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È  tempo di Carnevale, periodo dell’anno per il quale non ho mai provato un’esaltante entusiasmo ma, una cosa che mi divertiva da piccina e mi diverte ancora oggi, è tirare i coriandoli e vederli cadere colorando il grigio asfalto di tutti i colori dell’arcobaleno.

Ma lo sai chi ha inventato i coriandoli?

L’ingegner Ettore Fenderl, fu inventore e filantropo italiano. Visse fino all’età di 104 anni nacque a Trieste il 12 febbraio 1862 e morì a Vittorio Veneto il 23 novembre 1966. Possiamo dire che ha vissuto gli anni di un cambio radicale del mondo.  

L’ingegnere conseguì il diploma in ingegneria a Vienna e di ingegnere civile al Politecnico di Milano brevettò, inoltre, una centrale per la produzione dell’acetilene e contribuì a progettare una delle prime metropolitane del mondo, quella di Vienna, ebbe anche molti incarichi, fu imprenditore e fu grande uomo di scienza.

È strano che a distanza di cinquant’anni dalla sua morte, questo interessante personaggio che portava i baffi sia   ricordato nel mondo solo per un’invenzione fatta da ragazzo e non per le sue invenzioni scientifiche, ad esempio introdusse in Italia gli studi sulla radioattività.

La storia racconta che all’età di quattordici anni (1876), era il giorno di Carnevale, e lui era affacciato alla finestra della sua casa di Trieste che guardava la gente che si divertiva in strada, lanciandosi palline di cotone e confetti, come era abitudine. Gli sarebbe piaciuto un sacco andare in mezzo alla folla a correre e divertirsi, ma non aveva i soldi per comprare palline e confetti. Allora Ettore ebbe un’idea creativa, prese della carta colorata e la sminuzzò in tantissimi piccoli pezzettini colorati; riempì uno scatolone e si diede a lanciare manciate di arcobaleno tra i capelli delle maschere in festa. Fu subito imitato da tantissimi presenti e l’invenzione si propagò velocissima a Vienna, Venezia e in tutto il mondo. Così furono inventati i coriandoli e commercializzati.

Nel 1936 si ritirò a vita privata acquistando una proprietà a Vittorio Veneto. Nel 1950 costituì la Fondazione Flavio ed Ettore Fenderl con scopi benefici. Come volle lui stesso, alla sua morte i suoi terreni furono adibiti ad uso sociale tramite la realizzazione del Parco Fender.

Alberta Bellussi

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In autunno, negli scaffali dei fruttivendoli e nei banchi del mercato, appaiono come d’incanto i rossi radicchi di Treviso, ormai si trovano in tutta Italia ma in Veneto li aspettiamo con l’acquolina in bocca. Con questo ortaggio si possono fare ottimi antipasti, primi piatti, secondi e anche dolci; insomma permette a qualsiasi appassionato di cucina di dare sfogo alla sua fantasia culinaria.

In botanica la specie spontanea è chiamata “Cichorium Intybus L.”  e si trova nel territorio da sempre, conosciuta volgarmente come cicoria selvatica. Sono stati i continui esperimenti e prove per conservarlo meglio: gli innesti, le variazioni fatte in modo inconscio che lo hanno fatto diventare il pregiato e famoso radicchio rosso di Treviso che è oggi, e che qui ha trovato il suo terreno e clima ideale.

La sua storia è un po’ incerta ma nel 2007 Tiziano Tempesta del Dipartimento TESAF, Università di Padova, si è accorto che nelle Nozze di Cana (1579-82) di Leandro da Ponte detto Bassano, vi sono degli ortaggi e tra questi un cespo di radicchio rosso trevigiano.

Però la storia del radicchio rosso identificato come pregiato ortaggio invernale simbolo di Treviso, avviene per opera di Giuseppe Benzi che era un agronomo lombardo trasferitosi in città, nel 1876, come insegnante all’istituto tecnico Riccati e che divenne responsabile dell’Associazione Agraria Trevigiana con la quale il 20 dicembre 1900, inaugurò la prima mostra dedicata alla rossa cicoria proprio sotto la  Loggia di piazza dei Signori.

La mostra del radicchio da quella data in avanti venne sempre fatta a Treviso; fu interrotta solamente in due occasioni: durante la grande guerra, quando Treviso verrà, di fatto, a trovarsi in prima linea, e negli ultimi due anni della seconda guerra mondiale.

A partire dal 1970 alla mostra di Treviso si aggiungeranno tutta una serie di mostre periferiche: di Santa Cristina, Preganziol, Zero Branco, Mogliano, Lughignano, Dosson, Rio San Martino di Scorzè, Martellago.

Come si arriva dalla cicoria al radicchio croccante di Treviso?

In realtà non esiste una vera e propria storia scritta e non ci sono testimonianze precise ma come accade spesso  la leggenda si confonde con la realtà.  Ci sono molte storie che, ancora oggi, i vecchi contadini amano raccontare. C’è chi parla di uccelli che hanno lasciato cadere il seme di questa pianta speciale sul campanile del paese di Dosson in tempi lontanissimi; chi parla di frati che hanno saputo trovare e conservare con cura questo seme; chi ancora racconta di una piantina che cresceva spontanea lungo i fossi e ai bordi degli orti finché un contadino non scoprì la possibilità di trasformarla nel croccante radicchio grazie alla tecnica dell’imbianchimento.

L’eclettico Giuseppe Maffioli, studioso di cultura veneta nella sua rivista “Cucina Trevigiana” (1983)  diede una sua personale spiegazione che però si rivelò un falso storico. Egli ipotizzò una partecipazione della nascita del radicchio  (1860-1870) di Francesco Van Den Borre, specializzato nell’allestire parchi e giardini, che giunse a Treviso dal Belgio, a villa Palazzi, per realizzare uno dei più bei complessi di verde annesso a una villa veneta, secondo un prototipo di giardino all’inglese. La sua esperienza anche nelle tecniche di imbianchimento già da molto in uso per le cicorie belghe, avrebbe potuto essere utile allo sviluppo del prodotto trevigiano. Il figlio di Francesco, Aldo, continuatore della sua opera e benemerito personaggio trevigiano, escluse tuttavia questa ipotesi a suo tempo.

C’è poi la tradizione orale dai racconti di  Silla Bovo, un pensionato di Treviso che da ragazzo frequentava gli Artuso e i Reato, vecchi agricoltori di S. Angelo, di aver sentito dire da loro che tutto era iniziato quando qualche contadino della zona un inverno portò a casa dei radicchi di campo ammassati in una carriola. I radicchi furono dimenticati in un angolo finché una sera, durante il filò, uno della famiglia avvicinatosi alla carriola estrasse dal mucchio una piantina e, tolte le foglie esterne ormai appassite e guaste, si trovò fra le mani con sua grande sorpresa un bel radicchio dal cuore sano e dal colore rosso vivo. E’ molto probabile, infatti, che la scoperta di trasformare la cicoria invernale nel rosso e croccante radicchio di Treviso sia dovuta a un fatto puramente casuale, come peraltro è avvenuto non di rado in molte altre branche dell’attività umana.

Come avviene l’imbianchimento?

La ragione di questa pratica però non risiede solamente nella variazione di colore, con l’imbianchimento infatti, il radicchio perde gran parte del suo sapore amaro, fino ad acquisire un retrogusto dolce, mentre le sue foglie risultano più morbide e meno fibrose.

L’imbianchimento del radicchio tardivo di Treviso, si effettua da novembre in poi. Si estirpano le piante dal suolo, stando bene attenti a non lesionare le radici della pianta. Si prende una cassetta di plastica o di legno. Si buca il fondo della cassetta e si riempie per un quarto con della sabbia umida e si piantano i cespi di radicchio, addossandoli l’uno all’altro per farli restare in piedi e in modo tale che il colletto (punto di passaggio tra radici e foglie) non sia a contatto con il materiale sabbioso. Si copre la cassetta con un materiale schermante (cartone o teli scuri) e si deve mantenere sempre la sabbia sempre umida.

Dopo massimo tre settimane il radicchio sarà perfettamente imbianchito e pronto per essere gustato.

 

Risotto radicchio e salsiccia

INGREDIENTI (4-6 persone)

300 g di radicchio rosso di Treviso I.G.P. tardivo o precoce

200 g di salsiccia magra trevigiana

1 cipolletta

400 g di riso nano vialone veronese I.G.P.

olio extra vergine di oliva

1 noce di burro

formaggio Grana

sale, pepe

acqua calda qb

 

PREPARAZIONE

Si prepara un leggero soffritto di cipolla affettata finemente. Quando si mostrerà leggermente imbiondita, si uniranno la salsiccia sminuzzata e il radicchio rosso di Treviso ridotto a piccoli tranci. Si lascia un po’ coperto in modo che gli ingredienti rilascino la loro acqua naturale, quindi si fa restringere il sugo fin quasi a rosolarlo. Solo allora si aggiunge il riso. Lo si rimesta per qualche minuto per farlo tostare e insaporire, aggiungendo di tanto in tanto un po’ di brodo (per mantenere l’umidità necessaria ed impedire un’eccessiva e dannosa temperatura di cottura). Verso la fine si aggiunge il resto del brodo in modo da rendere il riso assai morbido aggiungendo, inoltre, una noce di burro e una spolverata di formaggio grana grattugiato di fresco, che lo renderanno definitivamente cremoso.

 

Alberta Bellussi

 

 

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Il Raboso!

È il vitigno che sento più appartenermi perché vino della zona del Piave per eccellenza; perché quando nasci qua, del Raboso senti sempre parlare come una sorta di vino maschio; o forse perché abito a Tezze di Piave , e  a inizio ‘900 proprio in questo paese,  il Raboso rappresentava, pressoché, l’unico vitigno coltivato.  Gli anziani, ancora in vita, qualsiasi cosa tu abbia, influenza, fiacchezza,  ti dicono un “bicer de Raboso e te fa bon sangue”, addirittura alcuni ne mettevano un bicchiere nel brodo come ricostituente.

I “vecchi di casa”, avendo noi una cantina che da 2 secoli produce il Raboso, mi raccontavano che quando una puerpera aveva appena partorito ed era fiacca o una persona aveva avuto un operazione, alcuni medici dell’Ospedale di Conegliano prescrivevano due bicchieri di Raboso al giorno. Addirittura raccontava che nelle zone di bonifica a Cinto Caomaggiore, gli operai dell’Azienda Zacchi, si fossero malati di malaria e il titolare venne in azienda a comprare un carro pieno di damigiane e dopo qualche mese di Raboso, guarirono; magari non fu per quello ma questi racconti orali dimostrano come fosse importante il ruolo che veniva dato a questo vino.

La vite del Raboso, vitigno autoctono e rustico, è la prima a germogliare e l’ultima a concedersi alla raccolta del proprio frutto. Il suo segreto è nel terreno: in quei terreni ghiaiosi e argillosi, in quegli antichi greti, in quelle golene tra il fiume e i suoi argini, dove maturano sotto il sole ardente.

La vendemmia dell’uva rabosa   avviene ad autunno inoltrato. E’ forse, l’unica vendemmia che mantiene ancora il sapore antico della tradizione e della vendemmia totalmente a mano perché quasi tutti i vitigni sono piantati con il sistema a bellussera che sembra pensato per rendere al massimo questa varietà.

Il Raboso viene descritto con gli stessi aggettivi che si usano per descrivere le genti del Piave: forte, robusto, pieno di carattere. Un vino maschio a tutti gli effetti.

La sua vite, che vanta un origine antichissima, accompagna il lungo viaggio degli Heneti, in seguito denominati Paleoveneti, dalle terre di origine fino alle pianure dell’alto golfo Adriatico.

Dopo la caduta dell’Impero Romano, il Raboso del Piave è tra i vini più richiesti e graditi nel vasto mercato che ruota attorno alle attività commerciali e alla vita stessa della Serenissima Repubblica di Venezia, almeno fino dal 1500, poiché quando veniva portato nelle navi restava perfetto, a differenza degli altri vini che deperivano. Che fosse anticamente presente nella zona del Piave lo conferma anche Jacopo Agostinetti, conoscitore di cose agricole nato e morto a Cimadolmo (TV), che alla fine del ‘600, già ottuagenario, nelle sue memorie che intitola “Cento e dieci ricordi che formano il buon fattor di villa”, scrive: “Qui nel nostro paese, che per lo più si fanno vini neri per Venetia di uva nera che si chiama recandina, altri la chiamano rabosa per esser uva di natura forte….”

Diventa tanto importante questo vitigno da essere, agli inizi del ‘900, il dominatore in due aree viticole: l’area compresa tra Conegliano e la strada Callalta ed i fiumi Piave e Livenza, chiamata “zona del Raboso Piave”. In quel periodo nell’area del Raboso Piave si producevano complessivamente 100.000 ettolitri di vino di cui circa 80.000 erano di Raboso Piave.

Sono anni duri quelli di inizio secolo segnati dall’arrivo delle malattie devastanti (l’oidio, la peronospora e la filossera) e dalla desolazione delle campagne nell’ultimo anno della grande guerra, il vitigno Raboso, proprio perché rustico e forte, è riuscito a sopravvivere, restando il più diffuso nella pianura trevigiana e soprattutto del Piave.

Nel secondo dopoguerra però il Raboso del Piave inizia a vacillare sul trono e la tendenza si inverte portando, per molti anni, la sua coltivazione dal 90% al 5%.

 Solo a metà degli anni ’90 la terra del Piave accompagna una nuova stagione del suo Raboso.

Si riparte dalle radici mettendo a frutto le intuizioni di capaci e coraggiosi vignaioli, sempre sostenute dal mondo dello studio e della ricerca: La Scuola Enologica di Conegliano, L’Università di Padova e il Centro di Ricerca di Viticoltura.

Il Raboso vanta una Confraternita e un inno a lui dedicato.

Il Raboso è stato protetto con il disciplinare DOC Piave e Malanotte DOCG.

Il vino ottenuto dalle uve di Raboso con le tecniche tradizionali, è di colore rosso intenso, con un gradevole profumo particolare che ricorda la marasca, non molto alcolico; il sapore è acido, aspro, dotato di molto corpo. Il suo profumo è inebriante, davvero ricco e complesso.

È un uva che si presta a molte possibilità; può diventare ottimo vino robusto di corpo, con invecchiamenti in botte e in barrique come descrivono i disciplinari del Doc e del DOCG. Può essere appassito, diventando un vino prezioso, per la resa bassissima in vino, ma soprattutto per le caratteristiche organolettiche che assume. La sua austera struttura è così ammorbidita dal naturale dolce degli zuccheri residui. Può essere vinificato in rosato e diventare una piacevole bevanda, che si presenta di un bel colore rosè caratteristico per la sua acidità, stemperata da un sapiente equilibrio tra dolce e frizzante: servito ben fresco è un ideale vino per l’estate Se vinificato in rossissimo, e diventare correttore di colore e di acidità. Infine può essere vinificato in bianco, senza le bucce, e presentarsi neutro all’olfatto, da utilizzare in soccorso di vini bianchi, anche pregiati, difettosi di acidità.

In alcune osterie viene bevuto, ancor oggi, nelle “scudee” dove lasciava ben definito il contorno rosso deciso del Raboso; indimenticabili quelle dell’osteria Ciao Bei.

È un vino che per le sue mille varianti si presta ad accompagnare nella versione del rosato gli antipasti e gli apertivi e nella versione del passito i dessert. Però nella sua forma più classica di vino rosso corposo è lo sposo preferito della carne rossa, la cacciagione, i formaggi, ma è anche adatto ad accompagnare le serate tra amici.

Gli anziani della zona del Piave dicevano: “Bevi Raboso e campi 100 anni” e vedendo gli ultracentenari che ci sono nella nostra zona credo proprio che sia così.

 

Alberta Bellussi

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. Prosecco… sono giorni che è su tutti i giornali più famoso di una star ora zona Patrimonio dell’Umanità dell’Unesco : prime pagine, reportage, servizi…il 2020 sarà di nuovo un’annata anomala…tutto il mondo agricolo dipende dal tempo, dal sole e dalla pioggia.

Bolla di sapone o solido diamante? …. amatissimo o criticato ?

Vero è che da sempre quando una cosa funziona si cerca un po’, in tutti i modi di attaccarla, per un costume tutto italiano ma è innegabile che questo vino bianco brioso ha dimostrato di avere in sé potenzialità tali da contribuire con i suoi numeri a battere nelle vendite i consolidati cugini d’oltralpe.

Non si arresta la crescita dello spumante italiano, che chiude il 2019 con l’ennesimo dato positivo della domanda estera, che, per la prima volta, ha superato i 4 milioni di ettolitri (+8%), a fronte di un +5% dei corrispettivi introiti. Bene anche i consumi interni, +6% complessivamente e produzione che cresce proporzionalmente per arrivare a superare i 760 milioni di bottiglie, di cui i i due terzi prendono la via dell’estero, per un valore stimato di 3,3 miliardi di euro, come raccontano i dati elaborati da Ismea.

Analizzando proprio l’export, pur in un contesto positivo per il 2019, c’è da registrare un sostanziale rallentamento della corsa degli spumanti italiani, che, per anni, avevano registrato incrementi a due cifre. Altro aspetto da sottolineare è che, pur essendo cresciuto tutto il settore spumantistico, la domanda estera è trainata essenzialmente dal Prosecco: una dipendenza eccessiva da un unico prodotto che in molti percepiscono come una debolezza del sistema. In effetti, il Prosecco, il 65% dell’intero export a volume di spumanti, è cresciuto del 21% a fronte del -10% dell’Asti, accompagnato da un ridimensionamento significativo anche degli altri spumanti Dop.

Non vi voglio parlare dell’aspetto economico bensì della sua origine storica per cercare di fare un po’ di ordine in mezzo a un mare di informazioni.

Il Prosecco è un vino di origine antica ma un vino per essere “grande” deve essere intimamente legato al territorio di produzione valorizzandone la storia, la cultura, la tradizione.

Il vitigno del Prosecco ha origine, in territorio triestino, e ha preso il nome dal Comune di Prosecco; frazione del Comune di Trieste, sull’altopiano carsico (quasi in Slovenia), che raccoglie nel suo territorio gli splendidi vitigni da cui si ricava l’omonimo vino. Tra questi, quello delle uve Glera, dai lunghi grappoli e dagli acini dorati, che costituiscono in genere l’85% delle bacche utilizzate nella produzione del Prosecco; una piccola frazione, comunque non superiore al 15% del totale, può essere costituita da verdiso, bianchetta trevigiana, perera, glera lunga, chardonnay, pinot bianco, pinot grigio e pinot nero vinificato in bianco.

Verso la fine del 500 l’identificazione del castellum nobile vino Pucinum con il Castello di Prosecco, sito nei pressi dell’omonimo comune portò alla denominazione definitiva del vino in Prosecco.

A questo proposito lo storico  Villafranchi, nel 1773, nel suo saggio “Enologia Toscana”, scriveva “… Tra quelli d’italia era dai Romani infinitamente gradito il vino Puccino, latinamente Puxinum, oggi giorno detto Prosecco, che tuttora si raccoglie nel pendio del monte di Contuel in faccia al Mare Adriatico, poche migliaia distante da Trieste…”.

La nascita storica del vino con questo nome, quindi, ci riconduce al Friuli-Venezia Giulia.

Non si conosce quando e in che modo l’antenato del Prosecco sia giunto dal Carso alle terre di Conegliano – Valdobbiadene, ma questa data è stata fissata negli ultimi decenni di vita della Repubblica di Venezia, intorno al 1750. Mentre la Serenissima era ormai al tramonto sorgono nelle colline di Conegliano-Valdobbiadene nuovi fermenti proprio in quel settore che da molto tempo appariva il più trascurato quello enologico.  Qui il vitigno trovò il suo habitat naturale;  ha dato e continua a dare il meglio di sé.

Infatti, agli inizi del ‘800, Francesco Maria Malvolti, in sede all’Accademia di Conegliano, notava “… chi non sa quanto squisiti siano i nostri Marzemini, Bianchetti, Prosecchi, Moscatelli…”.

In seguito al Congresso di Vienna del 1815 l’imperatore dell’Austria-Ungheria, succeduto al governo del Lombardo Veneto, alla Repubblica di Venezia e poi a Napoleone, spinto dalla necessità di conoscere il patrimonio viticolo della regione da incarico al Conte Pietro di Maniago di formulare un catalogo dei vitigni coltivati, che questo gli consegnerà nel 1823.

Maniago cita per le colline di ConeglianoValdobbiadene la Perella, la Pignoletta bianca, la Verdisa lunga, dell’Occhio, Marzemino nero e Prosecco.

Verso il 1850, quando queste terre appartenevano ancora all’Impero Austro-Ungarico, lo studioso Gian Battista Semenzi a proposito dei vini prodotti nel  Conegliano-Valdobbiadene afferma:” Nelle colline le uve producono i squisitissimi vini bianchi sono: la Verdisa, la Prosecca e la Bianchetta. Questi vini venivano venduti in Carinzia e in Germania cioè in quella Mitteleuropa di cui il Veneto faceva parte integrante”.

Alcuni anni dopo la nascita dello stato Italiano(1861) il parlamento decide di redigere un’indagine sulle condizioni dell’agricoltura italiana chiamata  “Inchiesta Jacini”.

Per il territorio di Conegliano-Valdobbiadene i ricercatori consigliano di estirpare i vecchi vigneti e sostituirli con altri di qualità superiore. All’epoca si producevano nel comprensorio di Conegliano-Valdobbiadene 25000 hl di Verdiso, 6600 di Bianchetta, 3800 di Boschera e 3200 di Prosecco che quindi era un vitigno del tutto secondario.

Alcuni anni più tardi, nel 1868, grazie all’impegno del Dottor Antonio Carpenè e dell’Abate Felice Benedetti, presidente del Consorzio Agrario di Conegliano, viene fondata sempre a Conegliano la Società Enologica Trevigiana. Questa nuova istituzione fu di portata dirompente per l’ancora stagnante viticoltura Trevigiana innescando una rivoluzione vitivinicola i cui frutti positivi iniziano ben presto a farsi vedere, specie per il Prosecco che verrà allevato sempre più in purezza, mentre prima era misto con altre varietà.

I meriti di aver dato inizio alla storia moderna del Prosecco vanno al Conte Marco Giulio Balbi Valier che negli anni successivi al 1850 aveva isolato e selezionato un clone di Prosecco migliore degli altri, individuato ancora oggi come “Prosecco Balbi”.

Va ricordata la Scuola di Viticoltura ed Enologia di Conegliano nata nel 1876 come erede della Società Enologica Trevigiana. Questa scuola concepita da Antonio Carpenè insieme a Gian Battista Cerletti ha avuto tra i suoi docenti più noti, personaggi di altissimo prestigio internazionale come Arturo Marescalchi, Giovanni Dalmasso e Luigi Manzoni i quali posero le basi per la moderna Scienza viticola ed enologica.

Ma è nell’ultimo dopoguerra che il Conegliano-Valdobbiadene esprime al meglio le sue grandi potenzialità. E’ concluso da poco il Secondo Conflitto Mondiale quando i più attenti viticoltori di Valdobbiadene si organizzano per difendere, valorizzare la viticoltura collinare e l’antica tradizione vitivinicola, costituiscono il 14 agosto 1945 la Confraternita dei Cavalieri del Prosecco.

Nasce così il 7 giugno 1962 il Consorzio di Tutela del vino Conegliano-Valdobbiadene Prosecco con sede a Villa Brandolini presso Solighetto di Pieve di Soligo. Da allora il Consorzio opera con grande intelligenza e determinazione per difendere, valorizzare e promuovere l’immagine del Prosecco facendolo conoscere non solo in Italia ma anche all’estero offrendo agli estimatori di tutto il mondo caratteristiche inimitabili proprie soltanto della terra d’origine ossia ConeglianoValdobbiadene.

Il risultato dell’impegno dei produttori e del Consorzio di Tutela si fanno subito vedere tanto che nel 1963 Valdobbiadene diventa ufficialmente capitale non solo del Prosecco ma dell’intero mondo dello spumante italiano con la Mostra Nazionale degli Spumanti che ogni anno a settembre, organizzata dalla Confraternita dei Cavalieri del Prosecco, ha luogo nella prestigiosa Villa dei Cedri di Valdobbiadene. Punto d’incontro tra tutti gli spumantisti italiani fra cui quelli di Prosecco occupano un posto di tutto rilievo.

Alcuni anni più tardi, nel 1969 il Conegliano-Valdobbiadene conquista un altro prestigioso risultato quando il comprensorio collinare ottiene la DOC e il vitigno Prosecco il maggiore riconosciuto dal disciplinare di produzione. Questo riconoscimento viene osservato sempre con maggiore interesse anche lontano dalla zona di produzione e comincia ad essere richiesto nei ristoranti ed enoteche più esclusive di tutto il mondo. In questi anni il Conegliano-Valdobbiadene Prosecco DOC è divenuto il vino bianco più richiesto in italia e nel mondo

Lo straordinario successo ottenuto dal Prosecco a partire dal secondo dopoguerra ha creato una serie di tentativi di imitazione: vini denominati “Prosecco” sono stati prodotti in Sudamerica (“Prosecco Garibaldi” in Brasile), in Croazia (“Prošek”), in Australia (“Prosecco Vintage”) eccetera.

Diventando quindi urgente una regolamentazione legislativa che arginasse il fenomeno ed essendo vietato dalle norme internazionali proteggere il nome di un vitigno (era invalso infatti l’uso di chiamare “Prosecco” il vitigno produttore del vino), si rese necessario ricollegare la produzione veneta col nome della località originaria del Prosecco, e cioè la località omonima presso Trieste, nel contempo ripristinando gli antichi nomi – “Glera” e “Glera lunga” – dei vitigni.

Si decise quindi di creare un’area di produzione contigua costituita dalle province del Veneto e del Friuli Venezia Giulia ove il vitigno era autorizzato o era stato avviato il procedimento autorizzativo. L’iter venne concluso il 17 luglio 2009, con la promulgazione del decreto di riconoscimento della DOC “Prosecco”, delle due DOCG “Conegliano Valdobbiadene – Prosecco” e “Colli Asolani – Prosecco” (o “Asolo – Prosecco”) e del relativo disciplinare di produzione. La riorganizzazione di tutta la produzione ha avuto luogo a partire dalla vendemmia iniziata il 1º agosto 2009.

Dal 2019 tutta l’area per la sua bellezza e l’originalità delle sue vigne è diventata Patrimonio dell’Umanità dell’Unesco.

E che anche quest’anno le bollicine di Prosecco DOCG e DOC  portino momenti di convivialità e allegria tra amici di tutto il mondo.

 

Alberta Bellussi

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La bellussera

Siamo in periodo di vendemmia, uva e vigneti.

Approfitto per raccontarvi la storia di una scoperta che appartiene alla mia famiglia: “la bellussera”, sistema di allevamento della vite diffuso in Veneto da fine ‘800.

Magari girando per la nostra Regione e soprattutto per la pianura trevigiana avete visto quell’antica forma di viticoltura, particolarmente scenografica e molto interessante sia dal punto di vista storico che sociale.

Vista dall’alto, “la bellussera”, sembra un merletto ricamato o un alveare tanto è precisa e perfetta: un’opera d’arte.

“La bellussera” fu inventata per andare incontro a varie esigenze; in primis cercare di produrre una grande quantità di uva ma l’aspetto più affascinate è il valore sociale e economico che ha avuto nella civiltà contadina da fine ‘800 in avanti.

Questo sistema di allevamento fu così realizzato principalmente per due motivi; in primo luogo perché così disposte le viti rendevano più facile combattere la peronospora, malattia della vite molto diffusa, e in secondo luogo permetteva di sfruttare al massimo le risorse della terra sotto al vigneto.

Nell’Ottocento, le campagne della zona del Piave erano coltivate tutte in regime di mezzadria e ai contadini restava solo 1/3 del raccolto. I vigneti a “bellusera”, tenendo i tralci vitati a oltre due metri d’altezza, evitavano che l’umidità delle terre del Piave, ricche di risorgive, potesse creare le condizioni per lo sviluppo della peronospora e producevano, così, grandi quantità d’uva per ettaro per la felicità dei contadini. Nei corridoi dell’interfilare, poi, si potevano coltivare ortaggi di ogni tipo; sotto le viti si faceva il fieno per le mucche e l’erba per i conigli o gli altri animali da cortile.  Quando le viti venivano maritate ai gelsi, si potevano utilizzare le foglie delle piante per allevare bachi da seta. “La bellussera” era un bellissimo esempio di piccolo eco-sistema di coltivazioni agricole integrate garantiva in questo modo la sussistenza delle famiglie molto numerose dei contadini e la cospicua produzione di uva rendeva lieti i mezzadri.

L’abbandono della mezzadria, i nuovi metodi per combattere la peronospora e la concezione moderna della viticoltura di qualità, indirizzata verso le basse rese e la vendemmia meccanica, hanno di fatto decretato la fine delle vigne a “bellussera” anche se in questi ultimi anni c’è un ritorno per alcuni tipi di uva come il Raboso o i rossi perché rende una qualità migliore.

Questo sistema così interessante e ricco di risorse fu ideato dai fratelli Bellussi alla fine dell’800 nel Comune di Tezze di Piave, in provincia di Treviso. Le prime applicazioni di questo sistema furono sperimentate dai fratelli Girolamo e Antonio, agricoltori di Tezze di Piave (TV) partendo da un’idea del padre Donato.

La prima fase di tale sperimentazione consistette nell’alzare le viti a m. 2.50 circa da terra, a fianco di un tutore vivo e piegandole in guisa da formare capi a frutto che venivano fissati per le estremità a pali di legno posti alla metà dell’interfilare. In tal modo era data la possibilità ai tralci fruttiferi della vite di rimanere al di fuori della zona d’ombra prodotta dal tutore vivo.

Senonché, essendosi dimostrato tale sistema assai ingombrante e di non troppa solidità, fu successivamente modificato dagli stessi fratelli Bellussi, ponendo un palo in legno, alto 4 metri, accanto al tutore vivo, quasi per rinforzo. Questo palo aveva la funzione di sorreggere alcuni fili di ferro disposti a raggio congiungentisi ad altri pali in corrispondenza ad ogni capo a frutto. I Bellussi collocarono una piccola frasca che aveva lo scopo di dare la possibilità ai germogli di affissarsi. I cordoni, così sistemati, riuscivano ad assumere direzione obliqua.

Una terza modificazione fu apportata quindi dai Bellussi al loro sistema che per maggior solidità ed anche per risparmio di pali subì una trasformazione nella disposizione dei fili di ferro che furono collocati a tre: uno orizzontale e due obliqui su di un piano verticale; le frasche vennero fissate al filo superiore. In riconoscimento di queste benemerenze, Antonio Bellussi venne nominato Cavaliere del Lavoro. Vittorio e Guerrino continuarono le nobili tradizioni familiari, mantenendosi all’avanguardia nella coltivazione della vite e nella produzione del vino e poi i figli di loro Agostino e Lamberto, e i nipoti Vittorio, Enrico e Alberta.

Nei primi del ‘900 fu anche esportata in Sud America a Mendoza.

Scrive Gianni Moriani:   ”trattasi di una ingegnosa soluzione che si mostra agli occhi sorprendentemente preziosa, come un pizzo realizzato con il famoso punto in aria, specialità di certe merlettaie del nostro estuario. Entro in questa verde “chiesa”, attraverso una porta sempre aperta, in una luminosa giornata, mossa da uno zefiro che fa dondolare le foglie: la scena richiama alla mente l’arte cinetica delle installazioni create da Alexander Calder. Credo che i fratelli Antonio e Matteo Bellussi, geniali realizzatori di questo originalissimo sistema di allevamento viticolo, partendo da un’idea del padre Donato, vadano a pieno titolo iscritti tra gli anticipatori dell’arte cinetica. Come le più ardite opere architettoniche, anche la Bellussera si regge su ferrei principi geometrici. Da ogni sostegno i tralci si dipartono a raggiera, per catturare più raggi di sole possibile. Si può dire che tolti i tutori, tutto sia appeso alla leggerezza di un filo”.

Alberta Bellussi

 

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In questa estate, più che mai, a qualsiasi ora del giorno, se metto il piede fuori di casa divento il bocconcino preferito di una quantità innumerabile di quelle assurde bestioline nere o tigrate, che appena si appoggiano su un millimetro di pelle ti lasciano un fastidiosissimo bozzo sulla pelle; esse sono  chiamate volgarmente ZANZARE

Amo gli animali ma questi insetti credo di averli insultati con una  varietà esagerata di epiteti e  picchiati con ogni mezzo a portata di occhio, procurando  ogni tipo di violenza a loro e  ai miei arti felicemente scoperti dal caldo estivo ma infelicemente preda degli attacchi dall’alto di questi animaletti con gusti vampireschi.

E poi se per caso di notte ne hai una che gira per la camera, perché ti sei dimenticata la finestra aperta, decide sempre di iniziare a volare quando spegni la luce e lo spazio di volo preferito è sopra l’orecchio che non hai schiacciato sul cuscino…grrrr… Potrebbero vincere il premio nobel per i dispetti, questi piccoli “adorabili grrr” insetti.

Grrr… finisci di grattarti la spalla, ti prude la gamba, il piede, il ginocchio e qualche zanzara più audace si spinge fino ai glutei …. bastaaaaaaaaaa….che fastidio!

Grrr…..uno dei primi mezzi inventati dall’uomo per affrontare il conflitto uomo-zanzara si chiama zampirone.

Ma lo sai che lo zampirone è un’invenzione tutta veneta, con una correzione in corsa Made in Japan nella  forma.
Una volta era usatissimo…e nelle sere estive eravamo tutti assuefatti da questa strana essenza che emana il fumetto dello zampirone…che come l’effetto di uno strano sortilegio saliva da sotto le tavole imbandite perché veniva messo ai piedi dello stesso, sopra un piattino di ceramica che ne raccoglieva anche la cenere della parte che bruciava. Non mancava mai la scatola quadrata che conteneva le spirali verdi di zampironi nelle case venete d’estate.

Essere vicina allo zampirone a me dava conforto; mi sentivo protetta da quei piccoli “vampiri”. Ora ci sono mille spray e aggeggi elettronici in supporto al caro vecchio zampirone ma viene ampiamente utilizzato, soprattutto in Asia, Africa e Australia, paesi dove gli insetti sono davvero molto pericolosi per la salute.

Lo zampirone è realizzato con polveri compresse di Tanacetum cinerariifolium che bruciando molto lentamente sprigionano un fumo nocivo per zanzare, pappataci  ecc

Il primo a capire le caratteristiche del piretro fu Zacherl, inventore austrico che  sviluppò un efficace prodotto contro le falene realizzato naturalmente con i fiori di Piretro. A tal scopo, si accordò con i capi dei villaggi caucasi per la raccolta delle piante e la loro spedizione a Tiflis, dove Zacherl macinava i fiori essiccati per ottenere la polvere di piretro, che poi veniva imballata in sacchi di pelle di pecora e esportata in Europa.

La notizia varcò le Alpi e giunse a Giovanni Battista Zampironi, valente farmacista, veneziano laureato a Padova in Chimica farmaceutica che, nel 1862, perfezionò la formula. Il suo insetticida chiamato “fidibus insettifugo” composto al 50% da polvere di piretro, 35% di nitrato di potassio e 15% di segatura o qualcosa che legasse il tutto. Il successo commerciale portò all’utilizzo del termine “zampirone” dal nome dell’inventore. I primi insetticidi erano fatti come dei coni trapezoidali alti circa 35 cm.

Alla fine del XIX secolo, l’imprenditore giapponese Eiichiro Ueyama produceva bastoncini lunghi circa 20 cm di incenso mescolati con polveri di amido, bucce secche di mandarino e piretro, che bruciavano in circa 40 minuti. Nel 1895, la moglie Yuki (ispirata dalla visione da un serpente attorcigliato) gli propose di fabbricare bastoncini più spessi e che durassero più a lungo, ovvero di piegarli a spirale. Nel 1902, dopo una serie di prove ed errori, venne perfezionato un prodotto simile ad incenso da bruciare con la forma a spirale, che veniva realizzato tagliando una serie di strisce di incenso che poi venivano riavvolte  manualmente.

Lo zampirone è un rimedio che non passa mai di moda. Anni e anni di onorato servizio contro le zanzare testimoniano la sua efficacia.

Zzzzzzzzzzzzzzzzzz zzzzzzzzzzzzzzzzz

Alberta Bellussi

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Ormai chi mi segue nella pagina del Ilcuoreveneto lo sa che sono affascinata e attenta a quei modi di dire che erano nel parlare dei nostri nonni e che, ogni tanto,  escono, anche a noi,  in mezzo ai discorsi del vivere quotidiano.

Ascolto il linguaggio dei ragazzi e mi rendo sempre più conto che il loro disquisire manca di questi detti coloriti e carichi di veneticità e un po’ mi dispiace.

L’altro giorno ero in Posta e mi piace parlare con gli anziani, mentre attendo il mio turno, e un signore di 86 anni  mi raccontava della sua Cinquecento parcheggiata fuori, mi ha detto: “ la e dei tempi de Marco Caco ma la se mantien come na signorina”.

Uè! mi si è accesa la lampadina, anche mia nonna parlava spesso di sto Marco Caco per dire che una cosa era tanto ma tanto vecchia, in modo ironico, ma non solo e allora ho provato a cercare per capire chi fosse.

Di notizie sul signor Caco ce ne sono davvero poche, sembra, però, che il nome con il quale è “comunemente” conosciuto sia la storpiatura di Marco Cacamo. Lui era un  valoroso condottiero che si contraddistinse nella lotta tra veneziani e padovani alla Torre delle Bebbe, nel 1214.

Si tratta della “guerra del castello d’amore”. La vicenda ha inizio a Treviso, il 19 maggio 1214, festa di Pentecoste, dove era stato allestito, secondo la tradizione popolare di quella città, un castello di legno, addobbato a festa, dagli spalti del quale si affacciavano per difenderlo le fanciulle più belle della città.

Erano accorsi giovani anche dalle città vicine: Padova, Venezia e Chioggia. Avanzavano nell’impresa tenendosi uniti attorno al vessillo della propria città. Nella finzione le armi della contesa sarebbero state innocue, ovvero fiori, dolci, confetti e battute spiritose.

Ben presto si venne alle mani e la gara degenerò in zuffa, quindi in una vera e propria battaglia quando i padovani ebbero la malaugurata idea di stracciare e vilipendere lo stendardo veneziano.  Davanti allo sfregio del gonfalone di San Marco, veneziani e chioggiotti sfoderarono le armi e non ci fu una sanguinosa carneficina solo grazie all’intervento del sovrintendente della gara, Torello Salinguerra.  Ma la lotta, momentaneamente interrotta venne ripresa su iniziativa dei padovani che, alleati con un gruppo di trevigiani, si presentarono ai confini del territorio di Chioggia per riprendere le ostilità, guidati dal capitano Geremia da Peraga, decisi ad ottenere la rivincita ma anche i vantaggi sulle saline.

Ottennero risultati positivi scendendo d’improvviso nei territori di Cavarzere e Cavanella d’Adige, riuscendo anche ad occupare la Torre di Bebe, a Chioggia,  che pure era stata difesa strenuamente dai chioggiotti capitanati dal coraggioso Marco Cacamo detto Caco.

Il contrattacco, con l’appoggio di un contingente veneziano, ebbe inizio il 21 ottobre 1214 e fu coronato da una serie di successi.

La compagnia di trevigiani accorsi in aiuto dei padovani venne sconfitta e si procedette al recupero dei castelli, nei quali si erano annidati i nemici, compreso Geremia da Peraga, che cadde nelle mani alleate.

La pace venne siglata il 9 aprile del 1215 e le clausole rivelarono la vera natura della contesa: la restituzione dei territori sottratti alla Repubblica di Venezia e il divieto ai padovani di avvicinarsi alla laguna.

Quindi essere dell’epoca di Marco Caco significa avere circa 800 anni.

Alberta Bellussi

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Mi capita spesso di pensare ai grandi personaggi che hanno amato la nostra terra  e devo dire che più volte ho avvertito quasi un sussulto emotivo a entrare all’Harry’s Bar a vedere il tavolo dove Hemmingway sedeva, o a immaginarlo scrivere in quelle seggiole davanti alla locanda Cipriani a Torcello mentre si faceva accarezzare dalla luce della luna o ancora ho sentito le sue intense parole echeggiare tra i casoni di Caorle dove si divertiva nelle cene con gli amici.

Hemingway è un po’ un veneto di adozione.

E se c’è uno scrittore straniero che noi veneti sentiamo vicino, quasi parte della nostra cultura, è proprio Hemingway per il rapporto intenso e cercato che ha avuto con la nostra terra.   La nostra Regione, ma soprattutto il Nordest, conservano tracce indelebili della sua presenza : dalla Grande Guerra alle escursioni degli anni ’50 per rivivere i luoghi che avevano segnato fortemente la sua vita.

Fu il destino a portare lo scrittore americano dalle nostre parti nel corso della Prima Guerra Mondiale, ci arrivò come volontario della Croce Rossa Americana. Fu un incontro violento quello che avvenne tra lo scrittore e il Veneto nel 1918.

Nella battaglia del Solstizio, che dal 15 al 24 giugno 1918 attraversò come una linea di fuoco il Veneto, dall’Altopiano di Asiago al Grappa, dal Grappa fino al Piave; il territorio veneto fu campo di battaglia dalle montagne fino a Jesolo, ai tempi ancora Cava Zuccherina. Fu l’ultima spallata, furiosa e disperata, delle armate dell’Impero austroungarico. Hemingway, in un primo momento, si trovava in trincea sul Pasubio, coraggioso e impavido, si spostò,poi, sul fronte del Piave, a Fossalta.

Qui la notte dell’8 luglio 1918 venne ferito gravemente ad un ginocchio oltre che subire lesioni da schegge di proiettile su tutto il corpo.  Ernest giovanissimo venne ricoverato a Milano, dove incontrò e si innamorò perdutamente dell’infermiera Agnes Von Kurowsky, che sarà la protagonista del capolavoro Addio alle Armi.

In Veneto ci tornò, la prima volta, alla fine Prima Guerra Mondiale, nel 1922, con la prima moglie, Mary Welsh, a Fossalta di Piave, luogo che rimase per sempre nella sua memoria e nella sua carne. A lei mostrò dove aveva rischiato la vita.

Passionale, irrequieto e estremo dalla sua America dedicò molti libri e pagine piene di emozioni al “suo” Veneto.

L’amore per l’Italia e la nostra regione lo spinge a tornarci nel 1948 con la quarta moglie Mary, per ritrovare i luoghi dei vecchi ricordi di guerra.

Da Cortina venne a Venezia dove trascorse diverso tempo. Un mese rimase all’hote Gritti, poi si trasferì, a Novembre, alla Locanda Cipriani a Torcello, consigliatagli come luogo ideale dove poter scrivere.

Amava perdersi per Venezia tra i sapori e i colori del Mercato di Rialto; andare alla Locanda Cipriani a Torcello, al Caffè Florian a piazza San Marco, all’Harry’s Bar dove si sentiva come a  casa e beveva Martini al tavolo che era sempre riservato a lui.  In compagnia dell’amico Carlo Kechler andava a cacciare le anatre lungo i canneti delle barene nella Laguna di Caorle. Terra questa che lui amerà perché incontaminata e popolata di gente di mare. Qui incontrerà la diciannovenne Adriana Ivancich, l’ennesimo amore per Ernest e questa volta fu scandalo per l’età di lei; sarà l’ ispiratrice e protagonista di Di là dal fiume e tra gli alberi.

Tornò molte volte in Veneto in quegli anni.

Ma fu nel 1954 che Ernest arrivò a Venezia in maniera quasi clandestina. Proveniva da Mombasa e viaggiò per tutto il tempo in nave, all’insaputa di tutti dato che, di lui, si era sparsa la notizia della sua morte prematura avvenuta a seguito di un incidente aereo. Al Gritti rimasero senza fiato vedendolo arrivare con ben 84 valigie a suo seguito…

In quell’anno ricevette anche il Nobel per la letteratura, assegnato per  Il  vecchio e il mare, un racconto pieno di sentimento intenso, e sofferente dove il vecchio fino alla fine  dovrà lottare con un pesce enorme, catturato dopo fatiche incredibili. Libro che sottolinea il valore di chi non si vuole arrendere.

“Ora non è il momento di pensare a quello che non hai. Pensa a quello che puoi fare con quello che hai” -Il vecchio e il mare.

E mi sento di ringraziarlo davvero per averci in qualche modo scelti “Sono un ragazzo del basso Piave… sono un vecchio fanatico del Veneto ed è qui che lascerò il mio cuore” – scriveva Hernest Hemingway a un amico.

 

Alberta Bellussi

 

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Più mi inoltro nelle ricerche per il mio blog www.ilcuorevento.it più resto piacevolmente colpita di quante sono le invenzioni importati, nel mondo, nelle quali scorre sangue veneto nelle vene.

Io utilizzo il PC ogni giorno da tantissimi anni ma non sapevo che molto di questa macchina è stata inventata da un veneto davvero di fama mondiale. Non è un articolo semplice e nemmeno corto ma la grandezza del personaggio e delle sue scoperte meritava che io gli dedicassi tutto lo spazio di cui necessitava senza tagli per alleggerire il lettore. Vorrà dire che lo leggerete in due volte se vi stancate ma merita davvero.

 Federico Faggin, questo il suo nome, ha creato il primo microchip o microprocessore che ha rivoluzionato la vita di tutti noi; scoperta la sua che darà il nome anche alla mitica “Silicon Valley”, la rivoluzione del silicio che cambiò il mondo.

Federico Faggin è nato nel 1941 a Vicenza. Il papà era uno dei massimi studiosi e professori, dell’epoca, in materia di storia della filosofia ma lui aveva altri interessi già da piccino.

Era un ragazzino di 11 anni e aveva già le idee chiare, un gradissimo ingegno, visione per il futuro, e una passione enorme per l’aero-modellistica. Nonostante il papà non fosse molto felice della sua passione lui si costruì un modellino di aereo che magicamente si alzò in volo senza problemi.

Federico disse che quel suo successo segnò un momento di svolta per la sua intera vita. A 13 anni aveva imparato come si costruisce un prodotto: iniziando con l’ideazione, seguendo con la progettazione e il design, per completarsi infine nella realizzazione.

Questa grande passione lo porterà a scegliere studi tecnici alle superiori; amava i transistor e i computer. A 19 anni con il diploma di perito industriale, iniziò subito a lavorare presso la Olivetti di Borgolombardo. Da solo, aveva contribuito, per quasi il 60%, alla progettazione e alla costruzione di un piccolo computer digitale a transistor.

Faggin decise di approfondire i suoi studi in fisica presso l’Università di Padova, dove conseguì la laurea 110 e lode in anticipo con i tempi di studio.

Cominciò a lavorare per la SGS-Fairchild (oggi STMicro) ad Agrate Brianza, dove si dedicò a sviluppare la prima tecnologia di processo per la fabbricazione di circuiti integrati commerciali MOS. La SGS-Fairchild inviò questo ragazzo prodigioso a fare un’esperienza di lavoro presso la sua consociata leader nel settore a Palo Alto in California.

Faggin a Palo Alto visse quella “straordinaria energia della ricerca scientifico-tecnologica” che scorre in questa parte di Estremo Occidente.

Nel 1970 passò alla Intel e con le sue intuizioni iniziò un cambiamento che rivoluzionerà il mondo. E’ infatti nel 1971 che ha inizio la ‘seconda rivoluzione industriale’.

La seconda rivoluzione industriale ha il suo ‘motore’ che muove tutto e prende forma nella straordinaria invenzione del microprocessore o MPU (MicroProcessing Unit), ad opera di tre ingegneri della Intel di Santa Clara, Federico Faggin e gli americani Marcian Edward Hoff Jr. e Stanley Mazer. Riuscirono a concentrare su una piastrina di 4 millimetri per 3 un ‘supercircuito integrato’ (che venne soprannominato ‘miracle chip’) contenente ben 2.250 transistor che costituivano tutti i componenti di una unità di elaborazione: ‘cervello’, memoria d’entrata e di uscita. La spinta alla realizzazione del primo microprocessore al mondo fu la richiesta della società giapponese Busicom di sviluppare la parte elettronica di una calcolatrice da tavolo.

Il compito di tradurre questa intuizione in una macchina funzionante fu di Faggin. La realizzazione elettronica dello schema eseguita da Faggin portò alla realizzazione del primo microprocessore: l’Intel 4004.

Per lo sviluppo del microprocessore 4004, la Intel – fondata nel 1968 da un gruppo di entusiasti giovani ricercatori e di docenti con a capo Robert Noyce e Gordon Moore – spese solo 150 mila dollari. Oggi la Intel è il maggiore produttore al mondo e ciò conferma che l’innovazione non è solo il prodotto di ingenti investimenti, ma il risultato di applicazione e creatività di ricercatori ben preparati.

Nel 1972 Faggin realizzò il microprocessore 8008, il primo chip da 8 bit di uso universale. L’8008, con la prima memoria statica, è in grado di conservare i dati sino a quando non viene interrotta l’alimentazione elettrica. Su questo chip gli ingegneri Nat Wadsworth e Robert Findley realizzarono il primo microcomputer, che fu prodotto in serie in scatola di montaggio dalla Scelbi e venduto per corrispondenza a 440 dollari. Anche la Digital realizzò nel 1974 con lo stesso microprocessore un microcomputer su un’unica scheda, ma a livello industriale non intuì il formidabile avvenire dei piccoli calcolatori, per continuare a dedicarsi ai minicalcolatori aziendali.

Nel ’74 Faggin lasciò la Intel e si mise in proprio fondando, a Cupertino, la Zilog, dove mise a punto lo Z-80, uno dei chip più popolari mai realizzati. Anche il nome Zilog fu inventato dallo stesso Faggin: la lettera zeta, ultima dell’alfabeto, stava ad indicare l’ultimo grido del campo dei microcircuiti, la ‘i’ per integrated, e ‘log’ per logico.

La rivoluzione al silicio è definitivamente partita per cambiare esponenzialmente la vita in tutto il mondo nell’ultimo quarantennio. Il passaggio, infatti, per trasformare un calcolatore, che all’epoca prendeva un’intera stanza (vedi l’IBM) in un personal computer, e più recentemente in uno smart-phone, passa per la superficie di un microprocessore grande come un’impronta digitale. E il merito creativo è di Federico Faggin che per primo al mondo riesce a concentrare tutto il gigantesco disegno del circuito in un meraviglioso microchip da “sembrare infine un quadro astratto, e volerlo siglare con le mie iniziali, F.F.”, come ricorda con orgoglio il suo designer e inventore.

Nel 1986 Faggin fonda la Synaptics, dove metterà a punto la prima “pelle del computer”, vale a dire il touch-pad. Per un decennio è il fornitore ufficiale di Apple. Quasi contemporaneamente realizza la tecnologia del touch-screen. Aveva proposto la sua invenzione a varie aziende tra le quali anche Motorola e Nokia, che all’epoca detenevano più della metà del mercato dei cellulari al mondo e qualche anno dopo spariranno nel nulla, ma entrambe non intuiscono l’importanza di questa nuova tecnologia e il suo grande potere.  Faggin incontra Steve Jobs, che intuisce subito i potenziali del touch-screen, e chiede vanamente l’esclusiva. La Synaptics rifiuta avendo lei in mano tutti brevetti della tecnologia e quanto necessario per affrontare un mercato potenzialmente ancora tutto da esplorare. Così Jobs si costruisce all’interno di Apple la tecnologia per il touch-screen, aprendo il mercato alla Synaptics che diventa così il fornitore delle ditte che competono con Apple.

 

Dal 2003 al 2008 Faggin presiede e dirige la Foveon Inc.  spin-off di Synaptics dedicato alla tecnologia di sensori di immagini (Foveon X3 technology), che successivamente verrà acquisita dalla giapponese Sigma.

In parallelo all’attività di Synaptics e Foveon nasce in Faggin una nuova sfida, quella di creare delle macchine capaci. Vuole realizzare delle macchine coscienti.” Inizia così lo studio della consapevolezza prima su sè stesso, perché come dice lui “non si dà consapevolezza se non a partire da se stessi, sperimentando la natura delle percezioni e dei sentimenti.”

Faggin crea nel 2011 la Fondazione Federico e Elvia Faggin. L’organizzazione non-profit, che porta anche il nome della moglie Elvia — fine divulgatrice scientifica oltre che colonna e compagna di mezzo secolo di vita tra ricerca e sperimentazione in Silicon Valley — attualmente finanzia studi sulla natura della coscienza in tre principali università californiane: UC Irvine, UC Santa Cruz dove ha creato una cattedra dedicata alla Fisica dell’Informazione, e l’Institute for Quantum Studies della Chapman University in Orange County.

Faggin ha ricevuto premi e riconoscimenti, oltre a numerose lauree honoris causa, in tutto il mondo, includendo nel 2009 la National Medal of Technology and Innovation, il più alto riconoscimento negli Stati Uniti d’America, consegnatogli dal presidente, Barack Obama

Per le sue invenzioni tecnologiche è l’unico italiano ad essere annoverato come “fellow” della “walk of fame” presso il Computer History Museum di Mountain View.

Alberta Bellussi

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In Veneto aprile è periodo di asparagi bianchi.

Sparasi e ovi. Risotto con gli asparagi. Frittata. Asparagi in tutti i modi dal primo al dolce. 

Ma cosa sono? Da dove arrivano?

Può sembrare strano ma l’asparago appartiene alla famiglia delle liliacee la stessa dei gigli e dei mughetti. Di questo ortaggio o fiore, forse è meglio chiamarlo, si mangiano i ” turioni “, i germogli, di sapore delicato, che si formano dai rizomi sotterranei. Il rizoma viene sotterrato e ha decorso generalmente orizzontale; da questo partono poi i vari germogli di asparago.

L’asparago, (asparagus officinalis) è originario dell’Asia occidentale, della Mesopotamia, ma lo si trovava anche nell’Europa meridionale dove cresceva come pianta spontanea. Furono poi gli Egizi che lo diffusero in tutto il bacino del Mediterraneo.

Marco Porzio Catone (234-149 a.C.) ne parla nella sua opera “De agricoltura”, descrivendone le tecniche di coltivazione e di impianto. Plinio e Giulio Cesare li citano in alcune loro opere forse erano asparagi selvatici favoriti dal clima piuttosto mite del territorio.

Quando i romani conquistano la Spagna vi diffusero anche la coltivazione dell’asparago che qui trovò il suo habitat ideale; la penisola iberica è ancora oggi una delle zone più produttive a livello mondiale.

Durante il Medio Evo furono quasi del tutto trascurati.  Solo nel 1400 vennero coltivati in Germania, Olanda e Polonia e nel 1700 in Francia.

Sotto Luigi XIV, la sua produzione appare nella zona di Argenteuil, vicino Parigi, dove trova la sua massima diffusione e vengono selezionate pregiate varietà, tra cui l’ottima “Precoce d’Argenteuil”, introdotta poi al seguito dell’esercito napoleonico, prima in Piemonte e in seguito in Veneto, Friuli-Venezia Giulia, Emilia Romagna e Toscana.

Due sono le versioni che spiegano la presenza dell’asparago bianco nel nostro territorio. La prima racconta che sia stata una scoperta del tutto casuale dovuta ad una violenta grandinata che si abbatté nella zona di Bassano, intorno al ‘500. Questa avrebbe distrutto la parte esterna dell’ortaggio costringendo così il contadino a cogliere la parte che stava sotto terra, cioè la parte bianca. Si accorse, con stupore, che oltre ad essere commestibile era anche saporita e di gusto gradevole e da allora si cominciò a cogliere l’Asparago prima che spuntasse da terra.

C’è un’altra leggenda: si narra infatti che S. Antonio da Padova di ritorno dalle missioni africane avesse portato con sè alcune sementi di asparago e che le avesse proposte per ammansire il feroce Ezzelino da Romano; infatti mentre se ne ritornava nella città patavina, avrebbe seminato tra le siepi del bassanese le sementi dell’asparago che presto spuntarono.

La presenza dell’asparago si trova anche spese nella nota spese per i banchetti della Repubblica Serenissima (XV e XVI sec.) si trovano notizie certe sull’esistenza dell’ortaggio. In documenti datati 1534 per esempio, ci si riferisce a spese fatte per il magnifico messer Hettor Loredan, “Official alle Rason Vecchie… per sparasi mazi 130, lire 3 et soldi 10”. Persino duran- te il Concilio di Trento (1545-1563) alcuni padri conciliari, passando per Bassano con il loro seguito, ebbero modo di gustare tra i vari prodotti locali, anche i “sparasi”; così tra discussioni teologiche e “magnade de sparasi” i padri conciliari promossero, forse, il primo lancio turistico dell’asparago, mettendone in risalto soprattutto le virtù dietetiche.

In Veneto l’asparago bianco è coltivato a Cimadolmo, Badoere, Verona e Bassano e hanno la denominazione  IGP o DOP.

Alberta Bellussi