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Durante le  mie serate di presentazione del libro “Mi son Veneta” sono uscite molte curiosità, scambi di ricordi e di sfumature di tradizione. Molte persone mi chiedono di fare delle ricerche per soddisfare le loro curiosità e un signore a Castello di Godego mi ha chiesto se avevo mai sentito parlare del “risotto alla sbiraglia”. Immediatamente mi si è aperto un cassettino della memoria e ho ricordato quella pentola piena di riso con il pollo in umido che mia nonna faceva quando aveva appena ucciso il pollame del cortile. In questo scorcio di ricordi del passato ho sentito anche il profumo di quella pentola di ferro sopra la stufa per cucinare il pollo in umido bello unto.

Se questo signore non me lo ricordava ne avevo anche già perso la memoria. Appartiene, questa ricetta, a uno di quei piatti che non si fanno più nemmeno nei ristoranti tipici perché la materia prima è difficile da reperire o perché il gusto del cliente finale è cambiato e quindi al ristorante preferisce concentrarsi su altro.

Il risotto alla sbirraglia era una ricetta popolare diffusa sia in Veneto che in Trentino, grazie a materie prime facili da reperire e a una preparazione abbastanza immediata.

Il nome del piatto lo si fa risalire, dice la trazione orale, agli sbirri austriaci che negli anni del Regno Lombardo-Veneto e anche nelle guerre, durante le notti di sorveglianza, rubavano i polli nelle varie fattorie che incontravano per strada.

Il nome deriva dalla parola “sbirri” così come erano definiti i soldati austriaci durante l’occupazione austroungarica delle nostre campagne tra il 1917 e il 1918.

Mia nonna mi diceva che le raccontavano che durante la 1° Guerra Mondiale, i soldati austriaci invadevano le case, requisendo i polli dei cortili. Inoltre gli ufficiali austriaci pretendevano ospitalità da parte delle famiglie di contadini.

E le donne preparavano loro il pollo in umido. E per rendere più sostanzioso il piatto ci aggiungevano del riso per preparare un risotto con il sugo del pollo in umido stesso. Servivano poi ogni porzione di risotto con un pezzo del pollo in umido. Da quel momento i contadini, supponendo che il risotto preparato con il pollo avrebbe certamente incontrato il favore di quella categoria non proprio ben vista, vi dedicarono il nome “allo sbiraglia”.

Questo piatto è poi entrato nella tradizione delle nostre campagne; anche dopo il secondo conflitto mondiale veniva portato come piatto unico ai contadini sui campi durante la vendemmia, come pasto di mezzodì.

INGREDIENTI:

pollo

riso

burro

cipolle

carote

sedano

olio d’oliva

vino bianco

parmigiano grattugiato

sale e pepe

PROCEDIMENTO:

Pulire il pollo e tagliarlo in ottavi. Con le carcasse preparare un fondo bianco comune.

Tritare finemente cipolla, carota e sedano e metterli a soffriggere in una casseruola con l’olio. Aggiungere il pollo tagliato a pezzi, farlo ben rosolare e sfumare con il vino.

Dopo qualche minuto aggiungere del brodo di pollo (facoltativo qualche pomodoro pelato o concentrato di pomodoro). Coprire e cuocere dolcemente. Terminata la cottura togliere i pezzi di pollo, lasciarli raffreddare e tagliarli poi a pezzi più piccoli è preferibile disossarli. Nel sugo di cottura del pollo versare il riso, farlo insaporire bene e versare un po’ alla volta il brodo. A circa 3/4 della cottura aggiungere i pezzi di pollo.

In ultimo, dopo aver salato e pepato quanto basta, completare con una spolverata di parmigiano. Il risotto alla sbirraglia non è un risotto fatto nel modo tradizionale, perché manca la tostatura iniziale del riso.

Servirlo con parmigiano a parte.

Alberta Bellussi

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Il baccalà, come lo chiamiamo in Veneto, quello che  mangiamo nelle nostre tavole sia mantecato, che in umido che alla vicentina è legato alla storia di Querini, senatore della Repubblica di Venezia, che lo portò dal Nord Europa fino alla città di Venezia.

Il nobile  Piero Querini, mercante veneziano, nel 1431 cercava fortune commerciali fuori dal Mediterraneo. Partito da Candia (isola di Creta colonia della Serenissima) con una nave carica di malvasia, legni aromatici, spezie e cotone con l’intento di raggiungere le Fiandre, vide via via svanire il suo sogno commerciale che terminò con un tragico naufragio.

Infatti si trovava  al largo dell’Arcipelago di Lofoten, che veleggiava coi suoi sessantotto marinaie, all’improvviso, si scatenò una tempesta. La nave era ingovernabile, il vento soffiava forte e  il mare era grosso tanto da mettere a rischio sia  il mercantile che il suo equipaggio. Il capitano Querini fu  l’ultimo ad abbandonare la sua imbarcazione a bordo di una delle due scialuppe. Parte dell’equipaggio perì tra i flutti, ma una delle due imbarcazioni di salvataggio, in balìa dei marosi e dei capricci dei venti, raggiunse fortunosamente un isolotto, coperto di neve:  era l’isola di Roest.  Riuscirono a sopravvivere bevendo  neve sciolta e  nutrendosi con  frutti di mare e molluschi strappati all’oceano, fino a che, approdarono sullo scoglio gli abitanti di un’altra isola  vicina. I poveri superstiti vennero da loro accolti, nutriti e curati.

Questa gente aveva come alimento principale il merluzzo e Querini, quale scaltro mercante, notò immediatamente che gli abitanti si nutrivano con questo pesce a lui poco noto, sia fresco che salato, oppure essiccato e battuto al pallido sole artico. Incuriosito ed affascinato da questo animale e dal suo metodo di conservazione, Querini decise di ripartire per Venezia con un grande carico di  queste pesce essicato duro come il legno, che per essere consumato deve essere battuto con il roverso (legno). Il mercante veneziano tornò a casa dopo un lungo viaggio per mare e per terra e portò con sé il nuovo curioso alimento, scambiandolo lungo il tragitto fino a Venezia, con vitto, alloggio e trasporti di vario genere.

La gente di là chiamava questo cibo “Stockfiss”. Il termine “stoccafisso” deriva dall’olandese stokvisch (stock = bastone e visch = pesce), ovvero pesce essiccato sul bastone. Assai più incerta è invece l’origine del termine “baccalà” che in Veneto e Friuli è sinonimo di stoccafisso, ovvero merluzzo essiccato, mentre nel resto dell’Italia significa merluzzo salato. Se l’origine della parola stoccafisso è chiara, quella di baccalà, preferita dai veneti, non lo è.

La teoria maggiormente accreditata fa derivare la parola dal portoghese bacalhau e dallo spagnolo bacalao, termini che trovano la loro etimologia nel latino baculus, bastone usata dal 1500.

Più di un secolo dopo, e precisamente durante il Concilio di Trento del 1563, venne sancito l’obbligo di astinenza dalla carne per duecento giorni e raccomandato come piatto di magro il mercoledì e il venerdì proprio lo stoccafisso.  Questo pesce ebbe un ruolo salvifico nelle mense della popolazione meno abbiente vessata dalle intransigenti regole alimentari imposte dalla Riforma. Piatto popolare e conservabile, di larga resa e costo contenuto. È proprio, in questo periodo, che il merluzzo nordico viene consacrato a piatto della cucina italiana dal cuoco Bartolomeo Scappi, che lo inserisce all’interno del suo ricettario.

Ecco la ricetta originale del Baccalà mantecato

Baccalà mantecatoIngredienti per preparare il Baccalà mantecato per quattro persone:

300 g di baccalà (o stoccafisso) già bagnato e deliscato

0,3 L di olio extra vergine

1 spicchio d’aglio

Alloro, Limone, Sale, Pepe

Mettete il baccalà in una pentola capiente e copritelo con acqua fredda leggermente salata, avendo cura di aggiungere l’aglio, il succo del limone e l’alloro. Raggiunto il bollore, schiumate.

Cuocete il baccalà per circa 20 minuti. Quindi, mantecate la polpa del pesce a mano con un cucchiaio di legno o con una planetaria, versando a filo l’olio e lasciando montare come se fosse una maionese, fino ad ottenere una crema compatta ed omogenea. Se fosse troppo lucido aggiungete un po’ di acqua di cottura. Finite la mantecatura con ancora qualche pezzo intero. Aggiustate di sale e di pepe. Servitelo guarnendo con un trito di prezzemolo fresco e accompagnandolo con la polenta grigliata.

Anche se la ricetta originale non lo prevede, potete aggiungere un po’ di latte per rendere il vostro baccalà mantecato più delicato e spumoso.

 

La “Venerabile Confraternita del bacalà alla vicentina” suggerisce una ricetta che è il frutto di studi e di comparazioni tra le numerose ricette in auge nei ristoranti e nelle trattorie più famose del Vicentino tra gli anni trenta e cinquanta senza demonizzare le varianti attualmente in servizio.

Ingredienti per 12 persone:

Kg 1 di stoccafisso secco – gr. 250/300 di cipolle

1/2 litro di olio d’oliva extravergine

3 sarde sotto sale

½ litro di latte fresco – poca farina bianca

  1. 50 di formaggio grana grattugiato

un ciuffo di prezzemolo tritato

sale e pepe

Preparazione

Ammollare lo stoccafisso, già ben battuto, in acqua fredda, cambiandola ogni 4 ore, per 2-3 giorni.

Aprire il pesce per lungo, togliere la lisca e tutte le spine. Tagliarlo a pezzi.

Affettare finemente le cipolle; rosolarle in un tegamino con un bicchiere d’olio, aggiungere le sarde sotto sale, e tagliate a pezzetti; per ultimo, a fuoco spento, unire il prezzemolo tritato.

Infarinare i vari pezzi di stoccafisso, irrorati con il soffritto preparato, poi disporli uno accanto all’altro, in un tegame di cotto o alluminio oppure in una pirofila (sul cui fondo si sara’ versata, prima, qualche cucchiaiata di soffritto); ricoprire il pesce con il resto del soffritto, aggiungendo anche il latte, il grana grattugiato, il sale, il pepe.

Unire l’olio fino a ricoprire tutti i pezzi, livellandoli.

Cuocere a fuoco molto dolce per circa 4 ore e mezzo, muovendo ogni tanto il recipiente in senso rotatorio, senza mai mescolare.

Questa fase di cottura, in termine “vicentino” si chiama “pipare”.

Solamente l’esperienza saprà definire l’esatta cottura dello stoccafisso che, da esemplare ad esemplare, può differire di consistenza.

Il bacalà alla vicentina è ottimo anche dopo un riposo di 12/24 ore. Servire con polenta.

Alberta Bellussi

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Io appartengo alla specie di chi ama andare a funghi; e solo chi appartiene a questa categoria  forse potrà capire alcuni passaggi di questa mia piccola disquisizione.
Il “fungaiolo seriale” non vede l ‘ora che arrivi l’autunno perché porta con sè il miglior periodo per la raccolta dei funghi chiodini soprattutto. La magia delle giornate persa dentro le siepi, nei boschi tra foglie scricchiolanti, profumo di muschio e di umidità leggera, il terreno che nasconde veri e propri tesori.
Il fungaiolo seriale possiede un patrimonio accumulato in anni di esperienza che è costituito dai posti dove andare a funghi in pianura, in collina e in montagna. Sono geo-informazioni che non condivide quasi con nessuno o solo con una persona fidata con la stessa “patologia autunnale”.
Il periodo in cui può sfogare questa passione si limita a un mese più o meno dipende dal tempo, dall’umidità.
In questi giorni ti prende la fissa già dalla mattina quando ti alzi che appena hai un minuto, tiri fuori le scarpe da funghi dal baule dell’auto, il cestino e vai a buttare un occhio nella siepe per vedere se quei piccoli puntini sono cresciuti; in due/tre giorni diventano bellissimi chiodini e devi tenerli d’occhio che non passi qualcun altro a fregarteli.
In montagna e in collina è diverso ce ne sono, quasi sempre, molti ma in pianura ognuno ha i suoi posti anche se qualcuno a volte butta l’occhio nella siepe patrimonio altrui e se li trova cresciuti, con mossa furtiva e veloce li frega.
Amo andare a campi, siepi, boschi…. Amo il profumo dei boschi…i colori dell’autunno e buttare l’occhio su alberi e ceppaie e vedere che mi regalano dei bellissimi “brochet” di chiodini.
Tra i funghi più belli in assoluto, per me, ci sono i chiodini di cassia (acacia) e di noseler (nocciolo)… sono profumati, turgidi, eleganti e generosi.
Quando butti lo sguardo e tra le foglie o i fili d’erba intravedi le cappelline dei chiodini ti prende una sorta di emozione mista a gratificazione e compiacenza verso le tue capacità di ricercatore. Allunghi la mano con delicatezza, scosti le foglie e i fili d’erba. Li raccogli con delicatezza.
È una passione che ho fin da piccola, mi alzavo alle 5 per andare a controllare le soche prima di andare a scuola e anticipare gli anziani del luogo…che prima provavano nervoso per questa mia passione e poi anno dopo anno sono stata sdoganata da loro e sono ormai una di loro; anzi sono una delle poche donne ad aver raccolto la loro eredità e il loro sapere sui funghi locali.
Il vero fungaiolo seriale ama trovarli e poi, il più delle volte, li regala e accontenta tutti quelli della sua cerchia a cui basta mangiarli.
Ma come si raccolgono i funghi?
Raccogliere funghi è una vera e propria esperienze che sollecita tutti i sensi e che richiede molta più attenzione di quello che sembri in realtà; forse non lo avreste mai pensato, ma raccogliere funghi non solo richiede abilità e conoscenze specifiche, ma è anche rischioso se fatto in montagna o in collina: perchè spesso si procede fuori sentiero, su terreni ripidi e scivolosi, con il rischio di cadere e farsi male, e perché se non si conosce perfettamente quello che si è raccolto, si potrebbero ingerire sostanze tossiche e velenose. I funghi fanno parte di una categoria a sé stante, quindi non sono ortaggi né frutti. Sono funghi.
Dal punto di vista nutrizionale, i funghi sono da considerare alla stregua di “verdure e ortaggi”. Poco calorici, composti per circa il 90% di acqua, sono rimineralizzanti, e una buona fonte di fibre proteine vegetali, glucidi, lipidi, vitamine. Le proteine dei funghi hanno un alto valore biologico, pari all’80,4%: pensate che i fagioli secchi e la carne di vitello ne hanno in percentuale inferiore: rispettivamente 50 e 74,3%.

Tra i funghi commestibili si sono il il chiodino, la trombetta dei morti, il prataiolo, la colombina verde, fungo di San Giorgio, Sanguinello, piopparello, mazza da tamburo, spugnola, morchella conica, rotonda esculenta), gamba secca, gallinaccio, fungo dell’inchiostro, ovulo buono, porcino.

Come pulire e preparare i funghi chiodini
Per pulire i funghi chiodini eliminare la parte finale dei gambi, quindi sciacquateli sotto l’acqua corrente per eliminare la terra, foglie o rametti.
Per eliminare le tossine contenute nei funghi chiodini, procedere alla bollitura e alla schiumatura quindi: in una pentola dai bordi alti, portarli a bollore nell’acqua che rilasciano a cui aggiungerete un pugno di sale grosso.
Quando l’acqua bolle procedere con la schiumatura per almeno 15 minuti: eliminare appunto la schiuma che si forma man mano sulla superficie dell’acqua in ebollizione, utilizzando un mestolo forato.
Dopo 15-20 minuti scolare i chiodini, asciugarli con un canovaccio pulito e ora potete utilizzarli per la preparazione della vostra ricetta oppure potete congelarli raccogliendoli in sacchetti appositi o metterli sott’olio o sotto aceto.
Come prepararli
Prendete un tegame e mettete al suo interno dell’olio extravergine di oliva in cui farete rosolare lo spicchio di aglio interno con i funghi. Salate e pepate i chiodini facendoli cuocere a fiamma moderata e a pentola semicoperta, mescolando di tanto in tanto con l’aiuto di un cucchiaio di legno; quando i funghi saranno divenuti belli teneri unitevi del prezzemolo fresco tritato se vi va. I funghi sono ottimi serviti con la polenta o usati per risotti e tagliatelle.
Alberta Bellussi

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Le erbette di primavera nella tradizione culinaria veneta

In primavera la natura rifiorisce e nei campi, nelle siepi e lungo gli argini crescono una gran varietà di erbette selvatiche; queste sono molto usate nella gastronomia veneta tradizionale e popolare sono presenti sia nei menù dei ristoranti che nei piatti delle nostre tavole.

Alcune sono davvero molto conosciute:

I bruscandoli, in dialetto, hanno in botanica il nome di   Luppolo selvatico (Humulus Lupulus).

Questa erba venne usata, fin dal Medioevo, per la fabbricazione della birra. I germogli di “bruscandoli” che si trovano lungo le siepi vengono usati per la classica frittata, nel risotto o anche da soli, lessati, conditi con olio, sale e pepe e accompagnati dalle uova sode per via del loro sapore molto simile agli asparagi.

Peverel o rosoline, in dialetto, è la pianta del papavero (Papaver Rhoeas)

Le nuove e fresche piantine di papavero che spuntano in primavera, si trovano spesso nei campi di mais ancora da arare, e sono un’ottima verdura cotta mescolata ad altre erbette.

Radicea o pissacan, in dialetto, sono in botanica il Tarassaco o Dente di leone (Taraxacum officinale) –

Le “radicee” sono senza ombra di dubbio le erbette più diffuse sulle tavole primaverili contadine perché si trovano, facilmente in tutti i prati. Vengono cotte da sole o assieme ad altre erbette, con le uova e possono essere condite anche dadolata di pancetta o lardo che insaporiscono e rendono sfizioso il tutto.

S-ciopet, S-ciopettin o Carletti, in italiano Strigoli o bubboli (Silene Vulgaris)

Sono dei piccoli cespuglietti di un’erba dal colore del fogliame verde-bluastro e un po’ ceroso. Sono molto usati  in cucina per farne il “risotto di carletti” o la frittata. Il loro sapore ricorda molto quello dei piselli freschi.

Le gainee, nome dialettale della Valerianella (Valerianella Locusta)

Un tempo la chiamavano con il nome di “lattuga d’agnello”: per via del periodo in cui spunta nei prati, in concomitanza con la nascita degli agnelli. Questa erbetta selvatica viene mangiata cruda in insalata, o cotta assieme ad altre erbe o verdure. Oggi la si può trovare anche dal fruttivendolo perché viene piantata, ed è facile da coltivare.

Ortiga è l’Ortica (Urtica

È una pianta urticante se si entra in contatto con la pelle ma i suoi germogli sono ottimi per risotti, frittate e anche per ricavarci medicinali e tessuti, già dall’età del bronzo.

Vi regalo un mio racconto agreste sulle erbette.

Il racconto di Maria a radicee e peverel

Maria cresce; diventa una bella bambina dai capelli d’oro.

Il suo sguardo chiaro è trasognato ma sempre attento alle cose del mondo; a metà tra Alice nel Paese delle Meraviglie e Pippicalzelunghe.

Rimangono impressi nel suo essere, come un tatuaggio dell’anima, quegli elementi della campagna veneta che le appartengono visceralmente. Li ha protetti nei cassetti della memoria e nei suoi libri segreti.

…i campi erano tappezzati di macchie gialle e rosse. Invasi di radicee e peverel che diventeranno, presto, soffioni e papaveri. Lei e la nonna si perdevano per quei prati munite di sacchetto e coltello per raccogliere i verdi rosoni e le erbette per farne dell’indimenticabile verdura cotta.

E la nonna che le diceva :” Maria ciol su quee col boton che le e pi bone”.  E lei che minuziosamente guardava ogni pianta di tarassaco e cercava quella che aveva ancora il bocciolo chiuso come le aveva raccomandato la nonna.

La bimba perdeva, poi, il suo sguardo nel rosso appassionato dei papaveri e nella delicatezza dei soffioni.

Amava scappare dentro i campi gialli di erba medica. Buttarsi distesa a pancia in sù. Lì, nascosta dagli alti fiori, rigenerava il suo essere e assorbiva l’energia di Gaia, la terra, e dei colori dei fiori.

Maria, in quella sorta di nascondiglio naturale, guardava il cielo e giocava con le sue amiche a trovare nelle nuvole delle forme di animali. Nel loro gioco fantastico, il cielo era un grande giardino pieno di elefanti, cavalli, cani dove ogni tanto passava anche un piccolo gatto.

Un giorno era in giro con l’amica di sempre Gabriella. Videro un campo di soffioni così pieno che attirò immediatamente la loro curiosità.

Si buttarono a peso morto nel prato e si rotolavano a destra e a sinistra urlando come pazze dalla felicità.

Un po’ alla volta i soffioni si appiccicarono ai loro capelli che diventarono delle splendide parrucche da principesse. Le due bimbe ridevano sistemandosi questi enormi testoni bianchi candidi atteggiandosi come le dame di un tempo.

Correvano e  cantavano spensierate  la loro canzone preferita pomel pomel con queste strane acconciature.

Le parrucche lasciarono il posto alle loro chiome dopo un energico lavaggio fatto dalle mani amorevoli delle mamme che sorrisero  alla follia simpatica delle loro figlie.

…ma su quei meravigliosi e fragili soffioni, Maria aveva più volte sognato di appendersi pensandoli come   una sorta di paracadute per sorvolare le bellezze di questo Pianeta.

Un giorno partì appesa ad un piccolo pelucco di soffione; sorvolò mari, laghi, montagne e pianure. Si svegliò, poi, di soprassalto nel suo lettino giallo come il sole con gli occhi pieni di gioia e incredula del meraviglioso viaggio appena fatto. Maria amava viaggiare e  amerà farlo tutta la vita.

Ogni nuova giornata presentava alla bambina nuove avventure e lei con grande entusiasmo si apprestava a viverle.

Alberta Bellussi

 

 

 

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I dolci del Carnevale in Veneto sono le fritole, le castagnole e i crostoli o galani.

Il mio ruolo di bambina nel fare i crostoli era trattare con la macchinetta la palla di pasta che mi passava la nonna. Agganciavo l’attrezzo al tavolo; inserivo il giusto innesto della manovella con il manico in legno, tipo quello delle corde da saltare; lei mi passava la pasta e mi diceva tirala due tre volte con i rulli larghi e poi sempre più sottili. Quasi come un mago appena la palla di pasta veniva fagocitata dalla macchina ne faceva uscire delle lunghe fasce di pasta che appoggiavo sopra una tovaglia cosparsa di farina 00 perché non si appiccicassero. Dopo aver sottoposto la pasta a gradi sempre più vicini dei rulli ne usciva una striscia sottilissima che la nonna con una piccola rondella tagliava a rettangoli, quasi tutti uguali, facendo, poi,   un taglio in mezzo che era il tocco del vero crostolo. Con i ritagli facevamo i croccantini con la buccia di arancia e limone arrotolata dentro che erano deliziosi.

Noi nella Sinistra Piave li chiamiamo crostoli ma si chiamano galani in veneziano, frappe, chiacchiere e molti altri nomi e sono fatti in tutto lo stivale.

La ricetta dei Costoli o Galani è molto più antica di quella delle frittelle: la sua origine risale ai tempi dei Romani che facevano nella Festa di Primavera, con lo stesso impasto usato per  le lasagne, preparavano dei dolci molto simili ai galani, fritti nel grasso di maiale e inzuccherati che chiamavano frictilia.

In realtà c’è una differenza nello spessore e nella forma tra crostoli, veneti, tipici della terraferma, e galani, veneziani, tipici di Venezia e laguna, ma l’impasto non cambia: i galani sono più sottili e la loro forma richiama quella dei nastri; i crostoli sono grossi rettangoli con la pasta più spessa.

 

500gr farina

100gr zucchero

50gr  burro

2 uova

un pò vino bianco

un pizzico di sale

buccia di limone grattugiata

un cucchiaio di rum o anice

olio per friggere

Zucchero a velo

Amalgamare in un impasto omogeneo tutti gli ingredienti, stando attenti a non creare grumi.

Stendere con il mattarello o la macchinetta della pasta, l’impasto fino ad ottenere una sfoglia sottile. Lasciarlo un po’riposare e poi, con l’aiuto di un mattarello, rendere la sfoglia il più sottile possibile. Tagliarla a rettangoli con delle piccole incisioni al centro e friggere i crostoli di carnevale in olio ben caldo. Scolarli su carta assorbente e spolverarli con zucchero a velo.

Alberta Bellussi

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In autunno, negli scaffali dei fruttivendoli e nei banchi del mercato, appaiono come d’incanto i rossi radicchi di Treviso, ormai si trovano in tutta Italia ma in Veneto li aspettiamo con l’acquolina in bocca. Con questo ortaggio si possono fare ottimi antipasti, primi piatti, secondi e anche dolci; insomma permette a qualsiasi appassionato di cucina di dare sfogo alla sua fantasia culinaria.

In botanica la specie spontanea è chiamata “Cichorium Intybus L.”  e si trova nel territorio da sempre, conosciuta volgarmente come cicoria selvatica. Sono stati i continui esperimenti e prove per conservarlo meglio: gli innesti, le variazioni fatte in modo inconscio che lo hanno fatto diventare il pregiato e famoso radicchio rosso di Treviso che è oggi, e che qui ha trovato il suo terreno e clima ideale.

La sua storia è un po’ incerta ma nel 2007 Tiziano Tempesta del Dipartimento TESAF, Università di Padova, si è accorto che nelle Nozze di Cana (1579-82) di Leandro da Ponte detto Bassano, vi sono degli ortaggi e tra questi un cespo di radicchio rosso trevigiano.

Però la storia del radicchio rosso identificato come pregiato ortaggio invernale simbolo di Treviso, avviene per opera di Giuseppe Benzi che era un agronomo lombardo trasferitosi in città, nel 1876, come insegnante all’istituto tecnico Riccati e che divenne responsabile dell’Associazione Agraria Trevigiana con la quale il 20 dicembre 1900, inaugurò la prima mostra dedicata alla rossa cicoria proprio sotto la  Loggia di piazza dei Signori.

La mostra del radicchio da quella data in avanti venne sempre fatta a Treviso; fu interrotta solamente in due occasioni: durante la grande guerra, quando Treviso verrà, di fatto, a trovarsi in prima linea, e negli ultimi due anni della seconda guerra mondiale.

A partire dal 1970 alla mostra di Treviso si aggiungeranno tutta una serie di mostre periferiche: di Santa Cristina, Preganziol, Zero Branco, Mogliano, Lughignano, Dosson, Rio San Martino di Scorzè, Martellago.

Come si arriva dalla cicoria al radicchio croccante di Treviso?

In realtà non esiste una vera e propria storia scritta e non ci sono testimonianze precise ma come accade spesso  la leggenda si confonde con la realtà.  Ci sono molte storie che, ancora oggi, i vecchi contadini amano raccontare. C’è chi parla di uccelli che hanno lasciato cadere il seme di questa pianta speciale sul campanile del paese di Dosson in tempi lontanissimi; chi parla di frati che hanno saputo trovare e conservare con cura questo seme; chi ancora racconta di una piantina che cresceva spontanea lungo i fossi e ai bordi degli orti finché un contadino non scoprì la possibilità di trasformarla nel croccante radicchio grazie alla tecnica dell’imbianchimento.

L’eclettico Giuseppe Maffioli, studioso di cultura veneta nella sua rivista “Cucina Trevigiana” (1983)  diede una sua personale spiegazione che però si rivelò un falso storico. Egli ipotizzò una partecipazione della nascita del radicchio  (1860-1870) di Francesco Van Den Borre, specializzato nell’allestire parchi e giardini, che giunse a Treviso dal Belgio, a villa Palazzi, per realizzare uno dei più bei complessi di verde annesso a una villa veneta, secondo un prototipo di giardino all’inglese. La sua esperienza anche nelle tecniche di imbianchimento già da molto in uso per le cicorie belghe, avrebbe potuto essere utile allo sviluppo del prodotto trevigiano. Il figlio di Francesco, Aldo, continuatore della sua opera e benemerito personaggio trevigiano, escluse tuttavia questa ipotesi a suo tempo.

C’è poi la tradizione orale dai racconti di  Silla Bovo, un pensionato di Treviso che da ragazzo frequentava gli Artuso e i Reato, vecchi agricoltori di S. Angelo, di aver sentito dire da loro che tutto era iniziato quando qualche contadino della zona un inverno portò a casa dei radicchi di campo ammassati in una carriola. I radicchi furono dimenticati in un angolo finché una sera, durante il filò, uno della famiglia avvicinatosi alla carriola estrasse dal mucchio una piantina e, tolte le foglie esterne ormai appassite e guaste, si trovò fra le mani con sua grande sorpresa un bel radicchio dal cuore sano e dal colore rosso vivo. E’ molto probabile, infatti, che la scoperta di trasformare la cicoria invernale nel rosso e croccante radicchio di Treviso sia dovuta a un fatto puramente casuale, come peraltro è avvenuto non di rado in molte altre branche dell’attività umana.

Come avviene l’imbianchimento?

La ragione di questa pratica però non risiede solamente nella variazione di colore, con l’imbianchimento infatti, il radicchio perde gran parte del suo sapore amaro, fino ad acquisire un retrogusto dolce, mentre le sue foglie risultano più morbide e meno fibrose.

L’imbianchimento del radicchio tardivo di Treviso, si effettua da novembre in poi. Si estirpano le piante dal suolo, stando bene attenti a non lesionare le radici della pianta. Si prende una cassetta di plastica o di legno. Si buca il fondo della cassetta e si riempie per un quarto con della sabbia umida e si piantano i cespi di radicchio, addossandoli l’uno all’altro per farli restare in piedi e in modo tale che il colletto (punto di passaggio tra radici e foglie) non sia a contatto con il materiale sabbioso. Si copre la cassetta con un materiale schermante (cartone o teli scuri) e si deve mantenere sempre la sabbia sempre umida.

Dopo massimo tre settimane il radicchio sarà perfettamente imbianchito e pronto per essere gustato.

 

Risotto radicchio e salsiccia

INGREDIENTI (4-6 persone)

300 g di radicchio rosso di Treviso I.G.P. tardivo o precoce

200 g di salsiccia magra trevigiana

1 cipolletta

400 g di riso nano vialone veronese I.G.P.

olio extra vergine di oliva

1 noce di burro

formaggio Grana

sale, pepe

acqua calda qb

 

PREPARAZIONE

Si prepara un leggero soffritto di cipolla affettata finemente. Quando si mostrerà leggermente imbiondita, si uniranno la salsiccia sminuzzata e il radicchio rosso di Treviso ridotto a piccoli tranci. Si lascia un po’ coperto in modo che gli ingredienti rilascino la loro acqua naturale, quindi si fa restringere il sugo fin quasi a rosolarlo. Solo allora si aggiunge il riso. Lo si rimesta per qualche minuto per farlo tostare e insaporire, aggiungendo di tanto in tanto un po’ di brodo (per mantenere l’umidità necessaria ed impedire un’eccessiva e dannosa temperatura di cottura). Verso la fine si aggiunge il resto del brodo in modo da rendere il riso assai morbido aggiungendo, inoltre, una noce di burro e una spolverata di formaggio grana grattugiato di fresco, che lo renderanno definitivamente cremoso.

 

Alberta Bellussi

 

 

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La “sopa coada“, tradotta in italiano “zuppa covata”, è uno dei piatti tipici della tradizione e della storia della Marca Trevigiana.

Per chi non è del posto è, in parole povere, un pasticcio di piccione, anche se definirlo così è altamente riduttivo. È un piatto molto asciutto, tanto che a volte si accompagna con una tazza di brodo bollente da consumare a parte o da versarvi sopra. ‘Coada’, perché doveva ‘covare’, ovvero sobbollire per ore e ore concentrando il sapore.

Questo piatto può essere preparato con due tipi di carni, quella di piccione in gran parte della provincia o quella di polli nella zona di Motta.

L’arrivo in Veneto della colombicoltura va attribuito ai Longobardi, che abitavano in nuclei sparsi dominati da torri che avevano sia una funzione difensiva che quella di rifugio per questi uccelli. Secondo altri, invece, l’allevamento dei piccioni, inizia, proprio nel Cinquecento, come dimostrato dalla frequenza con cui gli architetti, Palladio per primo, dotavano le ville di colombaie monumentali. In dialetto si parla di colombo ‘torresan’.

I trattati di cucina e i vari ricettari scritti dal 1300 al 1700 erano, quasi sempre, stampati a Venezia. I nobili veneziani conoscevano tutte le ricette realizzate dai grandi cuochi nelle corti italiane. La ricetta della sopa coada di Cristoforo da Messisbugo, cuoco degli estensi, tra i migliori del Rinascimento, fu presto conosciuta a Venezia e già nel corso del ‘500 era arrivata lungo il Sile a Treviso, la versione cittadina coi piccioni   e lungo la Livenza a Motta, la versione campagnola con i polli. A Motta c’erano alcune locande, lungo il porto sulla Livenza, s’impossessarono della ricetta e cominciarono a prepararla per i lavoratori del porto – soprattutto buranei – che arrivavano a Motta con i barconi trainati da cavalli lungo il margine del fiume. Da allora la sopa coada si prepara a Motta di Livenza nella ricetta con carni bianche, in particolare, galline, polli, capponi.

 

INGREDIENTI

2 piccioncini novelli completi di fegato; circa 1,5 l di ottimo brodo di carne sgrassato; circa 300 g di pane casareccio non condito; 2 cucchiai d’olio extravergine d’oliva; 2 dita di vino bianco secco; 100 g di grana grattugiato; 60 g di burro; 1 cipolla; 1 carota; 1 costa di sedano; sale e pepe.

Togliete testa e zampe ai piccioni e fiammeggiateli. Svuotateli, divideteli in quarti, lavateli e asciugateli. Lavate e asciugate i fegatini.  Scaldate l’olio e la metà del burro in una casseruola e fate rosolare dolcemente i pezzi di piccione insieme a un trito di sedano, carota e cipolla. Girateli spesso e quando avranno preso un colore, salate e pepate e bagnate con il vino. Quando è sfumato, coprite e proseguite la cottura, a fuoco dolce per circa tre quarti d’ora, aggiungendo poco brodo quando necessario. Negli ultimi dieci minuti aggiungete i fegatini. A cottura ultimata, quando i piccioni saranno tenerissimi, disossateli con le mani, riducendo la carne a filettini.  Rimettete la carne nel fondo di cottura insieme ai fegatini affettati e fate bollire le ossa nel brodo per una mezz’ora.

Tagliate il pane a fettine di 1/2 cm, tostatele e fatene uno strato in una pirofila a bordi alti con il fondo ben imburrato. Bagnate il pane con un mestolo di brodo e spolveratelo con il formaggio.

Distribuitevi la metà dell’intingolo di piccione e coprite con un altro strato di pane.

Ancora brodo, formaggio e carne e infine un ultimo strato di pane e formaggio.

Versate un mestolo di brodo caldo e mettete la casseruola nel forno a 140° per un paio d’ore. Unite ogni tanto un mestolo di brodo ripetendo l’operazione cinque o sei volte, via via che la sopa si asciuga. Alla fine la sopa coada avrà l’aspetto di un pasticcio di pane e carne e si serve, caldissima, come sostanzioso piatto unico. Accompagnate il piatto con una tazza di brodo bollente con il quale si può rendere più morbida la zuppa. (Gambero Rosso).

Alberta Bellussi

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Ieri, ero a pranzo dai miei,   ho trovato una terrina di bovoeti o bogoi, dipende un po’ dalla parte del Veneto che ci troviamo a vivere il loro nome, e ho postato una foto su Facebook. Ho trovato grande entusiasmo da parte dei veneti per questo piatto che appartiene alla tradizione veneziana per eccellenza, invece gli amici dalle altre parti d’Italia non lo conoscono.

Allora ho pensato che i bovoeti meritassero di avere un articolo che parlasse di loro.

Nei bar veneziani ma anche dell’intero Veneto tra i cicchetti che accompagnano l’aperitivo nel bancone, c’è spesso una terrina di bovoetti, tra i crostini con la soppressa, la coppa, la polenta e la porchetta.

I Bovoeti sono delle lumachine che vivono solitamente a terra (non in acqua) o si trovano nelle sterpaglie vicino al mare, ai fossi o nei luoghi umidi; al mattino presto o dopo una pioggia le vedrete attaccate ai rami, Queste piccole lumachine sono i quelli che noi chiamiamo “bovoeti”.  Si raccolgono da aprile ad ottobre in prossimità dei litorali.

I Bovoeti sono una tradizione tipicamente veneziana, non possono assolutamente mancare il giorno del Redentore, che si festeggia a Venezia il terzo sabato di luglio, con fuochi d’artificio in laguna e festeggiamenti fino all’alba.

Si possono trovare nelle pescherie confezionate in retini da 1 kg circa e sono sufficienti per 5-6 persone.

 

Ricetta

Ingredienti per 5-6 persone

– 1 kg di bovoeti;

– abbondante aglio tritato;

– abbondante prezzemolo tritato;

– Sale e pepe: q.b.;

– Olio extra-vergine di oliva.

 

Preparazione

  • Prima di cucinarli bisogna metterli a “spurgare” in una terrina, per almeno un paio d’ore, in acqua e poco sale, coprendoli con un coperchio per non farli scappare. Lavateli poi molto bene sotto l’acqua corrente e metteteli in una pentola con l’acqua fredda.
  • Mettete la pentola sul fuoco; il fuoco deve essere bassissimo perché i bovoletti sentendo il calore escono dal guscio. Quando sono usciti quasi tutti, aggiungere il sale e alzare il fuoco; togliete dunque la pentola e scolate i bovoeti.
  • Fateli raffreddare e conditeli con abbondante aglio tritato, prezzemolo tritato, sale, pepe e olio extra-vergine di oliva (e.v.o.); lasciateli nel condimento per 2-3 ore girando spesso.

 

Attenzione però, i bovoeti creano dipendenza sono un pò come i bagigi uno tira l’altro. Si prende un guscetto in mano e con lo stuzzicadente si mangia la saporita lumachina.

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In Veneto aprile è periodo di asparagi bianchi.

Sparasi e ovi. Risotto con gli asparagi. Frittata. Asparagi in tutti i modi dal primo al dolce. 

Ma cosa sono? Da dove arrivano?

Può sembrare strano ma l’asparago appartiene alla famiglia delle liliacee la stessa dei gigli e dei mughetti. Di questo ortaggio o fiore, forse è meglio chiamarlo, si mangiano i ” turioni “, i germogli, di sapore delicato, che si formano dai rizomi sotterranei. Il rizoma viene sotterrato e ha decorso generalmente orizzontale; da questo partono poi i vari germogli di asparago.

L’asparago, (asparagus officinalis) è originario dell’Asia occidentale, della Mesopotamia, ma lo si trovava anche nell’Europa meridionale dove cresceva come pianta spontanea. Furono poi gli Egizi che lo diffusero in tutto il bacino del Mediterraneo.

Marco Porzio Catone (234-149 a.C.) ne parla nella sua opera “De agricoltura”, descrivendone le tecniche di coltivazione e di impianto. Plinio e Giulio Cesare li citano in alcune loro opere forse erano asparagi selvatici favoriti dal clima piuttosto mite del territorio.

Quando i romani conquistano la Spagna vi diffusero anche la coltivazione dell’asparago che qui trovò il suo habitat ideale; la penisola iberica è ancora oggi una delle zone più produttive a livello mondiale.

Durante il Medio Evo furono quasi del tutto trascurati.  Solo nel 1400 vennero coltivati in Germania, Olanda e Polonia e nel 1700 in Francia.

Sotto Luigi XIV, la sua produzione appare nella zona di Argenteuil, vicino Parigi, dove trova la sua massima diffusione e vengono selezionate pregiate varietà, tra cui l’ottima “Precoce d’Argenteuil”, introdotta poi al seguito dell’esercito napoleonico, prima in Piemonte e in seguito in Veneto, Friuli-Venezia Giulia, Emilia Romagna e Toscana.

Due sono le versioni che spiegano la presenza dell’asparago bianco nel nostro territorio. La prima racconta che sia stata una scoperta del tutto casuale dovuta ad una violenta grandinata che si abbatté nella zona di Bassano, intorno al ‘500. Questa avrebbe distrutto la parte esterna dell’ortaggio costringendo così il contadino a cogliere la parte che stava sotto terra, cioè la parte bianca. Si accorse, con stupore, che oltre ad essere commestibile era anche saporita e di gusto gradevole e da allora si cominciò a cogliere l’Asparago prima che spuntasse da terra.

C’è un’altra leggenda: si narra infatti che S. Antonio da Padova di ritorno dalle missioni africane avesse portato con sè alcune sementi di asparago e che le avesse proposte per ammansire il feroce Ezzelino da Romano; infatti mentre se ne ritornava nella città patavina, avrebbe seminato tra le siepi del bassanese le sementi dell’asparago che presto spuntarono.

La presenza dell’asparago si trova anche spese nella nota spese per i banchetti della Repubblica Serenissima (XV e XVI sec.) si trovano notizie certe sull’esistenza dell’ortaggio. In documenti datati 1534 per esempio, ci si riferisce a spese fatte per il magnifico messer Hettor Loredan, “Official alle Rason Vecchie… per sparasi mazi 130, lire 3 et soldi 10”. Persino duran- te il Concilio di Trento (1545-1563) alcuni padri conciliari, passando per Bassano con il loro seguito, ebbero modo di gustare tra i vari prodotti locali, anche i “sparasi”; così tra discussioni teologiche e “magnade de sparasi” i padri conciliari promossero, forse, il primo lancio turistico dell’asparago, mettendone in risalto soprattutto le virtù dietetiche.

In Veneto l’asparago bianco è coltivato a Cimadolmo, Badoere, Verona e Bassano e hanno la denominazione  IGP o DOP.

Alberta Bellussi

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Dicembre, Gennaio e Febbraio sono i mesi in cui in Veneto c’è la tradizione di macellare el porzel. E’ una tradizione secolare. Ricordo, quando ero piccina, che il giorno in cui  si macellava il maiale stavo a casa da scuola ed era grande festa dalla mattina alla sera; c’era el porzeler che guidava le operazioni di divisione della carne quella per salami, salsicce, coppa, ecc ecc;  partecipavano parenti, amici e tutto il giorno era un via vai di gente. Sopra la “cucina economica” c’era sempre qualche braciola o costina pronta per essere mangiata da qualche ospite o da noi bimbi. A me sembrava buonissimo. Osservavo tutto con occhi curiosi. Qualche adulto burlone ci mandava in giro a chiedere la forma per fare i salami e noi ci cascavamo…e quando si tornava a mani vuote tutti ridevano divertiti di averci burlato. Per questa prova dovevi passare per diventare un pochino meno credulone…

Nella nostra storia contadina il maiale era la principale  fonte di proteine nell’alimentazione povera  di un tempo insieme al pollame. Per assicurare una migliore conservazione delle carni da lavorare, la macellazione del maiale avveniva nel periodo piu’ freddo dell’anno, dicembre, gennaio e febbraio.

Nel mondo trevigiano il maiale è una sorta di rito della cultura contadina che ha la sua festa il 17 gennaio, giorno della celebrazione di S.Antonio Abate, chiamato anche S. Antonio del porzel  perche’ viene raffigurato con un maiale ai suoi piedi.

Tradizione vuole, infatti che Sant’Antonio Abate, patriarca del monachesimo, venga rappresentato nell’iconografia sacra seguito da un maialino, popolarmente interpretato come l’immagine del diavolo ( a cui anticamente si associava il porco, creatura degli inferi) sconfitto dall’eremita. Ma la storia dice che si riferisca anche all’allevamento dei suini, inizialmente adottato dai monaci antoniani per dare sostentamento all’ordine ospedaliero dagli stessi fondato.

La macellazione del maiale era un momento di festa per tutta la famiglia e lo è ancora oggi, nelle famiglie in cui si rispetta ancora questa tradizione tutto viene svolto con lo stesso rituale di un tempo.

Subito dopo l’uccisione veniva ‘assaggiato’ cuocendone le ‘animelle’ (cervello e midollo spinale) e le ‘rifilature’, cioe’ i pezzetti di carne che si ottenevano lungo il taglio di sezionatura della bestia.

Del maiale non si sprecava nulla: le setole erano utilizzate per fabbricare pennelli, gli ossi venivano bolliti per fare brodo e sugo e la cotica entrava nella preparazione di ‘coppa’ e cotechini. Per il resto, le bistecche e le ‘costórelle’ alla brace, gli zampetti in umido (con i fagioli). La pelle, una volta tolto il lardo (unico condimento adoperato per tutto l’anno), serviva per ungere le seghe. Col sangue si faceva il sanguinaccio e con i polmoni una specie di salsicce. Il grasso del sottoventre era utilizzato per la profumata zazieka, mangiata a colazione con la polenta.

Mai fuori moda gli ossi di maiale lessati che vengono preparati ancor oggi da ristoranti, trattorie ed osterie venete chiamati Ossada.

Ricetta dell’Ossada de porzel

Ingredienti:

1 kg. e mezzo di ossi di maiale freschi (ossi spolpati, arista spolpata, costine)

1 cipolla

1 gambo di sedano

2 carote

grani di pepe

alloro

sale

Preparazione:

Lavare tutti gli ossi e prepararli per la cottura, tagliando i pezzi più grandi. Mettere in una pentola capiente con tutte le verdure e il pepe in grani. Portare ad ebollizione e cuocere per almeno un’ ora.

Devono essere serviti caldissimi, spolverizzati con il sale e un filo di olio, con le verdure di cottura.

Alberta Bellussi