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La pinza e la vecia del Panevin


 

E’ questo un racconto che appartiene a quella raccolta di racconti emotivi nei quali ho fermato momenti significativi della mia vita; condivido questo racconto sul magico momento di fare la Pinza e la vecia per il Panevin.

….La nonna di Maria era birichina, nella vecchiaia si era liberata dalle paure e dai blocchi che la società, a quel tempo, imponeva a una giovane vedova, quale era, ed era sempre pronta allo scherzo, al gioco e alle cose allegre.

Cucinava benissimo; era brava in tutte le ricette venete e Maria, bimba curiosa assorbiva tutto ciò che la nonna faceva e annotava i suoi segreti culinari, in un quadernetto, a cui nessuno poteva accedere solo lei. Lì si trova la ricetta della Pinza, la selvaggina, la peverada, le trippe, la sopa coarda, le fritoe ecc.

Ancor oggi questo libello è il Cucchiaio d’argento delle ricette venete di Maria.

Lei aspettava con ansia l’Epifania per due compiti che ogni anno le venivano attribuiti e per i quali lei si sentiva onorata; faceva la pinza con la nonna, dolce tipico di questo periodo della tradizione veneta e la vecia per il panevin del Borgo che tutti, la sera del 5 gennaio, avrebbero guardato le faville per vedere la profezia per il nuovo anno.

Il giorno della preparazione della Pinza la cucina era un cantiere…pentole, mestoli, passini, farina doppio zero e farina da polenta gialla, semi di finocchio, uvetta, lievito, aromi, arance, limoni profumavano l’ambiente; profumo che da quando la nonna se n’è andata per sempre Maria ogni anno ha bisogno di ritrovare nel rito epifanico della pinza.

Maria e la nonna ridevano piene di farina e di zucca.

La nonna ripeteva ogni anno le stesse parole come appartenessero ad un rituale magico: ”Si la zuca la e bona, tien un po’ de sugo, no massa fenoci che sennò la pica, le uvete metteghen tante, ancora farina che la e poentina”.

La zucca bolliva sul fuoco pronta per essere passata da Maria con il passino per divenire una crema gialla e densa che era il punto di partenza di questo dolce particolare. Poi faceva bollire i semi di finocchi in un pentolino e ne aggiungeva un po’ al composto. E poi la farina da polenta gialla, la buccia di limone e arancia gratuggiata con un po’ di sugo, gli aromi di vaniglia, rum.

Poi nel lavello si risciacquava uvetta di due tipi; l’uvetta sultatina con gli acini piccoli e l’uva cilena con gli acini grandi. Per la nonna di Maria il connubio delle due uvette, in quantità notevole, era il vero segreto della sua ricetta.

Il tutto veniva amalgamato con la farina 00 che rendeva l’impasto omogeneo.

E alla fine aggiunto il lievito e un cucchiaio di bicarbonato per rendere tutto più digeribile.

La nonna girava la grande pentola con l’impasto sopra due teglie.

Il forno era a 280 gradi caldo per accogliere questa prelibatezza.  Maria infornava le teglie e programmava il timer 60/70 minuti.

Non vedeva l’ora che iniziasse a diffondersi per la casa quel profumo intenso di Pinza che ogni anno si ripresentava, sempre lo stesso, e che Maria avrebbe riconosciuto fra mille. Era unico; era quello loro. E dopo venti minuti nella casa si sentivano tutti i sapori degli ingredienti del dolce invadere le stanze.

Maria spiava dalla finestrina del forno e vedeva l’impasto ogni volta prendere il suo colore e alcune uvette che salivano in superfice e si bruciacchiavano.

Ed ecco era pronta. La pinza della nonna era buonissima e tutti, la sera del Panevin, la venivano ad assaggiare. Sì perché la pinza è il dolce che accompagna questa usanza veneta.

Il falò ma in veneto Panevin è quella tradizione tra il sacro e il profano. Maria partecipava a tutte le tradizioni della sua terra era occasione di festa di condivisione e a lei piaceva molto.

Il Panevin di Via Gajo iniziava a prendere forma la mattina del 5 gennaio. Gli uomini portavano i tralci delle viti dei loro campi potati per farne una grande catasta alta anche 20 metri che si ergeva attorno ad un palo.   Mentre alcuni mettevano gli strati di legna per dar forma al falò altri cucinavano braciole, polenta, salsicce e costicine… accompagnate da un pentolone di vin brulè. Le persone del borgo, durante il giorno, facevano tutte un giretto nel luogo del panevin, che di solito veniva fatto nel campo di Condo.  Bisognava stare molto attenti a non inciampare nelle canne del mais del campo ancora da arare dopo la trebiatura.

Maria aveva il compito di costruire la vecia che veniva posta sopra la catasta a rappresentare l’anno vecchio che se ne va.

Ogni anno andava nella soffitta della mamma dove era accatastato di tutto, una sorta di mondo antico in quella enorme stanza li fermo nel tempo. Saliva e rovistava tra le cose per trovare   una maglia, una gonna, delle calze, un foulard e qualche vecchia canottiera. Una volta costruito il fantoccio, lei lo riempiva di paglia per dargli consistenza. La cosa che piaceva di più a Maria era rendere femminile e sensuale quel fantoccio. La vecia del Borgo era sempre bella, ben truccata con un vezzo femminile che la caratterizzava; un anno la giarrettiera, un altro un reggiseno in pizzo o una rosa tra i capelli. Una volta finita la vecia, tutta felice, con i suoi amici la portava agli uomini del Panevin. Erano tutti in attesa di vedere come era la vecia di quell’anno e tra risate e battute ilari, veniva posizionata sopra il grande falò a dominare la campagna veneta.

Alle otto di sera veniva accesso e attorno al fuoco, nell’attesa di vedere la divinazione delle faville, si invocavano antichi canti in latino, che di quella antica lingua avevano solo una lontana somiglianza ma quella che Maria ascoltava sempre con interesse era la classica invocazione religiosa Pan e vin. Pan e vin in dialetto veneto che faceva:

Che Dio ne dae la  sanità de pan e vin,

del vin e del pan.

Pan e vin soto le stee

che le biave vegne bee ” .

facevano eco le donne.

Tanta uva e pan e vin,

da lontan e da vizin .“

E ancora:

Pan e vin !

Pan e vin !

La pinza sul larin,

La luganega su par el camin,

La massera in te la panera,

El servitor nel canevon

che me beve quel poc de vin bon.

Pan e vin ! Pan e vin !

La pinza sul larin

La poenta sul fondal

Viva viva carneval”.

E mentre i canti continuavano attorno alla catasta infuocata, le faville iniziavano a prendere la loro direzione e i vecchi ne traevano l’auspicio per il nuovo anno:

“Se le fuische le va a matina, ciol su el saco e va a farina.

Se le fiusche  le va a sera,  polenta pien caliera.

Se le fuische va a mezodì poenta tre volte al di”.

E anche per quell’anno la divinazione era compiuta e le faville andavano a mezzodì e Maria era felice perché lei amava visceralmente le tradizioni della terra veneta di cui si sentiva appartenere.

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