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Venezia, la Troia e il quartiere a luci rosse.


Ho letto l’altro giorno il post di un Veneziano Doc, che ama la storia di Venezia e la conosce nelle sue sfumature più autentiche e ho chiesto se potevo condividere la sua spiegazione del termine “troia”  che, in parte per me sono nuove ma  che mi ha permesso di inoltrarmi in alcuna considerazione sulla donna veneziana dei secoli scorsi; ciò apre, infatti, una finestra sul ruolo importante e molto “moderno” che ha sempre avuto la donna veneziana nella società fin dai tempi antichi. La società Veneziana era matriarcale e la donna aveva molte responsabilità ma anche molte libertà.

Il fatto di dedicare un quartiere di Venezia proprio al sesso a pagamento con tanto di tasse dimostra come, ai tempi, la  Repubblica Serenissima considerasse tutti gli aspetti della vita con molta onestà intellettuale e senza moralismi di genere. Tutta la zona Carampane  costituiva un vero e proprio quartiere a luci rosse , in cui abbondavano le case di tolleranza e una di queste si trovava proprio sopra al ponte delle Tette. Le prostitute, affacciandosi alle finestre in direzione del ponte sottostante, erano solite adescare i passanti mostrando loro i seni  scoperti. Da qui ha origine questa singolare toponomastica Ponte delle Tette.

Secondo lo storico Tassini, tale costumanza potrebbe essere stata imposta alle meretrici  da una legge della Serenissima per limitare il diffondersi dell’omosessualità, ovvero con lo scopo di “distogliere con siffatto incentivo gli uomini dal peccare contro natura questo diceva la legge Serenissima.

“L’espressione “Troia” viene ora usata  per indicare , in modo estremamente chiaro e lampante, la natura, il comportamento, l’indole di una donna dai facili costumi, così come la morale della società etichetta ora. A Venezia non era così!
Troia, nel dialetto veneziano, quello tanto per capirci di Castello, Cannaregio, Santa Marta, zone considerate “popolari”, non era nè lo è mai stata sinonimo di prostituta, meretrice, mestieri molto in uso allora come ora e per i quali, in questa città, scevra da incrostazioni religiose e cattoliche, si aveva il massimo rispetto e considerazione.
No, assolutamente, troia, anzi “trogia”, aveva ed ha tuttora un significato molto più profondo, più offensivo e completamente negativo.
Significa, in poche parole, miserabile.
Non nel modo di vestire, non economicamente, ma nell’animo, nel pensiero, nei giudizi verso il prossimo: cattiva, perfida.
Offesa pesante, pesantissima poichè espressa da donne verso altre “donne”.
In città come Venezia, Trieste e molte altre, dove vigeva il matriarcato, apostrofare con il termine troia una donna significava condanna senza appello ed esclusione da un ruolo millenario che ha sempre visto la figura femminile alla pari se non al sopra di quella dell’uomo.
Nelle osterie veneziane da sempre la donna era ammessa senza alcuna remora, quando i mariti navigavano governava la casa, allevava i figli, seguiva gli affari ed aveva un comportamento libero e indipendente senza nessun giudizio morale che le etichettasse.
Poteva anche andare a servizio se c’era bisogno, avere amanti vari, partorire figli illegittimi, fare la prostituta o la cortigiana ma, per tali ragioni, non veniva considerata certamente una troia”cit Rino Matrone. Alla luce di queste considerazioni e di molte altre se pensiamo ai molti credo religiosi che hanno sempre convissuto a Venezia, ai Lazzaretti per le pandemie e a mille altre sfaccettature possiamo affermare che la Serenissima era davvero una Repubblica gestita con intelligenza, concretezza, modernità spoglia  di quelle ipocrisie e moralità che limitano le nostre realtà, in questa filosofia di affrontare tutti gli aspetti della vita sta forse uno dei segreti che la resa grande.

Alberta Bellussi

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