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Una storia affascinante la loro che ho conosciuto vedendo un’intervista su una tv straniera; sono gli ultimi testimoni di un mondo che non esiste più ma che sono anche la dimostrazione concreta di una Repubblica Serenissima dal passato imponente.

Gli italo-levantini sono discendenti di antiche famiglie di mercanti, banchieri, notai, diplomatici e commercianti insediatisi nel Mediterraneo orientale dai tempi delle crociate e delle Repubbliche marinare italiane. Sono i membri di un’antica comunità d’origine italiana radicata da secoli in Medio Oriente, in particolare nell’attuale Turchia, specialmente a Istanbul (l’antica Costantinopoli) e Smirne, centri economici importanti dell’Impero ottomano.

Vennero definiti “levantini”, ovvero “italiani del levante”, nei decenni intorno alla prima e alla seconda guerra mondiale.

Genovesi e veneziani tantissimi e in piccola parte amalfitani e pisani, giunti al tempo delle crociate e delle repubbliche marinare appunto, che vivevano al fianco dei greci, armeni, francesi, maltesi, olandesi e britannici. Erano tutti uniti da un comune denominatore: provenire da occidente e vivere in una città del Mediterraneo orientale, come Costantinopoli e poi Istanbul, Salonicco, Alessandria d’Egitto, Candia, Giaffa.

Questa piccola comunità di discendenti, per la maggior parte dai coloni genovesi e veneziani si trasferirono a vivere nei fondachi orientali delle repubbliche marinare, principalmente per commercio e controllo del traffico marittimo tra l’Italia e l’Asia, una sorta di diplomatici del passato.

Le loro principali caratteristiche sono quelle di avere mantenuto la fede cattolica pur vivendo in un paese prevalentemente musulmano, di continuare a parlare l’italiano tra loro (pur esprimendosi in turco, greco o francese nei rapporti sociali) e di non essersi minimamente mescolati, con matrimoni, con le locali popolazioni turche di religione musulmana. Alcuni italo-levantini sono di religione ebraica.

Un ruolo importante svolto dai levantini è il dragomanno, ossia l’allora traduttore che generalmente erano nato a Istanbul da genitore italiano. Il suo ruolo  era quella figura di  interprete e guida, che nei secoli passati e fino ai primi del Novecento rendeva possibili i rapporti politici, commerciali e culturali degli Stati europei con l’Impero ottomano.

Oggi Smirne – città cosmopolita e più aperta di tutta la Turchia – conta forse 300 levantini doc. sui circa 1.100 italiani registrati. Si chiamano Sbisà, de Portu, Aliotti, Aliberti o Baltazzi e, malgrado il crollo dell’Impero ottomano e la nascita della Turchia moderna, hanno scelto di vivere ancora li.

Alberta Bellussi

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Il 23 giugno è infatti una notte magica, durante la quale tradizionalmente si prepara l’acqua di San Giovanni per raccogliere la rugiada degli Dei. La leggenda vuole che l’acqua di San Giovanni possieda virtù curative protettrici e che porti salute, fortuna e amore.

La magia della notte di San Giovanni

Il 23 giugno, la notte che precede la nascita di San Giovanni Battista, è da sempre considerata una notte magica, durante la quale si celebrano riti propiziatori e purificatori. La magia è legata al solstizio d’estate, che segna l’inizio della nuova bella stagione. Il solstizio d’estate cade nel giorno più lungo dell’anno e in questo periodo la natura giunge al massimo splendore. Nonostante la forte rinascita, bisogna prestare attenzione agli eventi sfortunati come siccità, forti temporali o malattie delle piante, che rovinerebbero i raccolti.

Per scongiurare le avversità, si fanno falò propiziatori che rappresentano il sole e si prepara l’acqua di San Giovanni per raccogliere la rugiada, che simboleggia la luna. L’acqua di San Giovanni porterebbe fortuna e prosperità grazie all’incredibile potenza dei fiori e sarebbe in grado di proteggere i raccolti, allontanando le calamità.

Come si prepara l’acqua di San Giovanni

L’acqua di San Giovanni si prepara per sfruttare la forza e la potenza di piante e fiori intrisi della rugiada degli Dei. Si crede infatti che durante la notte di San Giovanni cada la rugiada degli Dei, capace di influenzare piante e fiori donando loro una particolare forza: il solstizio d’estate sarebbe la porta attraverso cui gli Dei fanno passare i nuovi nati, proprio sotto forma di rugiada.

La leggenda vuole che questa acqua magica porti fortuna, amore e salute, che sia capace di allontanare malattie e calamità e di proteggere i raccolti.

Per preparare l’acqua di San Giovanni bisogna raccogliere una misticanza di erbe e fiori spontanei. Nella scelta dei fiori e delle erbe non esiste una vera e propria regola. Generalmente ci si lascia ispirare dal proprio istinto scegliendo tra le specie che si hanno a disposizione.

Generalmente in questo periodo si raccolgono i fiori di iperico, lavanda, artemisia e malva e fiori e foglie di menta, rosmarino e salvia. Si possono trovare e raccogliere anche i fiordalisi, i papaveri, le rose o la camomilla, in base alle fioriture presenti nel proprio territorio.

Si raccomanda di rispettare la natura durante la raccolta delle erbe, di non raccogliere quantità eccessive di esemplari e di non estirpare le piante alla radice.

Dopo il tramonto, le erbe raccolte vanno messe in acqua e si lasciano all’esterno per tutta la notte, così che possano assorbire la rugiada del mattino. Le erbe raccoglieranno la rugiada e da essa acquisiranno proprietà magiche.

La mattina del 24 giugno, l’acqua di San Giovanni si utilizza per lavare mani e viso, in una sorta di rituale propiziatorio e di purificazione che porterà amore, fortuna e salute.

Alberta Bellussi

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Ci sono varie spiegazioni ma tutte molto simili. Venezia a partire dal Medioevo era dotata di una particolare autonomia politica e iniziò a godere di una grande prosperità, frutto delle sue attività marittime. La città venne quindi classificata come una Repubblica Marinara, insieme ad Amalfi, Genova e Pisa. La forte autonomia di Venezia era ben organizzata attorno a diverse istituzioni, guidate dal Doge, che era il massimo esponente politico della città. Le sue funzioni erano però limitate alla gestione delle guerre e della flotta mercantile, mentre il resto delle funzioni rimaneva in mano del Maggior Consiglio, il principale organo politico della città. E’ proprio attorno alla figura del Doge che il nomignolo La Serenissima pare essersi diffuso per designare la città. Pare infatti che il Doge venisse definito dagli abitanti della città come serenissimo e che questa definizione si sia poi allargata per definire l’intera città.

Un’altra ipotesi considera   il clima che si poteva respirare nella città lagunare durante i suoi anni d’oro: un commercio sviluppatissimo che raggiungeva l’Est del mondo, abilità nautiche uniche, un’organizzazione perfetta e ovviamente un’economia estremamente rigogliosa, capace dunque di donare una tanto agognata prosperità ai suoi abitanti. In questo contesto pare che in città si sviluppò un particolare sentimento di tolleranza, soprattutto nei confronti degli stranieri che giungevano a Venezia per motivi legati alla sua economia venissero accolti con particolare calore. In città regnava dunque un clima di pace e tranquillità così sentito, che riuscì a rimanere indipendente e “serena” sino al XVIII secolo, nonostante l’invasione turca in atto; questo fece in modo ch  l’appellativo “La Serenissima” riuscì a giungere sino ai giorni nostri. Un’ultima versione lega la nascita di questo appellativo al titolo posseduto dai reggenti di Bisanzio, che venivano appunto definiti Serenissimi. Venezia infatti dipese dai reggenti formalmente sino al 1453, anno durante il quale Bisanzio è definitivamente caduta, lasciando però il nomignolo in eredità alla città. Venezia anche ora è Serenissima e rende serenissimo l’animo.

 

Alberta Bellussi

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Nel Medioevo le reliquie dei santi furono protagoniste di un momento davvero importante e straordinario per quanto riguarda il culto tanto che sono presenti in numerose chiese italiane e europee; attorno a queste reliquie si raccontano storie e avvenimenti spesso chiamati miracoli.
Era il 1261 quando nacque la Scuola Grande di San Giovanni Evangelista, nella forma di una confraternita che era la più importante istituzione laica della città.
In questa Scuola è conservata la reliquia della Santa Croce che è la testimonianza più significativa presente a Venezia, dopo il corpo di San Marco. Attorno a essa e ai suoi numerosi miracoli si sono concentrare una serie di narrazioni: le più belle e importanti sono quelle raffigurate da alcuni fra i più grandi artisti della scuola pittorica veneziana – Carpaccio, Bellini, Mansueti, Bastiani – tutti ammirabili, fortunatamente, alle Gallerie dell’Accademia. Quella della Scuola di San Giovanni è l’unica reliquia che ha prodotto miracoli in città, tanto che sono raccolti negli scritti e rappresentati nei quadri. Due cicli pittorici furono commissionati nel 1420 a Jacopo Bellini, ma ebbero vita assai breve; andarono infatti rovinati e nell’ultimo decennio del secolo Gentile Bellini, figlio di Jacopo, ed i suoi collaboratori diedero inizio ai “Miracoli della Reliquia della Croce” destinati a sostituire i precedenti.
Il “legno della Croce” fu sottratto furtivamente a Gerusalemme da alcuni monaci ciprioti, al tempo delle Crociate, passato di mano in mano, fino ad essere affidato al Patriarca di Costantinopoli che prima di morire lo diede al suo Cancelliere Filippo de Mezieres, che nel 1369, si trovava a Venezia e donò la reliquia ad Andrea Vendramin, Guardiano Grande della Confraternita. La Serenissima fece un atto pubblico di donazione durante una celebrazione solenne venne dichiarato che si trattava proprio del legno della Croce di Gesù.
I due frammenti della Croce vennero racchiusi in un meraviglioso reliquiario in cristallo di rocca e argento dorato, del 1371, capolavoro dell’oreficeria gotica veneziana tutt’ora gelosamente conservato nell’Oratorio della Scuola Granda di San Giovanni Evangelista.
La confraternita, grazie alla reliquia della croce, divenne famosissima e con il crescere dell’importanza dovette dotarsi di una sede consona. L’edificio che la ospitava e tutt’ora la ospita, divenne ben presto uno dei più belli e ricchi della città con opere d’arte dal valore immenso, tutte aventi per oggetto la famosa reliquia.
Ogni 14 settembre, la Scuola Grande di San Giovanni Evangelista celebra con solennità la Festa dell’Esaltazione della Santa Croce. Durante i festeggiamenti, come da tradizione secolare, la Reliquia viene portata in una solenne processione dalla Basilica dei Frari alla Scuola Grande Giovanni Evangelista, con partecipazione delle Scuole Grandi e delle Confraternite di Venezia in veste propria.
Alberta Bellussi

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Sulle origini della parola “pantalone” ci sono varie ipotesi: potrebbe derivare da San Pantaleone, che ebbe grande devozione a Venezia, oppure da “pianta-leone”, che era l’atto con cui i soldati e i ricchi mercanti veneti “piantavano” lo stendardo della Serenissima in ogni territorio conquistato che rappresentava per l’appunto il leone.
Pantalone nel suo tipico travestimento carnevalesco veneziano, indossa la calzamaglia e blusa rosse, con un mantello scuro e una maschera nera dal naso adunco, tutt’uno con il cappellino floscio e rosso. Un corto spadino e la borsa contenente i denari chiamata “scarsela”. Il termine “pantaloni” riferito ai calzoni lunghi che indossiamo tutti i giorni, dunque, deriva proprio dagli abiti di questo personaggio particolare. Pare che, infatti, quelle braghe fossero così diffuse tra i popolani veneziani che anche in Francia i cittadini della Serenissima venissero chiamati con il nomignolo di “pantaloni”. Esiste anche il detto: te si un pantaeon (sei tirchio e un po ritardato).
Pantalone era un ricco mercante veneziano, burbero e avaro. Il denaro e le ricchezze sono le sue uniche preoccupazioni, che lo rendono sospettoso nei confronti di tutto e di tutti. Come tutti gli avari piange sempre miseria e fa patire la fame ai suoi servi. Non esita ad intromettersi in dispute e litigi che non lo riguardano, sputa sentenze per far sfoggio della sua autorevolezza e finisce puntualmente con l’avere la peggio.

Alberta Bellussi

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La prima forchetta della storia arrivò in territorio italiano proprio a Venezia.

Nel 1004, in occasione del matrimonio di Giovanni Orseolo, figlio del doge Pietro II Orseolo, con la principessa bizantina Maria Argyropoulaina, nipote dell’imperatore Basilio II. Nella città lagunare si stavano festeggiando i giorni del matrimonio, che suggellava una strategica alleanza tra Venezia e Costantinopoli. Gli occhi di tutti erano sulla sposa, che però fuggiva gli sguardi fino a che durante il banchetto estrasse una forchetta d’oro a due rebbi (punte) che utilizzò per portare il cibo dal piatto alla bocca. Non si era mai visto prima, a Venezia, questo strumento ma   era già utilizzato in terra bizantina.  La nobiltà veneziana, in un primo momento, lo vide come espressione dell’atteggiamento snob della principessa, quasi a rimarcare la differenza tra Venezia, terra di pescatori e commercianti, e la sua città d’origine.

Questo strumento venne chiamato con il nome di “piròn”, dal greco “Πιρούνι” che, tradotto in alfabeto latino, è “Pirouni” (e si legge “Piruni”). Ovviamente i Veneti, importando tale attrezzo, hanno visto bene di mantenere il nome originale, chiamandolo “Piron”. Il termine forchetta non è altro che il nome in italiano derivante da “piccola forca”.

E così il “piròn” fu la prima forchetta della storia italiana nel 1071, quando per il matrimonio del doge Domenico Selvo, la sua sposa (un’altra principessa bizantina, Teodora Anna Doukaina) introdusse la forchetta non solo nelle occasioni ufficiali, ma anche nella cerchia delle famiglie più importanti della città come strumento per mangiare.

Qualcuno lo ritenne strumento diabolico e perverso, come San Pier Damiani, che nella sua opera “De institutione monialis”, descriveva scandalizzato il comportamento di Teodora durante il suo matrimonio: “Non toccava le pietanze con le mani ma si faceva tagliare il cibo in piccolissimi pezzi dagli eunuchi. Poi li assaggiava appena, portandoli alla bocca con forchette d’oro a due rebbi”.

Insomma questo piccolo strumento, così quotidiano e dal facile utilizzo oggigiorno ha una sua storia particolare legata alla Serenissima.

Alberta Bellussi

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Entrare nella Basilica di San Marco è un po’ come uno scrigno pieno di segreti, curiosità e magia. La Basilica di San Marco è la basilica più bella del mondo che viene chiamata anche Cattedrale d’Oro grazie alle migliaia di tessere in oro che compongono i vari mosaici dei soffitti, uno stile che fonde il romanico e il bizantino: una croce greca con una grande cupola centrale e quattro cupole laterali.  Quando si entra si viene avvolti da un abbraccio dorato: più di 8.000 metri quadrati di mosaici in oro ricoprono il soffitto della Cattedrale. Ma anche il pavimento è poesia pura: è composto da straordinari mosaici in marmo realizzati nel XII secolo, con geometrie, forme, animali e tantissimi simboli decorativi e qualche piccolo segreto.

Proprio nel pavimento è celata una bellissima storia romantica, la storia d’amore tra il Doge Francesco Erizzo e Venezia.

Francesco Erizzo nel corso della sua vita ricopri vari ruoli pubblici come quello di provveditore, nel 1631 fu designato doge, con plebiscitaria votazione.

Occupò il trono dogale per cinque anni e fu un periodo abbastanza tranquillo, nel corso del quale poté proclamare la fine della pestilenza.  Sotto il suo dogato venne fatta la costruzione della grande chiesa votiva della Salute (fu lui a incaricare Baldassare Longhena, dal momento che il suo predecessore, Nicolò Contarini, non fece in tempo).

Nel 1645 ebbe però inizio la guerra di Candia, lunga e difficile , i cui esordi non furono certo favorevoli alla Repubblica; fu probabilmente nella speranza di  stimolare gli animi a reagire  che il Senato, il 7 dicembre, offrì al vecchio doge il comando supremo delle operazioni.  Lui accetto per amore e devozione verso questa città ma il compito era chiaramente superiore alle sue risorse fisiche e l’ansia e l’impegno dei preparativi ne affrettarono la morte, che lo colse a Venezia il 3 genn. 1646.

È sepolto nella chiesa di S. Martino di Castello, in uno sfarzoso monumento ch’egli s’era fatto erigere,

Aveva un desiderio che lasciò per testamento. Voleva che il suo cuore, per esprimere il suo forte amore e totale attaccamento a Venezia,  fosse sepolto a San Marco: «[…] il cuore alla Patria e che sia sotterrato in alcun angolo dell’altar maggiore della chiesa ducale di San Marco…».

Quindi quando salite verso l’altar maggiore di San Marco dalla parte sinistra, guardate il pavimento, sotto una lapide si trova una piccola urna elegante che ne contiene il suo cuore.  A indicare il luogo esatto, si trova una piastra di marmo che reca al centro un cuore di porfido, che a sua volta contiene un piccolo corno dogale sovrastante un piccolo riccio che deriva dall’assonanza tra ‘riccio’ ed ‘Erizzo’: il simbolo degli Erizzo.

Alberta Bellussi

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Tempo di elezioni e anno dei 1600 anni dalla nascita di Venezia e proprio da questa città vengono due termini molto utilizzati in questo periodo: ballottaggio e broglio.

Ballottaggio

 La parola “ballottaggio” deriva dalla procedura complicatissima che veniva messa in atto per eleggere il Doge a Palazzo Ducale e per assicurarsi che la votazione fosse completamente imparziale e trasparente. Il fulcro di tutta l’operazione era costituito da alcune palline d’oro e d’argento (le “ballotte”) che venivano inserite in un’urna ed estratte dai senatori in diversi momenti. Tale procedura serviva a garantire la trasparenza.

Il termine viene utilizzato anche negli Stati Uniti (“ballot”) e in Francia (“ballottage”) per un motivo molto semplice: quando, nel 1700, queste giovani democrazie si trovarono a dover scegliere un sistema elettorale, scelsero come esempio l’unica democrazia (quella veneziana) presente al tempo.

Broglio o imbroglio

Fatta la legge, trovato l’inganno!

Per poter truccare il sistema (presumibilmente) sicuro delle ballotte d’oro e d’argento, i membri del Consiglio si incontravano per tramare intrighi e promesse elettorali nel “Brolo o Brolio”, un giardino alberato che si trovava nei pressi del Palazzo Ducale dove, appunto, avveniva la votazione.  Dentro il brolio ”imbroglio” è dunque un’italianizzazione del nome di questo luogo.

Alberta Bellussi

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El ga na canapia che no ghe pisa in bocca  .

Nel dialetto veneto il naso è la canapia o canopia ma da dove deriva questo nome?

Ve lo siete mai chiesto?

Deriva dalla marionetta veneta, secondo alcuni originaria di Rovigo, secondo altri di Verona:  Fra Canàpa .  Era un frate piuttosto grosso, aveva lineamenti marcati – caratterizzato da un grande naso, la “cànapa” appunto, traeva la sua comicità dall’arguzia bonaria, dalla festosa briosità e dal linguaggio infiorato di strafalcioni. Aveva un carattere gioviale, aveva un ottimo appetito e  un amore ancora migliore per il vino.

La sua fama è dovuta tuttavia al marionettista Antonio Reccardini (1804-1876) che lo portò in scena nei primi anni dell’Ottocento.

Nell’aspetto egli appare sempre piuttosto curato, con una marsina scura e attillata, un panciotto rosso, pantaloni al ginocchio e un nero tricorno in testa.

Caratteristico era anche il suo modo di parlare a scatti, scandendo le sillabe e storpiando alcune lettere, allo scopo di ottenere effetti comici.

El ga na canapia che ghe sconde i oci.

Alberta Bellussi

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“ FAR EL GIRO DEA PITONA” è un’espressione molto usata dai veneti che sta a indicare quando una persona fa un giro lungo per poi tornare nello stesso punto di partenza.
Mi sono sempre chiesta il significato e l’altro giorno nell’aia ho visto  due tacchini, uno maschio e uno femmina subito ho capito  il significato.
Il tacchino in veneto è chiamato pito, piton simile al pît al piemontese, vuol dire pitto, dipinto, colorato ma lo chiamiamo anche ‘dindiot’ perché lo si identifica anche con gallina d’India ma della storia del suo nome vi parlerò un’altra volta.
Il tacchino è un animale del genere Meleagris originario dell’America Settentrionale e introdotto in Europa del XV secolo: appartenente alla famiglia dei gallinacei, gli esemplari sono in genere snelli, dotati di zampe lunghe e ali e coda relativamente corte. La parte superiore del tacchino, ovvero testa e collo, sono bitorzoluti. Il becco è, invece, corto e dalla forma ad arco; negli esemplari di genere maschile è presente un’escrescenza che può assumere forma conica o flaccida a seconda dello stato dell’animale. Le ali del tacchino sono di forma arrotondata mentre la sua coda è composta di 18 penne che assume la caratteristica forma “a ruota” nel momento del corteggiamento.
I tacchini hanno comportamenti estremamente interessanti e qui trova la spiegazione “far el giro dea pitona”. I maschi si prodigano in appariscenti parate nuziali, aprendo le code a ventaglio, abbassando le ali e gonfiando le vistose caruncole e i bargigli del capo, molto più grandi che nelle femmine. Poi, gloglottando più o meno sommessamente, iniziano a girare attorno alle compagne, in attesa di un riscontro. Per il tacchino questo giro continuo intorno alla compagna sempre più veloce e ossessivo è una sorta di danza di accoppiamento per conquistare la tacchina. La femmina pronta all’accoppiamento si accovaccia a terra di fronte al maschio, dandogli la schiena. Egli le monta quindi sul groppone, esibendosi in una sorta di tip tap sul suo dorso prima di accovacciarsi ed accoppiarsi con essa. Le femmine non sono sempre disposte all’accoppiamento ovviamente, e i maschi, frustrati dai prolungati dinieghi, possono sfogare i propri istinti repressi anche su esemplari di altre specie dell’aia come galline o altri volatili.
Alberta Bellussi