fare il buon vino, gli innesti delle piante, e le raccolte, insomma tutte quelle attività utili per programmare l’annata agricola, non per ultimo, la cura della propria persona con decotti ed erbe particolare, anche queste da raccogliere e lavorare in un particolare momento della fase lunare; ma anche fiere, mercati, appuntamenti vari della Marca Trevigiana.

Lo Schieson scandiva, con le lune, i proverbi, i consigli, gli appuntamenti, la vita della società contadina già dal ‘700. Un lunario che ha 307 anni,  è nato nel 1716 ed è l’almanacco più antico d’Italia e d’Europa.

E’ sempre stato consultato per i suoi  “pronosteghi” che raramente ha sbagliato anche alcuni che al leggerli potevano sembrare delle farneticazioni; infatti ha annunciato, nel 1797,  la fine della Serenissima e nel 1989 la caduta del muro di Berlino.

Il nome di questo calendario deriva da quello dialettale di un albero, “s-cieson”, detto anche “pisolera, s-cesson, bessoler”,  in italiano bagarolo o schiacciasassi ed è stato l’ispiratore della prima copia, “Schieson de Casacorba” , dove nasce il Sile, scritto già dal 1716-17 da un prete, si ispirava a questa grande pianta ombrosa che si alzava davanti la chiesa del paese e sotto alla quale la gente si fermava a chiacchierare e discutere.

Il calendario funzionava come una specie di amplificatore delle chiacchiere e delle critiche della gente comune e, siccome i rami flessibili del bagolaro servivano a far fruste, si proponeva anche di bacchettare o fustigare i vizi più comuni.

Dal 1744 il calendario cambiò nome in “Schieson Trevisan” e fu edito da Giovanni Pozzobon, poeta trevigiano che, da garzone di stamperia si dedicò, in età adulta, alla poesia scrivendo versi nel nativo dialetto e componendo almanacchi, che pubblicò per 42 anni dal 1744 al 1786. Tra questi il “Pronostego“, pronostico o poesia sull’anno, ricca di ironia e battute di spirito.

Come scrisse Bartolomeo Gamba, il “popolare libretto” era pieno di “buoni morali insegnamenti, giammai contraddetti da verun espressione sfuggitagli in offesa della Religione o della decenza“. Fortunatissimo divenne il lunario del Pozzobon, tanto che venne tradotto anche in spagnolo, francese e tedesco e stampato in circa 40.000 copie; e quando l’edizione fu meglio ordinata e garantita da un privilegio concesso dal Veneto magistrato dei Riformatori, lo spaccio arrivò fino alle 80.000 copie. Pozzobon modificò la pubblicazione; il suo non fu solo un semplice calendario-lunario in folio da appendere limitato alle notizie metereologiche, lo rese più piacevole con le previsioni sull’anno che divenne, anche, la parte più ghiotta per l’ironia e le battute di spirito.

Nelle campagne di Godega di S. Urbano veniva venduto o regalato ad ambulanti che vendevano filati, aghi, casa per casa con il nome di lunario di “Bepo Gobo da Casier” perché questo è il nome del mago raffigurato poco sotto il nome dell’almanacco nonché autore nominale del Pronostego.

Succedeva che nel giorno della fiera agricola che ricorreva ogni anno la prima domenica di marzo e durava tre giorni, veniva spesso regalato a chi comprava piante o sementi. Il lunario comperato veniva esposto in cucina e quello regalato veniva appeso sulla porta della stalla insieme all’icona di S. Antonio Abate (festività del 17 gennaio), noto con il nome di “Santantoni del porzel“.

Era infatti quello il giorno in cui si macellava un maiale nutrito dalla generosità di tutto il paese, perché veniva comperato dal parroco il giorno di S. Pietro e Paolo (29 giugno) e poi lasciato libero di vagare di casa in casa. Dopo essere stato nutrito dalle famiglie e dalle borgate veniva macellato il 17 gennaio, e la “porzelaria” veniva distribuita ai poveri del paese.

La Fiera di Godega di S.Urbano e tutt’ora la prima fiera importante del bestiame, di piante e sementi dopo l’inverno. C’era allora un proverbio che così recitava: “Chi vol a morosa d’istà ghe compra i fighi al primo marcà ”.. questo perché le bancarelle dei dolciumi vendevano delle corone di fichi secchi, tenuti insieme da uno spago e chiamate in dialetto “morona de fighi” che lo spasimante regalava alla sua bella come segno di preferenza.

Vari editori si succedettero nella stampa del  “Schieson Trevisan”, ed il passare degli anni non solo non l’ha scalfito, ma lo ha reso un simbolo importante della cultura, del mondo agricolo e dell’identità locale. Ora questa importante eredità è nelle mani dell’Associazione Trevisani nel mondo anche perché era il calendario dei nostri avi; quindi rappresenta, ancora oggi, un modo per non dimenticare le origini e sentirsi a casa, anche oltreoceano, conservando gelosamente la propria cultura fatta di storia, usanze, tradizioni locali. Lo Schieson Trevisan rappresenta anche un modo per non dimenticare le nostre origini e  quelle dei nostri emigrati che per sentirsi a casa anche Oltreoceano, conservano gelosamente la propria cultura fatta di storia, usanze, tradizioni locali; è infatti ricercatissimo tra gli immigrati veneti che vivono per il mondo, oltre che nella Marca Trevigiana, che  è persino andato sullo spazio, caricato nello Space Shuttle, assieme ai semi del radicchio, durante la missione STS-95 del 1998, nell’ambito del progetto Sem della Nasa, mirato alla sperimentazione degli effetti della microgravità sui semi e sulle piante.

Lo Schieson Trevisan rappresenta un ponte importante tra passato, presente e futuro, in un foglio dal sapore antico da appendere in un luogo facile da consultare, contiene un concentrato di Veneto:  tradizioni, consigli, previsioni, proverbi simpatici tutto in dialetto e spesso con una rima ironica e simpatica, continuare a tener viva questa tradizione di  “Bepo Gobo” e il suo lunario, giorno dopo giorno; sarebbe bello farlo conoscere e veicolare il suo valore iconico e simbolico  anche i giovani di oggi perché siano anch’essi dei custodi gelosi delle radici del nostro albero e che a loro volta lo continuino a tramandare di generazione in generazione come accade dal 1717.

Alberta Bellussi

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Si parla di Halloween ma in Veneto da secoli esiste l’antica tradizione della ‘suca baruca’ o ‘Lumera, nei giorni dei morti e dei santi,  1-2 novembre, venivano posizionate nei pressi di siepi e cimiteri per attirare le anime dei defunti. Nei secoli scorsi, infatti, nel mondo contadino si usava intagliare le zucche arancioni, per poi inserirci all’interno delle candele; venivano quindi esposte sui davanzali o lungo i fossi e prendevano il nome di “SUCHE BARUCHE” o “LUMERE”. Si credeva che così si illuminasse la strada per le anime dei defunti e confondessero gli spiriti più dispettosi e negativi.

La sera, i ragazzi si divertivano ad andare in giro con queste zucche per spaventare i passanti soprattutto nei pressi dei cimiteri; poi andavano di casa in casa a chiedere frutta secca, nocciole e castagne. La varietà era la zucca Marina di Chioggia, una varietà di zucca tipica del Veneto caratterizzata dalla spessa buccia verde-grigia, rugosa e bitorzoluta… una zucca dall’aria un po’ scontrosa, con quelle sue coste bitorzolute che ricordano molto il viso di vecchie streghe. Non per nulla una delle ipotesi relative al suo nome deriva proprio dall’assonanza fra verruca e barucca. Verruca deriva dal latino veruca, che significa, giust’appunto, escrescenza. Ma ci potrebbe essere anche un’altra strada, che porta alla tradizione ebraica, a quel baruch che significa santo, quasi a santificare la capacità della zucca di sfamare i contadini nel difficile periodo invernale.

L’importante era non vedere una suca baruca quando dentro vi si trovava uno spirito perché si rischiava di perdere il senno.

La sera, i ragazzi si divertivano ad andare in giro con le suche baruche per spaventare i passanti e far loro dei dispetti, appostandosi soprattutto nei pressi dei cimiteri. Poi andavano di casa in casa a chiedere frutta secca, nocciole e castagne e se non ricevevano niente facevano un piccolo scherzo. In alcune zone si indossavano costumi per confondersi con i morti.

In ogni famiglia, inoltre, si preparava “el piato dei morti” con castagne, dolci (i osi dei morti), marroni, fave, patate “mericane” e altre pietanze, che si lasciavano sopra al tavolo della cucina come dono per le anime dei parenti in visita; sopra il comodino si metteva invece un bicchiere d’acqua, di latte o vino. Volendo, cibi e bevande potevano essere lasciati sul davanzale per ristorare le anime.

Un altro aspetto della tradizione prevedeva poi la preparazione di ricette tradizionali e piccoli rituali.

Alberta Bellussi

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Lo sai che a Venezia c’è un cuore rosso di pietra che porta fortuna agli innamorati, per trovarlo bisogna andare nel Sestriere di Castello nel  Sotoportego dei Preti. Dietro a questo cuore c’è una leggenda un po’ particolare che narra come in quel luogo abitasse un giovane pescatore. Una notte mentre tornava dalla pesca trovò impigliato, nelle sue reti, una sirena; la trainò a riva.  Lei disse di chiamarsi Melusina. I due parlarono per molte notti e finì che si innamorano e decisero di sposarsi. La sirena però si fece promettere che non si sarebbero mai visti di sabato prima del matrimonio. Il pescatore accettò, ma preso dalla voglia di vedere la sua amata, un sabato si recò in riva per vederla e trovò un serpente. Il serpente allora raccontò di essere Melusina colpita da un maleficio, dal quale si sarebbe liberata con il matrimonio. I due si sposarono ed ebbero tre figli, ma Melusina morì giovane e il pescatore rimase solo con i tre figli da mandare avanti.

Tuttavia, ogni volta che il pescatore tornava a casa la trovava completamente sistemata. Per capire chi lo aiutasse una sera tornò a casa prima e vi trovò un serpente in cucina, che uccise per lo spavento. Da quel momento la casa non fu più messa in ordine e solo allora egli capì che il serpente era l’anima della sua sirena che tornava ogni giorno per aiutarlo. In ricordo di questi grande amore fu messa appunto nel Sotoportego dei Preti la pietra rossa a forma di cuore che, se toccata, si dice  che porti fortuna agli innamorati.

Alberta Bellussi

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Fin da prima del mille le navi veneziane solcavano il Mediterraneo verso l’Egitto. La stessa leggenda della traslazione delle reliquie dell’evangelista Marco da Alessandria d’Egitto ad opera di Bono da Malamocco e Rustico da Torcello testimoniano l’esistenza di un consolidato itinerario marittimo che collegava Venezia ad Alessandria. Le relazioni diplomatiche e commerciali continuarono per secoli, a testimonianza ci sono dei documenti, datati 1200, che testimoniano gli accordi di pace stretti tra i due stati. I traffici con l’Egitto erano di capitale importanza per Venezia come detto espressamente da Innocenzo III quando, nel 1198, permise di continuare il commercio nonostante fossero in corso i preparativi per la crociata. Olio, vino, miele, frutta, ambra, stoffe, pellicce, vetri e manufatti in legno erano alcuni dei prodotti che i Veneziani, portarono in Egitto, insieme ai famosi ducati che in certi momenti avevano più potere dell’oro. Mentre i Veneziani erano soliti comprare zucchero e datteri, spezie, tessuti.

Ma chi erano i Mamelucchi?

I Mamelucchi erano degli schiavi al servizio dei diversi califfi, impiegati nell’amministrazione e nell’esercito. Essi formavano una vera e propria casta che doveva rispettare un iter ben preciso per poter passare dallo stato di schiavi a quello di cittadini liberi. Per circa due secoli, XIII- XVI sec., i Mamelucchi guidarono l’Egitto e si succedettero a numerosi sovrani. Anche se spesso, si creavano lotte interne e sanguinose ribellioni per la conquista del potere, i Mamelucchi garantirono un periodo di prosperità all’Egitto, favorendo il commercio sul Mediterraneo e con Venezia.

( A proposito di Egitto una piccola curiosità che riguarda le origini della mia famiglia molti secoli sono trascorsi (XVI sec) da quando, come narra una leggenda, una ricca signora venuta da Alessandria d’Egitto, carica d’oro, con cammelli,  largo seguito e con i figli si fermò a Tezze di Vazzola e con la sua progenie diede inizio alla stirpe dei Bellussi).

I MAMMALUCCHI DI CARNEVALE:

I mammalucchi sono, invece, delle frittelle inventate nel 1970, e che in poco tempo sono diventate molto famose a Venezia, in particolar modo durante il periodo del Carnevale.  Questi dolcetti fritti (con crema, uvetta e scorza d’arancia) sono una vera specialità, seppur la storia dietro alla loro nascita sia un po’ meno “romanzata” di quello che si crede. Parola del creatore dei mammalucchi, Sergio Lotto, il quale recentemente ha dichiarato come le sue frittelle non siano nate per errore, tutt’altro. Il pasticcere ha puntualizzato come i suoi mammalucchi siano nati negli anni 70 nella pasticceria Bonifacio, poi la ricetta è stata lasciata anche ai “concorrenti” della Targa. Entrambi continuano a farli. Niente errori insomma, nemmeno l’esclamazione “Che mammalucco che sono stato”, epiteto che Lotto si sarebbe affibbiato per la svista. Il resto è storia: corresse ad occhio le dosi e invece di cuocerlo al forno, come inizialmente previsto, ci aggiunse della crema e finì per friggerlo. Inutile chiedere la ricetta dei mammaluchi non viene diffusa: si sa che gli ingredienti sono farina, zucchero, uova, burro, uva passa e cubetti di arancio e che ad arricchire l’impasto c’è una morbida crema aromatizzata all’arancia.

Il risultato è una preparazione che richiama più alla tradizione araba dei dolci di strada che a quella delle tonde frittelle: la forma infatti è a cilindro, cui la frittura conferisce una doratura perfetta e una croccantezza che non arriva all’interno ma si limita a rendere fragrante la superficie.

Ti xe un mamauco :  si intende una persona stupidotta, sciocca, anche se allo stesso modo a essere definito così è l’impasto un po’ “strambo”, Sergio Lotto l’ha descritto così,  alla base delle frittelle (farina, zucchero, farina burro uvetta e scorza d’arancia).  Non c’è una spiegazione semantica, che rimanda ai soldati delle milizie turche egiziane,  ma fonica; “mammalucco” è una parola il cui suono, nella nostra lingua, già da sé dipinge lo sciocco. La terminazione in “ucco” è propria di diversi spregiativi derisori. I linguisti, in questi casi, parlano di “simbolismo fonetico”: una parola disegna il suo significato col suo suono. Questo fatto ci invita a differenziare il modo di scrivere questa parola a seconda del senso: il mamelucco indicherà più facilmente il nome della milizia, il mammalucco, quello dello sciocco.

Alberta Bellussi

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Venezia è unica e uno degli aspetti che sempre osservo e che mi affascina è come, già tanti secoli fa, fosse riuscita a far convivere “Credo religiosi” totalmente diversi in uno spazio così piccolo. Venezia già da secoli esempio di tolleranza e di rispetto dell’altro. La vita religiosa ha avuto importanza pari a quella politica ed economica. Partendo dalle origini, passando dalle splendide epoche del ‘500 e del ‘700, fino ad arrivare ai nostri giorni, doge, patriarca e commercianti hanno costituito la base per lo sviluppo della città e della sua laguna, rendendola “unica”.

La ricchezza della supremazia religiosa a Venezia ha lasciato tracce dovunque e non soltanto grazie alla civiltà cattolica, che conta 137 chiese, ma anche a quella ebraica, greca e  armena, che hanno contribuito in maniera determinante alla crescita culturale ed artistica della città.

Il ghetto di Venezia, è importantissimo riferimento per gli ebrei e storicamente fu il primo.  il Museo Ebraico è ricco di importanti manifatture orafe e tessili databili tra il XVI e XIX secolo, e le Sinagoghe, gioielli risalenti al 1500 difficilmente riconoscibili dall’esterno. Per comprendere pienamente l’anima del quartiere è possibile dormire alla Locanda del Ghetto, mangiare al Kosher Club Le Balthazar, gustare o comprare specialità ebraiche alla caffetteria del Museo, al panificio Volpe o a quello dei Fratelli Albonico.

Nell’Isola di San Lazzaro, poco lontano dal bacino di San Marco, vivono i padri mekhitaristi armeni, dal XVI secolo, qui ci sono i tesori di uno dei primi centri della loro cultura: il monastero, i giardini, la biblioteca ricca di preziosi manoscritti, la pinacoteca e il museo.

A Venezia è presente anche una numerosa comunità di greci-ortodossi vive e si muove intorno alla Chiesa di San Giorgio, che costituisce da secoli il centro religioso e nazionale dell’ellenismo della città lagunare. La sua costruzione risale al 1564 e vanta nomi di architetti famosi, quali Sante Lombardo, Giannantonio Chiona e Bernard Ongarin, al quale si deve la costruzione del campanile inclinato. Eccezionali sotto il profilo artistico sono anche i mosaici all’interno della chiesa, opere di rinomati artisti post-bizantini. Il quartiere dei greci è arricchito dal palazzo del Collegio Flangini, dal 1951 sede dell’Istituto Ellenico di Studi Bizantini e Postbizantini, che per secoli ha inviato i suoi chierici ed insegnanti in numerose regioni dell’oriente.

La comunità Valdese di Venezia si costituisce nel Natale 1867 e un anno dopo si inaugura la sede del settecentesco Palazzo Cavagnis, che oggi accoglie anche un attivo centro culturale e una foresteria. Intense e frequenti le occasioni di collaborazione con la Chiesa Luterana, ma nel corso del tempo è con la Chiesa Metodista che si condividono attività, programmi e cura pastorale, fino a quando nel 1977 le due comunità stipulano una convenzione che permette di mantenere le proprie specificità pur essendo inseriti in un’unica organizzazione locale.

Alla comunità evangelica sono dedicate due chiese. In Campo Santi Apostoli si trova la Chiesa Evangelica Luterana, che oggi ospita lezioni di canto gospel, la cui comunità è la prima presente in Italia, già ai tempi della Riforma. Oggi si contano circa 7000 membri, in buona parte di origine tedesca.

Ricavata nel corpo di un antico palazzo patrizio, ristrutturato e riadattato per l’uso, la chiesa anglicana Saint George’s si trova in campo San Vio ed è frequentata da una comunità piccola ma molto attiva. E’ utilizzata spesso per matrimoni di coppie soprattutto inglesi, che possono fare riferimento anche al vicino consolato, ai piedi del Ponte dell’Accademia. All’esterno della chiesa, a ridosso delle porte bronzee, vi sono alcune statue che commemorano i soldati inglesi caduti a Venezia durante la seconda guerra mondiale.

Un crocevia di popoli e fedi che hanno contribuito ad arricchire il patrimonio artistico e culturale di Venezia facendone una città unica al mondo.

Alberta Bellussi

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La parola Venezia in arabo si dice al-Bunduqiya.

Venezia è l’unica città europea ad avere un nome arabo e questo semplice ma importantissimo aspetto sottolinea quanto la Serenissima sia stata per lunghi secoli la principale cerniera di raccordo fra l’Europa e l’Oriente, fra la Cristianità e il vasto mondo musulmano affacciato sul Mediterraneo. Dal Mille alla fine dello Stato veneziano (1797) l’evoluzione del rapporto fra Venezia e il mondo arabo e turco è viaggiato sul binario dei commerci della Serenissima, dei pellegrinaggi e delle crociate, degli scontri ma anche delle alleanze, delle peripezie degli schiavi e dei convertiti. Rapporti tra mondi lontani tessuti da una gerarchia di personaggi molto importanti che permisero per secoli il consolidarsi e il relazionarsi; erano gli ambasciatori con i loro cerimoniali, i dragomanni e i consoli, i mercanti con i loro fondachi, i marinai e gli schiavi, i pirati e le spie.  Un viavai di persone e merci che disegnava, un secolo dopo l’altro, un quadro vivido di contiguità, di familiarità, di relazioni tra mondi diversi ma non necessariamente ostili.

Sul perché gli arabi chiamano la Serenissima con il nome di “al-Bunduqiyah” (البندقيية) ci sono diverse teorie:

1) “al-bunduq” significa fucile e la Repubblica era famosa per le esportazioni dell’arma da fuoco ma è la spiegazione meno seguita.

2) “al-bunduq” significa nocciola/nocciolo e Venezia nell’antichità era chiamata Olivolo per la forma di oliva di una delle sue isole maggiori (oliva/nocciolo)

3) la parola “al-bunduqiyah” sarebbe l’arabizzazione della parola latina “veneticus”, in arabo non esiste la lettera “V” ed è plausibile che fosse stata traslitterata con la “B” al posto della V. Quindi: Veneticus/Benediticus/Bunduqiyah, la spiegazione più seguita e plausibile.

Venezia per la sua grande potenza commerciale divenne il centro europeo più sviluppato per le relazioni con l’Oriente e per questo necessitava di un nome arabo.

Alberta Bellussi

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Una storia affascinante la loro che ho conosciuto vedendo un’intervista su una tv straniera; sono gli ultimi testimoni di un mondo che non esiste più ma che sono anche la dimostrazione concreta di una Repubblica Serenissima dal passato imponente.

Gli italo-levantini sono discendenti di antiche famiglie di mercanti, banchieri, notai, diplomatici e commercianti insediatisi nel Mediterraneo orientale dai tempi delle crociate e delle Repubbliche marinare italiane. Sono i membri di un’antica comunità d’origine italiana radicata da secoli in Medio Oriente, in particolare nell’attuale Turchia, specialmente a Istanbul (l’antica Costantinopoli) e Smirne, centri economici importanti dell’Impero ottomano.

Vennero definiti “levantini”, ovvero “italiani del levante”, nei decenni intorno alla prima e alla seconda guerra mondiale.

Genovesi e veneziani tantissimi e in piccola parte amalfitani e pisani, giunti al tempo delle crociate e delle repubbliche marinare appunto, che vivevano al fianco dei greci, armeni, francesi, maltesi, olandesi e britannici. Erano tutti uniti da un comune denominatore: provenire da occidente e vivere in una città del Mediterraneo orientale, come Costantinopoli e poi Istanbul, Salonicco, Alessandria d’Egitto, Candia, Giaffa.

Questa piccola comunità di discendenti, per la maggior parte dai coloni genovesi e veneziani si trasferirono a vivere nei fondachi orientali delle repubbliche marinare, principalmente per commercio e controllo del traffico marittimo tra l’Italia e l’Asia, una sorta di diplomatici del passato.

Le loro principali caratteristiche sono quelle di avere mantenuto la fede cattolica pur vivendo in un paese prevalentemente musulmano, di continuare a parlare l’italiano tra loro (pur esprimendosi in turco, greco o francese nei rapporti sociali) e di non essersi minimamente mescolati, con matrimoni, con le locali popolazioni turche di religione musulmana. Alcuni italo-levantini sono di religione ebraica.

Un ruolo importante svolto dai levantini è il dragomanno, ossia l’allora traduttore che generalmente erano nato a Istanbul da genitore italiano. Il suo ruolo  era quella figura di  interprete e guida, che nei secoli passati e fino ai primi del Novecento rendeva possibili i rapporti politici, commerciali e culturali degli Stati europei con l’Impero ottomano.

Oggi Smirne – città cosmopolita e più aperta di tutta la Turchia – conta forse 300 levantini doc. sui circa 1.100 italiani registrati. Si chiamano Sbisà, de Portu, Aliotti, Aliberti o Baltazzi e, malgrado il crollo dell’Impero ottomano e la nascita della Turchia moderna, hanno scelto di vivere ancora li.

Alberta Bellussi

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Il 23 giugno è infatti una notte magica, durante la quale tradizionalmente si prepara l’acqua di San Giovanni per raccogliere la rugiada degli Dei. La leggenda vuole che l’acqua di San Giovanni possieda virtù curative protettrici e che porti salute, fortuna e amore.

La magia della notte di San Giovanni

Il 23 giugno, la notte che precede la nascita di San Giovanni Battista, è da sempre considerata una notte magica, durante la quale si celebrano riti propiziatori e purificatori. La magia è legata al solstizio d’estate, che segna l’inizio della nuova bella stagione. Il solstizio d’estate cade nel giorno più lungo dell’anno e in questo periodo la natura giunge al massimo splendore. Nonostante la forte rinascita, bisogna prestare attenzione agli eventi sfortunati come siccità, forti temporali o malattie delle piante, che rovinerebbero i raccolti.

Per scongiurare le avversità, si fanno falò propiziatori che rappresentano il sole e si prepara l’acqua di San Giovanni per raccogliere la rugiada, che simboleggia la luna. L’acqua di San Giovanni porterebbe fortuna e prosperità grazie all’incredibile potenza dei fiori e sarebbe in grado di proteggere i raccolti, allontanando le calamità.

Come si prepara l’acqua di San Giovanni

L’acqua di San Giovanni si prepara per sfruttare la forza e la potenza di piante e fiori intrisi della rugiada degli Dei. Si crede infatti che durante la notte di San Giovanni cada la rugiada degli Dei, capace di influenzare piante e fiori donando loro una particolare forza: il solstizio d’estate sarebbe la porta attraverso cui gli Dei fanno passare i nuovi nati, proprio sotto forma di rugiada.

La leggenda vuole che questa acqua magica porti fortuna, amore e salute, che sia capace di allontanare malattie e calamità e di proteggere i raccolti.

Per preparare l’acqua di San Giovanni bisogna raccogliere una misticanza di erbe e fiori spontanei. Nella scelta dei fiori e delle erbe non esiste una vera e propria regola. Generalmente ci si lascia ispirare dal proprio istinto scegliendo tra le specie che si hanno a disposizione.

Generalmente in questo periodo si raccolgono i fiori di iperico, lavanda, artemisia e malva e fiori e foglie di menta, rosmarino e salvia. Si possono trovare e raccogliere anche i fiordalisi, i papaveri, le rose o la camomilla, in base alle fioriture presenti nel proprio territorio.

Si raccomanda di rispettare la natura durante la raccolta delle erbe, di non raccogliere quantità eccessive di esemplari e di non estirpare le piante alla radice.

Dopo il tramonto, le erbe raccolte vanno messe in acqua e si lasciano all’esterno per tutta la notte, così che possano assorbire la rugiada del mattino. Le erbe raccoglieranno la rugiada e da essa acquisiranno proprietà magiche.

La mattina del 24 giugno, l’acqua di San Giovanni si utilizza per lavare mani e viso, in una sorta di rituale propiziatorio e di purificazione che porterà amore, fortuna e salute.

Alberta Bellussi

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Ci sono varie spiegazioni ma tutte molto simili. Venezia a partire dal Medioevo era dotata di una particolare autonomia politica e iniziò a godere di una grande prosperità, frutto delle sue attività marittime. La città venne quindi classificata come una Repubblica Marinara, insieme ad Amalfi, Genova e Pisa. La forte autonomia di Venezia era ben organizzata attorno a diverse istituzioni, guidate dal Doge, che era il massimo esponente politico della città. Le sue funzioni erano però limitate alla gestione delle guerre e della flotta mercantile, mentre il resto delle funzioni rimaneva in mano del Maggior Consiglio, il principale organo politico della città. E’ proprio attorno alla figura del Doge che il nomignolo La Serenissima pare essersi diffuso per designare la città. Pare infatti che il Doge venisse definito dagli abitanti della città come serenissimo e che questa definizione si sia poi allargata per definire l’intera città.

Un’altra ipotesi considera   il clima che si poteva respirare nella città lagunare durante i suoi anni d’oro: un commercio sviluppatissimo che raggiungeva l’Est del mondo, abilità nautiche uniche, un’organizzazione perfetta e ovviamente un’economia estremamente rigogliosa, capace dunque di donare una tanto agognata prosperità ai suoi abitanti. In questo contesto pare che in città si sviluppò un particolare sentimento di tolleranza, soprattutto nei confronti degli stranieri che giungevano a Venezia per motivi legati alla sua economia venissero accolti con particolare calore. In città regnava dunque un clima di pace e tranquillità così sentito, che riuscì a rimanere indipendente e “serena” sino al XVIII secolo, nonostante l’invasione turca in atto; questo fece in modo ch  l’appellativo “La Serenissima” riuscì a giungere sino ai giorni nostri. Un’ultima versione lega la nascita di questo appellativo al titolo posseduto dai reggenti di Bisanzio, che venivano appunto definiti Serenissimi. Venezia infatti dipese dai reggenti formalmente sino al 1453, anno durante il quale Bisanzio è definitivamente caduta, lasciando però il nomignolo in eredità alla città. Venezia anche ora è Serenissima e rende serenissimo l’animo.

 

Alberta Bellussi